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Channel: ARIANNA EDITRICE: rassegna stampa
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Angeli in astronave?

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Gli Angeli della Bibbia che appaiono ai profeti giudei e gli extraterrestri che appaiono ai cosiddetti “contattisti” e affidano loro messaggi di pace per l’umanità, sono una sola ed unica cosa? Sono la manifestazione dello stesso fenomeno, percepito e raccontato in maniera diversa, in base alle specificità storiche delle culture di appartenenza?

Si tratta di una “vexata quaestio” della quale si discute almeno dai tempi di George Adamski e che, se nei Paesi anglosassoni ha assunto una linea estranea se non ostile alla religione cristiana (Eric Von Däniken, Raymond Drake), in Italia ha dato luogo a un interessante tentativo di conciliazione fra “religione dei dischi volanti” e cristianesimo, soprattutto dopo la pubblicazione del libro di Giorgio Dibitonto «Angeli in astronave». In effetti, la natura degli incontri con le creature aliene e soprattutto il tono dei loro messaggi non è incompatibile con l’insegnamento cristiano: vi si parla di amore e fratellanza universale, di ritorno del nostro pianeta a Dio e di una prossima venuta di Cristo “sulle nubi”, il che, nel loro linguaggio, sembra voler dire “sulle astronavi”.

A sottolineare la compatibilità dell’ufologia, così intesa, e il cristianesimo, ci ha pensato il noto demonologo padre Corrado Balducci, autore di alcuni studi fondamentali sul fenomeno della possessione diabolica. Balducci, che è scomparso nel 2008, aveva partecipato alla presentazione del libro di Dibitonto, il 25 marzo 1983, presso la Libreria Internazionale “Remo Croce” - insieme al giornalista della R.A.I. Augusto Giordano e all’ufologo Eufemio Del Buono -, mentre ricopriva l’incarico di Direttore dell’Ufficio Evangelizzazione e Cultura del vaticano. La sua, dunque, era una voce autorevole che, se da un lato esprimeva le opinioni personali del sacerdote, dall’altro suggeriva una posizione possibilista della Chiesa cattolica circa il messaggio diffuso a nome degli extraterrestri da Dibitonto.

Riportiamo alcuni passaggi particolarmente significativi del discorso tenuto da Balducci in quella occasione (e riportato nel sito Internet «Angeli in astronave» di Giorgio Dibitonto), per svolgere in seguito alcune riflessioni; non senza osservare, in via preliminare, che Giordano Bruno era incorso nei fulmini dell’Inquisizione anche per aver sostenuto la pluralità dei mondi abitati (tesi che però non aveva fatto scandalo nel 1440, quando ad esporla era stato il cardinale e teologo Nicolò Cusano nella sua opera «De docta ignorantia»):


«Non nascondo che ho iniziato la lettura di questo libro con un certo scetticismo e con un animo da inquisitore cercando che cosa ci fosse che potesse portare contro certe verità fondamentali.
L’Ufologia è indubbiamente una materia molto suggestiva e in essa pertanto alcuni disturbi fisiologici e soprattutto psichici quali l’illusione, l’allucinazione, la suggestionabilità, possono giocare un ruolo importante: Ma che tutto si riduca a questo è una cosa insostenibile e pericolosa a motivo delle ormai troppe e troppo varie testimonianze. Quindi non è tutta fantasia. Siamo giunti ad un momento storico nel quale bisogna dire: qualche cosa di vero c’è!”.

Io, anni fa, scrissi qualche cosa nei riguardi di un altro campo scientifico o quasi, lo spiritismo. E ho scritto nel 1959: “Una incredulità esagerata, oltre ad essere contraria al più elementare senso di prudenza, può avere nel campo religioso ripercussioni funeste”. E qui citavo alcune frasi del libro “Spiritismo e Chiesa”: “Da un punto di vista logico, i cristiani che accettano i miracoli ed altri incidenti raccontati dal Vangelo, si trovano in una situazione eccezionale. Non possono coerentemente respingere con ostinazione le reiterate testimonianze di moderni testimoni attendibili che riferiscono ciò che i loro occhi hanno veduto e ciò che le loro orecchie hanno udito in circostanze che apparentemente escludono la possibilità di inganno. […]

Non è più il caso di dubitare. Oramai una porta è aperta agli ufologi, i fenomeni esistono, ne esisteranno dieci anziché cento, ma i fenomeni esistono. Ma come si spiegano questi fenomeni?
Le due attribuzioni possibili sono o eventuali abitanti di altri mondi o Angeli e Anime dei Defunti. Con gli Angeli mettiamo pure la Madonna, mettiamo pure, se si vuole, anche Gesù. Per quanto concerne i cosiddetti marziani, circa la possibilità della abitabilità di altri pianeti, noi non sappiamo nulla di certo e questo spiega anche perché il nostro Eufemio Del Buono espone nel suo fervore le motivazioni per l’atteggiamento attendistico della Chiesa in subordine alla scienza. Però la Chiesa può dire molto. La cosa è possibile. Parlo ovviamente dal punto di vista religioso e non dal punto di vista scientifico. Le possibilità di Dio sono infinite. […]

C’è stato un salesiano, morto alla fine del secolo scorso, Don Beltrami [precisamente, venerabile dal 1966], per il quale è in corso la causa di beatificazione. Questi, nelle sue preghiere, non mancava mai di ricordare i possibili abitanti di altri pianeti e scrisse un volumetto per dimostrare la possibilità di abitabilità di altri pianeti. Un fatto è, come dice San Paolo, che Cristo è centro e capo della creazione dell’universo. Non esistono pertanto mondi che non abbiano un riferimento a Cristo. Dai testi biblici si può affermare che Cristo, come Verbo Incarnato, esercita il suo influsso su tutti i possibili pianeti abitati. […] Il Credo di Epifanio, il Concilio di Costantinopoli, il Credo Costantinopolitano che recitiamo nella Messa in italiano: “Creatore di tutte le cose visibili e invisibili”.  […] Nel racconto bellissimo della scena della morte, cioè questa liberazione dell’anima, si capisce che già in questa vita c’è un’esigenza dell’anima di spiritualizzare il corpo. Quindi che dopo la morte esistano questi corpi sempre più spiritualizzati, non urta minimamente con posizioni teologiche. […] Esiste quasi come un corpo mistico naturale, non so se sia mai stata detta una frase del genere, ma mi sentirei di sostenerla. Noi conosciamo il corpo mistico che è il corpo che unisce i viventi cristiani, ma c’è anche il corpo mistico naturale che unisce tutti, non solo i viventi e in questo caso neppure i battezzati, ma anche i non viventi, la natura insomma. Il bene e il male degli uni non si ripercuote solo sugli altri, come nel caso del corpo mistico teologicamente parlando, ma sul mondo, sulla natura. […]

Un altro argomento interessante è il loro aiuto [degli extraterrestri] ai buoni, in questo cataclisma ed anche questo l’ho trovato in alcune profezie. Poi a questo cataclisma succederà un èra di felicità sulla Terra. E a Giorgio questo è stato detto, gli è stato detto di questo millenarismo. Questo millenarismo è qui nel libro inteso come Nuovo Eden e posso dire che c’è una risposta del Santo Uffizio che dice che ciò è una dottrina che non si può insegnare con tranquillità perché non ci sono le prove, quindi vedete, in fondo la Chiesa è stata molto larga. Non dobbiamo illuderci però che non arrivi una guerra, perché se non ci fosse più una guerra, noi avremmo cambiato natura. L’uomo, finché è l’uomo, darà motivo alla guerra nella famiglia, nel partito, nell’associazione, nella scuola… ci si adatta ai tempi. Le ultime guerre sono mondiali e saranno sempre più mondiali perché il mondo diventa sempre più piccolo, grazie al progresso dei trasporti e delle telecomunicazioni. Non dobbiamo illuderci che queste chiamate piccole guerre come Palestina, Afganistan, Vietnam, impediscano altre guerre più grandi. Come non dobbiamo lo dobbiamo illuderci col fatto delle bombe atomiche. Chi è così semplicistico fra noi da pensare che se c’è una guerra la combattano con le armi della guerra precedente?

Mi ha fatto molto piacere leggere il libro di Giorgio, perché mi ha dato motivo di vedere come oramai non è più l’uomo che appella il castigo alla bontà che è infinita, è misericordiosa, che però ha un limite pure quella, come è scritto nel libro. Ma non è solo l’uomo, ma è il mondo che farà la guerra anche all’uomo. Alla luce di queste considerazioni, né per gli uni né per gli altri si può escludere la possibilità di quanto è esposto nel libro. Nulla nel libro esiste, che urti con qualche verità rivelata e questo rappresenta un buon argomento a favore della autenticità del fatto.

Se qualcuno, come Giorgio, per motivi che la Provvidenza conosce e che si risolvono al bene dell’umanità, ha avuto il privilegio di penetrare nei segreti dell’aldilà e assaporarne in qualche modo le meraviglie, noi siamo grati anzitutto a Dio e poi a Lui che, attraverso una descrizione molto semplice, toccante e sentita, ce ne ha resi partecipi. Il libro, oltre che rappresentare un viaggio bellissimo, in un mondo paradisiaco, è un poema dell’Amore di Dio per noi e un pressante, ripetuto invito all’Amore, a Dio, al prossimo e alla natura, è un serio monito ad abbandonare l’odio e il male e di particolare conforto per quanto concerne il terribile cataclisma e fonte di grande gioia per ciò che ci attenderà dopo la prova.»

 

In effetti, le esperienze riferite da Dibitonto ricordano più delle estasi di tipo mistico, che degli eventi fisici veri e propri, con un ”dentro” e dun “fuori” chiaramente riconoscibili, e con un certo grado di verosimiglianza oggettiva.

Sia chiaro: ogni fatto che ci vede coinvolti, e del quale diveniamo, più o meno volontariamente, protagonisti, è filtrato dalla nostra coscienza e non può mai essere riferito in termini puramente oggettivi: quest’ultima era la pretesa della scienza positivista, ma la scienza contemporanea, specialmente dopo le ultime scoperte nel campo della fisica delle particelle sub-atoniche, l’ha definitivamente relegata fra le aspirazioni impossibili. Tutto ciò che noi esperiamo, lo esperiamo attraverso i NOSTRI organi di senso e la NOSTRA coscienza, dopo di che tentiamo di descriverlo con le NOSTRE parole, espressione del NOSTRO universo concettuale e, naturalmente, del NOSTRO livello di consapevolezza.

Da ciò non deriva, tuttavia, che qualsiasi allucinazione, sogno o fantasticheria abbiano lo stesso valore oggettivo di un evento perfettamente “reale”; significa solo che i confini fra ciò che consideriamo “oggettivo” e ciò che non lo è, fra ciò che consideriamo “reale” e ciò che non lo è, sfumano più di quanto saremmo disposti ad ammettere per amore delle nostre confortanti certezze. Il valore veritativo di un evento intensamente vissuto è sempre lo stesso, anche se i riscontri oggettivi sono scarsi o nulli: in altre parole, per noi è vero ciò che è vero per la nostra coscienza, in quel dato momento e in quelle date circostanze.

Un esempio banale: per un uomo che si trovi, disarmato, faccia a faccia con un leone, a pochi passi di distanza dalla belva che lo fissa minacciosa, il valore del tempo non è certamente quello segnato dalle lancette dell’orologio: per lui, i secondi sono lunghi come delle ore, i minuti come dei secoli. Se dovesse riferire la sua esperienza, non parlerebbe certamente di una esperienza brevissima, anche se tale può essere stata “oggettivamente”, ma di una lunghezza interminabile, addirittura eterna; meglio ancora: di un esperienza FUORI DAL TEMPO, nella quale il tempo sembra sia stato sospeso, oltrepassato, annientato.

Un altro esempio: per un uomo che sta vivendo un incubo, magari dovuto all’assunzione di sostanze allucinogene, il ragno gigantesco che avanza verso di lui per ghermirlo nelle sue zampe pelose dalla lunghezza spropositata, è tanto reale quanto potrebbe esserlo, per lui sveglio, la tazzina del caffè posata sul tavolo o il giornale fresco di stampa, appena acquistato dall’edicolante. L’angoscia che quella visione gli ha provocato era assolutamente reale, in nulla distinguibile dall’angoscia che avrebbe provato per un pericolo “oggettivo”, come potrebbe esserlo accorgersi improvvisamente, durante una gita in macchina lungo una discesa a tornanti d’una strada di montagna, che i freni, chi sa come, sono sul punto di cedere.

Fatta questa precisazione, resta il fatto che noi abbiamo bisogno, per esigenze pratiche derivanti dal nostro senso di identità e anche dalle nostre relazioni sociali, di distinguere, almeno in linea di massima, ciò che accade “dentro” la nostra coscienza, da ciò che accade “fuori” o, per dir meglio, da ciò che accade ANCHE al di fuori di essa. Ebbene, le esperienze di Giorgio Dibitonto con gli alieni sembrano doversi collocare in una “zona grigia” che non rientra con sicurezza in nessuno dei due ambiti, ma che sfuma impercettibilmente dall’uno nell’altro.

Prendiamo il racconto del primo “incontro”, così come egli stesso lo descrive (da: G. Dibitonto, «Angeli in astronave», Roma, Edizioni Mediterranee, 1983, p. 27):

 

«Ero sul letto per un breve riposo pomeridiano. Stavo prendendo sonno, quando una nitida visione apparve dinanzi ai miei occhi.  Vedevo un bosco, i suoi alberi, il sottobosco e l’erba  divisa da un sentiero. Mi sentii invadere da una pace profonda.»

 

Come si vede, per sua stessa ammissione, il protagonista si stava appisolando, dunque la sua coscienza si trovava in quella terra di nessuno che si colloca fra la veglia e il sonno e che, lo sappiamo dai racconti di innumerevoli esperienze mistiche, si presta particolarmente all’apertura spontanea verso piano di consapevolezza esistenziale diversi da quello ordinario.

Difficile, perciò, se non impossibile, voler distinguere se il soggetto, in quel momento, fosse desto o addormentato; se quel bosco, che gli apparve così vividamente e che suscitò in lui un senso così riposante di pace e benessere, fosse una visione “reale” o no (a questa domanda risponderanno gli eventi successivi; qui ci limitiamo a evidenziare come il colore verde, tipico di un bosco nella bella stagione, è particolarmente rilassante per la psiche umana, come è stato mostrato “ad abundantiam” da tutta una serie di ricerche psicologiche.

Il racconto prosegue così:

 

«Attesi di comprendere il significato di quanto mi stava accadendo,  e allora udii la voce di Raffaele che mi disse: “Osserva bene il luogo. Lo riconoscerai.  È stato prescelto per un nostro incontro”.

Tutto scomparve, e mi restò una calma serena »

 

L’entità chiamata “Raffaele” era già apparsa due volte al protagonista, in casa sua, nello stesso luogo e con le identiche modalità. Mentre l’uomo si trovava in uno stato di sereno rilassamento, una figura gli si era materializzata davanti, splendente di luce, con una lunga tunica scintillante, un paio d’ali e i piedi nudi; la seconda volta gli aveva detto il proprio nome e lo aveva invitato a leggere il Libro di Tobia, nella Bibbia, “per conoscerlo meglio”. Evidentemente intendeva presentarsi come la guida verso la dimensione ulteriore; è significativo che la seconda apparizione fosse avvenuta nei giorni intorno alla Pasqua, il che ne sottolinea il carattere religioso.

Si noti l’andamento dolce e riposante, per niente traumatico, di tutto il racconto e come esso richiami alla mente, per il senso di trepidante attesa e di incondizionata fiducia, pagine famose della Bibbia e anche del Nuovo Testamento, ad esempio il sogno di Giuseppe dopo la nascita di Gesù. Già dopo la seconda apparizione, così si esprime Dibitonto  (Op. cit., p.  24):

 

«La sua luce si diffondeva per tutta la stanza ed era come se mi penetrasse profondamente. La radiosa bellezza di quell’essere creava in me un dolce sconvolgimento e il desiderio che non se ne andasse Completamente preso dalla visione,  non riuscivo né a muovermi né a pensare ad altro.»

 

« Cercai di indagare la natura dell’incontro promessomi. Pensai che l’apparizione sarebbe tornata a mostrarsi lassù nella natura anziché tra le pareti di casa. Questa mi parve una risposta; ma sentivo che non era tutto. Ricordai quanto mi aveva detto Raffaele: “Mi rivedrai”. Decisi di restare tranquillo nell’attesa.»

 

Il racconto prosegue con lo stesso ritmo calmo e fiducioso, con la stessa pacatezza e distensione, ma sempre pervaso da un senso di estatica e progressiva illuminazione.

Una notte, quella del 23 aprile 1980 (non viene detto quanto tempo fosse trascorso dalla prima “visione”), l’Angelo  gli comunica che due giorni dopo egli avrebbe dovuto prendre la macchina e recarsi a Finale Ligure, dove avrebbe ricevuto ulteriori istruzioni. Lì giunto, la voce di Raffaele gli dice di proseguire per  Calice, indi su per la montagna, fino a un certo punto; poi di proseguire a piedi. È così che Dibitonto riconosce, dopo una tratto di sentiero in salita, il luogo boscoso di cui aveva avuto la visione. Sempre incoraggiato dalla voce angelica, che lo esorta alla serenità e alla fiducia, l’uomo assiste alle evoluzioni di un disco volante dai cui oblò fuoriesce una luce bianchissima.

A questo punto la voce lo informa che il loro è uno dei numerosi incontri decisi dalla fratellanza dell’Amore Universale  per portare agli esseri umani aiuto e salvezza. Citando indirettamente un passo del Vangelo di Giovanni, precisa, parlando al plurale, che “loro” vengono da una delle tane dimore del Padre. Poi, dopo averlo assicurato della speciale protezione degli esseri celesti, la voce lo saluta  nel nome del Padre universale. Da ultimo, mentre l’Angelo sta con le braccia aperte sotto il disco e altre presenze sono apparse tutto intorno, l’oggetto sospeso si allontana repentinamente, lasciando solo una nube che si dissolve sopra la cima degli alberi.

Questo è stato il primo incontro con una astronave aliena; ne seguiranno altri e Dibitonto verrà anche invitato a salire a bordo e a viaggiare nello spazio. Ogni volta riceve dei messaggi di amore cosmico, peraltro molto generici, i cui contenuti non divergono molto da quelli di alcune celeberrime apparizioni mariane, da Fatima a Lourdes a La Salette. E ogni volta il tutto si svolge in un clima estremamente sereno e gioioso, quasi estatico.

Ben diverso è il tono della stragrande maggioranza dei racconti di “abduction”, ossia di rapimenti di esseri umani da parte di creature aliene, che lasciano un pesante retaggio di paura, angoscia, depressione; così come è diverso, per dire la verità, anche il clima delle apparizioni mariane, che, se da un lato suscitano nei soggetti interessati sentimenti profondi di pace e rapimento mistico, non sono scevri da una vena di inquietudine o perfino di dolore, anche per l’annunzio delle gravi calamità che stanno per abbattersi sul genere umano allontanatosi da Dio.

Sembra che anche le creature “angeliche” apparse a Dibitonto gli abbiano preannunciato gravi catastrofi, ma solo come preambolo alla restaurazione gloriosa del regno di Dio; in ogni caso, nei suoi racconti è del tutto assente quella nota pensosa, malinconica, a volte decisamente mesta o sofferta, che si riscontra nei racconti di Suor Lucia o di Bernadette. Tutto sembra essersi svolto in maniera assolutamente dolce e non traumatica: nessun senso di paura o di angoscia, nessuna sofferenza interiore prodotta dalla straordinarietà dell’esperienza stessa, dalla consapevolezza di non poterla adeguatamente riferire (per non parlare del timore di non essere creduto) o dal contenuto dei messaggi ricevuti.

Che dire di tutto questo?

La storia successiva ci interessa poco; per chi lo desideri, esistono libri, riviste e siti Internet nei quali può apprendere come, poi, Dibitonto abbia cercato di diffondere i messaggi ricevuti dagli extraterrestri, riuscendo anche ad attirare l’interesse, come si è visto, di monsignor Balducci e di altri studiosi. Quello che ci interessa è il grado di attendibilità che possiamo dare non tanto all’esperienza in se stessa, che chiaramente presenta risvolti più mistici e interiori che fisici e tipicamente ufologici, quanto alla plausibilità di una identificazione fra gli extraterrestri e quelli che la tradizione biblica presenta come esseri angelici, intermediari fra Dio e l’uomo.

Non vi è dubbio che, se un Ebreo vissuto qualche secolo prima di Cristo avesse dovuto raccontare una esperienza di tipo extraterrestre, avrebbe adoperato immagini ed espressioni tipiche del suo bagaglio culturale (e che altro avrebbe potuto fare, se no?), più o meno nei termini con i quali troviamo descritto il “carro di fuoco” nella famosa visione di Ezechiele. Questo non significa che tutti i passi della Bibbia in cui si descrive l’apparizione degli Angeli, o anche soltanto alcuni di essi, siano in realtà delle descrizioni di visitatori alieni.

Piuttosto, è evidente che gli alieni descritti da Dibitonto, al netto della possibilità di una truffa pura e semplice o di una forma di esaltazione patologica della facoltà immaginativa, sono e vogliono essere identificato come altrettanti Angeli; del resto, lo dicono esplicitamente: «noi siamo apparsi sovente in passato agli umani, come è narrato nella Bibbia». Di più: essi adoperano un linguaggio molto simile a quello biblico; e le loro fattezze fisiche, se pure possiedono un corpo fisico come lo intendiamo noi, corrispondono alla più classica iconografia cattolica.

La domanda inevitabile che dovremmo farci, arrivati a questo punto, è quale differenza sostanziale possa esservi fra un Angelo e un extraterrestre, pensando a quest’ultimo non come una creatura materiale, ma come una creatura spirituale, fatta di luce ed energia. Se lo è chiesto anche padre Balducci, il quale ha ipotizzati che gli “alieni” visti da Dibitonto possano essere in realtà le anime dei defunti, dal corpo trasfigurato mediante il passaggio liberatorio della morte; ma è stato proprio quest’ultimo a negare decisamente una tale interpretazione.

E allora?

Il minimo che si possa dire, davanti a interrogativi di questo genere, è che gli extraterrestri, se esistono (e tutto lascia pensare che esistano e che da tempo stiano interagendo con gli umani), non possono appartenere ad un’unica specie, ma a molte specie diverse, alcune delle quali, forse, bene intenzionate nei confronti dell’uomo, altre no. Ciò rende ragione delle enormi differenze nei racconti di quanti dicono di averli incontrarti o di essere addirittura saliti a bordo delle loro navi intergalattiche (o interdimensionali, a seconda dei punti di vista), in certi casi volontariamente, in altri come dei puri e semplici rapiti.

Così, se si potessero identificare gli Angeli con gli alieni animati da sentimenti positivi nei nostri confronti, non si vede perché non sarebbe possibile anche l’identificazione opposta, cioè quella dei Diavoli della tradizione cattolica, con gli alieni ostili e malvagi, che non si curano affatto della vita e della serenità degli esseri umani, di cui si servono come cavie da laboratorio e che terrorizzano prima di rilasciarli - posto che alla fine li rilascino sempre.

Ma è possibile, è lecita una tale doppia identificazione, e sia pure solo in via d’ipotesi?

Noi crediamo di sì: ma, appunto, solamente a livello congetturale. Siamo davanti ad una realtà che sfugge alle categorie della nostra mappa concettuale, e per la quale non riusciamo a trovare nemmeno le parole giuste, presupposto indispensabile per riflettere su di un determinato fenomeno e per fare il punto intorno alle questioni che esso eventualmente solleva.

Pertanto, si può dire che stiamo appena incominciando a elaborare le basi minime indispensabili per approfondire la ricerca. Nulla vi sarebbe di più sbagliato, che gettarsi sconsideratamente nei due estremi opposti: della negazione aprioristica e della faciloneria ingenua, credendo di aver risolto una questione che stiamo appena incominciando ad impostare e a valutare, in tutta la sua sconcertante complessità…


Finis Austriae, fine dell'Europa Parola di Fejtö

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Per il grande intellettuale l'Austria-Ungheria non "implose" ma fu distrutta da Francia e Inghilterra Da lì derivò una serie di tragedie del Novecento


Quando scoppiò la Grande Guerra, François Fejtö aveva cinque anni. Assistette incuriosito dal balcone della casa della nonna all'euforia dei contadini festanti in partenza per la guerra convinti di tornare presto vincitori.

Poi, sul finire dello stesso anno, si trovò di fronte a un altro spettacolo che gli provocò tristezza e turbamento: quello di tanti giovani che non ritornavano coperti di gloria, ma provati dalla durezza del conflitto. I ricordi infantili sedimentarono nella coscienza del grande intellettuale la cui vita avrebbe attraversato tutto il Novecento, in qualche caso partecipe in qualche altro testimone delle grandi tragedie del secolo.

Sulla Grande Guerra e sulla fine dell'impero multinazionale austro-ungarico, egli continuò a riflettere in maniera ossessiva, ma solo nel 1988, alla vigilia del crollo del muro di Berlino, pubblicò un'opera dedicata a quei tragici avvenimenti. Quel lavoro, da troppo tempo scomparso dalle librerie e ora riproposto con un ampio saggio introduttivo di Maurizio Serra (saggio che, opportunamente rielaborato, è pubblicato dalla rivista Nuova Storia Contemporanea nel fascicolo appena uscito), ha un titolo suggestivo e provocatorio, Requiem pour un empire défunt. Histoire de la destruction de l'Autriche-Hongrie (Perrin, pagg. 638, euro 11).

È comprensibile che la fine dell'impero asburgico abbia segnato in profondità François Fejtö, un ebreo poi diventato cattolico, che, nato in una piccola città dell'Ungheria sud-occidentale, nei pressi del lago Balaton, apparteneva a una famiglia la cui storia si era sviluppata all'interno di tutti (o quasi) i territori della Duplice Monarchia. Una zia, per esempio, aveva nel Friuli, vicino Udine, una casa di campagna dove la famiglia era solita riunirsi, con un rito patriarcale, durante l'estate. Il padre, direttore di un importante quotidiano, era un ardente patriota ungherese il quale apprezzava l'imperatore al punto che, quando sul finire del 1916 gliene fu comunicata la morte, la commentò in modo grave con una sola battuta: «È la fine di un mondo».

In fondo, Fejtö era non tanto un suddito di un impero al tramonto quanto piuttosto il figlio di una ideale Europa cosmopolita, multiculturale e multietnica, che l'Austria-Ungheria sembrava garantire e tutelare. Le sue inquietudini e il suo lungo e tormentato itinerario culturale e politico - dagli iniziali contatti con i marxisti di Budapest e di Vienna al rifiuto del loro fanatismo, dalla lotta contro il fascismo e il comunismo alla scelta dell'esilio nella cosmopolita Parigi - sono all'origine della scoperta del suo «conservatorismo liberale e socialista» maturato attraverso le frequentazioni di intellettuali come Emmanuel Mounier, Arthur Koestler e, soprattutto, Raymond Aron. Con la sua eccezionale capacità di analisi critica, con il suo indiscutibile anticonformismo, con il suo amore per la libertà e per la verità storica, Fejtö descrisse la genesi, l'evoluzione, la fine delle cosiddette democrazie popolari e gli sviluppi del comunismo in volumi diventati classici.

Dietro il comunismo e le democrazie popolari, dietro il dramma delle grandi tragedie del Novecento c'era la fine di quel mondo rappresentato dall'Austria-Ungheria. Ecco perché, in un certo momento della sua vita, Fejtö decise di scrivere il suo Requiem pour un empire défunt , un'opera di lunghissima gestazione. Aveva cominciato a pensarvi già nel 1937 poco prima dell'Anschluss quando, uscendo dalla sede degli archivi viennesi, incappò in un gruppo di nazisti che distruggevano le vetrine di negozi gestiti da ebrei e si trovò a riflettere sulla connessione fra quei fatti, espressione di un nuova epoca di violenza, e la scomparso del «mondo di ieri» fatto di solidità e certezze. Quel progetto, però, Fejtö riuscì a completarlo solo mezzo secolo dopo, o giù di lì, quando il sistema comunista, malgrado tante riconosciute difficoltà, non sembrava prossimo a implodere e il confronto ideale con il grande impero multinazionale e le sue fibrillazioni interne si imponeva.

A molti, il volume non piacque. Non solo per quel titolo dove la parola «requiem» sembrava declinare il registro della nostalgia per l'«impero defunto», quanto piuttosto per il sottotitolo che, evocando la «distruzione dell'Austria-Ungheria» capovolgeva la vulgata che attribuisce la scomparsa della Duplice Monarchia a un processo di «dissoluzione» interna dovuto alla sclerosi di un sistema politico incancrenito e all'azione disgregatrice delle nazionalità. Sotto un certo profilo, anzi, il lavoro di Fejtö si poneva come una replica al pur eccellente volume del suo amico Leo Valiani, intitolato proprio La dissoluzione dell'Austria-Ungheria (1985).

Secondo Fejtö le spinte centrifughe e autonomistiche delle nazionalità che avevano convissuto nell'impero - austriaci, ungheresi, slovacchi, ruteni, romeni, croati, polacchi, italiani e via dicendo - non avrebbero potuto determinare da sole la «disgregazione» o la «dissoluzione» dell'edificio sovranazionale se non fossero state sostenute e incoraggiate dalle potenze dell'Intesa. Se, in altri termini, lo smembramento della Duplice Monarchia non fosse stato voluto e deciso dall'esterno. Alla «distruzione» dell'impero, all'idea di una delenda Austria si cominciò a pensare - è questa la tesi di Fejtö - fra 1916 e 1917 quando diversi fattori (la stagnazione delle operazioni militari, la rivoluzione russa, l'ingresso in guerra degli Usa) fecero assumere al conflitto una dimensione ideologica e spinsero le potenze dell'Intesa, soprattutto Francia e Gran Bretagna, a scegliere un'opzione che avrebbe garantito loro zone di influenza e possibilità di controllo dell'espansionismo sovietico. Fejtö supporta la sua tesi con una minuziosa ricerca documentaria e conclude che la scelta delle diplomazie europee, in virtù della quale «l'Austria-Ungheria non è esplosa, ma si è fatta esplodere», fu un colossale errore storico sanzionato da trattati di pace siglati all'insegna dell'ipocrisia. E fu, soprattutto, un errore di miopia politica.

Chi tentò di uccidere il magistrato Clementina Forleo?

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Il magistrato Clementina Forleo mi parlò a lungo a cena a casa sua a Milano di cosa le stavano facendo. Le piccole cose erano l’improvvisa rottura con Marco Travaglio e Lorenzo Fazio (editore di Chiarelettere e azionista del Fatto Quotidiano), quelli che si erano inventati lo slogan “Clementina facci sognare”, appiccicato ovunque nei blog delle ‘belle anime’, per poi scomparire d’improvviso (lo slogan) chissà perché. (So perché ma non ho le finanze sufficienti a rivelarlo, visto che la Censura Legale ancora impera, e tocca star zitti, se no mia madre cieca di 91 anni finisce assieme a me a dormire sotto i ponti solo per le parcelle dell’avvocato).



Ma qualcuno nei circoli più alti non la gradiva, la Forleo. Il tentativo di uccidere la Forleo accade fra il 4 e il 5 dicembre 2009. Un’auto, mi racconta Clementina, la speronò di proposito al fine di farla finire contro uno sperone di guardrail mentre rincasava da Cremona a Milano. Poi fuggì. Fu ferita gravemente.

Ora, escludiamo che i mandanti fossero Massimo D’Alema, Piero Fassino e Nicola Latorre, PD, perché né io né la Forleo ne abbiamo le prove. E anche perché se mai ne avessimo le prove moriremmo domani, e se non morissimo domani moriremmo sepolti di querele. Ma vale la pena notare una cosa: nessuno, dico NESSUNO dei magistrati o GIP che hanno indagato Berlusconi in 3 trilioni di processi ha mai subito un tentativo d’omicidio, né Censura Legale. La ‘rossa’ lo ha indagato per millenni e risulta goda di ottima salute. Non risulta che sia stata speronata o che le abbiano bruciato case (come invece accadde alla Forleo). Ok. Sono solo supposizioni.

Allora, chi tentò di far fuori la Forleo che indagò sui cosiddetti “furbetti del quartierino” ben oltre le pisciatine mediatiche di Travaglio?

Mi piacciono i frappè, e facciamone uno: si prende un frullatore e vi si butti Di Pietro, Bruti Liberati, Stanò, Greco, Spataro, De Magistris, Magistratura Democratica, Tinelli, Latorre, Vulpio, scalate BNL-Antonveneta-Rcs-Unipol, Livia Pomodoro, Gamacchio, Finocchiaro, Imposimato, e lo spokesman Travaglio.

Cosa ne esce?

Tre cose.

Una: dimenticata da Dio e dagli uomini è Clementina Forleo, ricattabile perché seppellita da cause del CSM (da cui sembra essere uscita vincitrice ma che costano decine di migliaia di euro ciascuna), e perché ha una bambina piccola da crescere.

Due: le telefonate isteriche di Travaglio alla Forleo con insulti e accuse di ingratitudine, ma taaaanto nervosismo povero Marco (perché Marco??)… ecc.

Tre: chi tocca il PD in Italia chissà perché finisce sempre male, se non morto (per grazia di Dio non fu il caso della Forleo), almeno distrutto nella carriera (fu il caso della Forleo e mio), isolato, diffamato a morte (fu il caso della Forleo e mio). Chi tocca il Cavaliere guida tranquillo da qualsiasi partenza-destinazione, fa carriera, e vive sereno, oppure diventa un eroe popolare. Llllla-lllla-lllllà, vi ricorda nulla l’urlatore de “lo psiconano”, che non solo non è finito contro un guardrail ma è finito in Parlamento? E Marco? E l’homo ridens Peter Gomez? Cazzo di carriere hanno fatto sti boys, mica come la Forleo (o me).

Chi ha cercato di uccidere Clementina Forleo? Nessuno. Non scherzo, nessuno. E’ un fatto di metafisica kharmica italiana: se indaghi o se critichi (Barnard “Il Più Grande Crimine 2011”) il centrosinistra italiano - che ha VENDUTO 70 MILIONI DI ITALIANI A GOLDMAN SACHS - sei fottuto/fottuta. Poi è solo coincidenza, davvero, è kharma italico, ma tant’è. I misteri del kharma.

(mamma, perdonami, non so stare zitto, tanto 91 anni li hai vissuti)

 

Quando l’ISIS erano gli inglesi. La barbarie non appartiene a un solo popolo

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E’ il leader di una piccola forza militare, forse 500 soldati, ed è ben determinato a sottomettere la provincia, e intende farlo in fretta. Il terrore è la sua politica esplicita. Ogni incursione in territorio nemico è seguita da un massacro indiscriminato. Ogni uomo, donna e bambino viene ucciso. Case, chiese, colture – tutto è bruciato e depredato. Ogni notte le teste di coloro che sono stati uccisi vengono messe in fila lungo il sentiero che porta alla sua tenda. In tal modo “le persone potranno vedere le teste dei loro padri, fratelli, bambini, parenti e amici e capiranno chi è che comanda.

Se questa vi sembra la barbarie che l’ISIS ha ormai reso persino banale, ripensateci. Non è l’ISIS. Sono gli inglesi in Irlanda nel 1569 e il leader in questione è Humphrey Gilbert che, per questi “successi”, è stato nominato cavaliere per poi diventare membro del parlamento.

Tracciare analogie tra eventi storici così distante nel tempo è sempre scivoloso, le circostanze cambiano. Tuttavia il passato è utile per la nostra comprensione del presente. Nella storia inglese non c’è nulla che possa essere accostato all’ISIS ma se guardiamo a come gli inglesi si sono comportati in Irlanda qualche analogia si trova: è là che gli inglesi hanno ceduto con maggiore gravità al velenoso cocktail di ipocrisia religiosa e nazionalismo che oggi intossica l’ISIS. Il protestantesimo e il wahhabismo sono più vicini di quanto pensiamo. 

Cinque anni dopo, nel 1574, il conte di Essex si trova alla testa dell’esercito inglese in Irlanda. Una volta giunto sull’isola di Rathlin, a nord della costa di Antrim, ordina di dare la caccia e macellare 400 donne e bambini del clan O’Donnell. Alcune riuscirono a nascondersi dentro cavità rocciose lungo la costa ma gli uomini del conte di Essex diedero fuoco all’ingresso delle grotte, soffocandole e uccidendole quando cercavano di uscire dal loro nascondiglio.

A Smerwick, sulla costa occidentale dell’Irlanda, nel novembre 1580, un gruppo di circa 600 soldati spagnoli si arrese a truppe inglesi sotto il comando di Lord Grey di Wilton il quale, una volta disarmato gli spagnoli, li passò tutti a fil di spada. Ma non bastò. Le donne della guarnigione difesa dagli spagnoli vennero impiccate, anche quelle incinte. Tre prigionieri furono portati dal fabbro locale che fu costretto a sbriciolare le loro ossa a colpi di martello mentre si trovavano legati a un’incudine. Gli inglesi quindi usarono i loro corpi per il tiro al bersaglio. Quando seppe dell’accaduto la regina, Elisabetta I, fu radiosa. La sua nota manoscritta inviata al conte di Grey recitava: “Lei è stato scelto come strumento della gloria di Dio”.

Come i fondamentalisti dell’ISIS hanno distrutto Nimrud, così l’iconoclastia protestante si accanì contro le vetrate delle chiese cattoliche, contro le statue dei santi - butatte giù dalle loro edicole e ridotte in macerie – e contro i dipinti, strappati e bruciati dagli inglesi che poi fecero razzia di ogni tesoro rimasto. Alcuni edifici sono stati distrutti con maggiore perizia di altri, come il magnifico monastero cluniacense di Lewes che Cromwell ordinò fosse raso completamente al suolo. [...]. Nell’agosto del 1578 la caccia ai cattolici arrivò a casa di Edward Rookwood, nobiluomo dell’East Anglia. La sua casa fu perquisita finché, nascosto nel fienile, non fu trovato un dipinto raffigurante la Vergine Maria. Un’opera come “per bellezza e fattura non ne vidi altre simili in vita mia”, scrisse Richard Topcliffe, poi diventato tristemente noto come torturatore agli ordini del governo. Elisabetta I ordinò che l’immagine fosse bruciata pubblicamente nella notte.

La depravazione dell’ISIS è fuori questione, ma la storia ci insegna che il talento umano per la depravazione non appartiene solo a un popolo, a una cultura, a una fede. Il male è banale e crudelmente ripetitivo. La questione, quindi, non deve concentrarsi sulle ragioni per le quali l’ISIS si comporta in un certo modo, ma su quali condizioni rendono possibile e incoraggiano comportamenti umani come quelli.La linea che corre da Gilbert ad Abu Bakr è breve. E sicuramente è troppo breve per la nostra superiorità morale.

articolo apparso sul settimanale britannico New Statement, consultabile qui in lingua originale.

Craxi fu quasi un oracolo

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Spero che nessuno sia così cretino da restare sconvolto perché cito Craxi. Questo discorso – che, se capisco, è stato scritto o detto almeno vent’anni fa – è molto lucido e avveniristico. Potrei certo ricordare che forse non razzolava troppo bene nemmeno lui. Anche se sono stufo di sentir dire che era un ladro. Lo possono dire solo quelli che non sanno cos’è la politica. Un uomo politico di una certa levatura deve essere sempre pronto ad evenienze negative. E a Craxi infatti capitarono: fine della carriera politica ed esilio. Poteva restare in Tunisia tranquillo, senza correre pericoli (o comunque con sufficienti difese) se fosse stato nullatenente? Bisogna ungere ruote, eccome! Ci sono un mucchio di esiliati che hanno finto di essere privi di ogni sostentamento e protezione. Balle; altrimenti significava che erano delle nullità, ignorati da tutti. Non fu il caso di Craxi; e bisognava che non parlasse troppo. La lucidità qui mostrata gli derivava da conoscenze precise che non rivela. E del resto fa una “piccola” omissione. Anche lui si getta addosso ai “poteri forti”, finanziari, le oligarchie di qua e di là. Sapeva bene che tutto discendeva dai centri strategici Usa e da coloro che, in nome di questi ultimi, potevano emettere i comandi necessari. Esattamente del tipo di quelli che sono stati emanati quand’è venuto il momento di ridimensionare definitivamente Al Qaeda e di assassinare Bin Laden. Craxi mostra troppa lucidità per non sapere anche questo; ma lo tace, et pour cause!

L’unico rilievo vero che è possibile fargli è circa la sua convinzione che il crollo dell’Urss e del campo “socialista” fosse una vittoria di un socialismo come quello suo. Andreotti capì subito che la fine del mondo bipolare era anche la fine sua e della sua parte politica. Craxi si illuse? Mi sembra strano, eppure subito dopo l’’89 e fino a “mani pulite” sembrò veramente esaltarsi per la propria “vittoria”. Come non sapesse – e sapeva invece – ciò che andavano tramando i postpiciisti proprio con gli Usa (o almeno alcuni loro ambienti di rilievo). Non so che pensare. Credo che quegli ambienti americani lo abbiano ingannato, gli abbiano fatto delle promesse, mentre lavoravano – con personaggi socialisti alla Amato, ecc. – per liquidarlo. Andreotti non ci cascò. Lui sembra di sì. Non poteva non sapere che il Pci, con Berlinguer (quindi già almeno dal 1969), lavorava al cambio di campo. Il viaggio di Napolitano del 1978, il rapimento di Moro, ecc. non potevano non essergli chiari nel loro significato più proprio, quello mentito, nascosto, ancor oggi! E “mani pulite” lo fece fuori mentre salvava i postpiciisti. E sembra che solo allora abbia infine capito il doppio gioco dei vertici statunitensi in merito alla guida politica dell’Italia.

Tutto questo conta solo per cercare di capire quale gioco complesso, e tutt’altro che pulito, abbiano condotto i già ricordati ambienti Usa con al loro servizio i piciisti eredi di Berlinguer (lo ripeto per i semicolti: eredi di Berlinguer, il MORALISTA!). Qui possiamo comunque esulare dalla figura di Craxi e dal gioco politico di cui fu protagonista e vittima. Metto questo discorso perché è lucido, premonitore, dice a quale bassezza e meschinità sarebbe arrivato il personale scelto dagli Usa per servirli una volta messo in moto il meccanismo giudiziario. Dice tutto con esattezza; salvo, lo ripeto, il punto riguardante le oligarchie finanziarie. Qui si rassegna a tacere; anche lui esalta la funzione del dito, e tace della Luna che questo indica. Però, rispetto alle menzogne che abbiamo, salvo eccezioni, letto negli ultimi vent’anni….! La “sinistra” si è rivelata un’effettiva “infezione”; la “destra” ha mostrato inettitudine, incapacità di rappresentare una credibile alternativa, assenza di vera dignità nazionale. Che disastro la politica in questo paese! Quindi il discorso di Craxi sembra provenire da un Oracolo. E comunque ci arriva ormai dall’oltretomba.

Maggio 1915 Maggio 2015

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Certo, a vederle quelle immagini sbiadite dal tempo, a sentir parlare di Prima Guerra Mondiale, ad ascoltare musiche stonate dalla distanza temporale che ci separa da quegli eventi, sembra di percorrere le nebbie dello spazio-tempo, a ritroso, in una dimensione che non ci appartiene, per gli anni luce che sembrano separarci da essa. Invece no. La Grande Guerra appartiene al nostro presente, eccome. Essa è stata la mallevadrice e la nutrice della nostra Modernità. Nel bene e nel male. Con tutto il suo infinito carico di lutti, tragedie e sentimenti violenti e contrastanti che le fecero da contorno. Gli opportunismi dei Salandra e dei Sonnino, gli attendismi dei Giolitti, i continui cincischiamenti del nano savoiardo Vittorio Emanuele III,  gli accordi sottobanco, al pari dei repentini cambi di alleanze, che dominarono per intero la scena politica nazionale ed europea, non arrivarono ad intaccare il carattere profondamente innovativo e rivoluzionario della Grande Guerra. Gli antichi e traballanti Imperi Austro Ungarico, Germanico, Ottomano e Russo, (retaggio di equilibri che risalivano alla configurazione geostrategica dell’Europa, così come era venuta a determinarsi agli albori della Modernità) furono “dismessi” e con loro tutto il bel mondo apolide, cosmopolita e decadente della “Belle Epoque”. A farsi largo, furono rivendicazioni identitarie che avrebbero dovuto ridare linfa e vigore ad un’ Europa insofferente sia verso l’ordine borghese venutosi a determinare nel 19° secolo, che verso lo stantio mondo delle monarchie ereditarie, che non riusciva a tenere il passo con lo sconvolgente irrompere della Modernità. Fu la guerra del Nuovo contro il Vecchio. Del Futuro contro il Passato. Della speranza contro la rassegnazione. Ma fu anche un primo e significativo irrompere delle masse sul proscenio della Modernità. L’essere improvvisamente catapultati da una dimensione di quotidiana ordinarietà, all’esperienza della guerra, connotata dal senso di precarietà dell’esistenza, nelle fangose trincee di mezza Europa, al pari dei terrificanti ed esaltanti orizzonti spalancati dal prepotente ingresso della Tecnologia anche nell’ambito bellico, plasmarono quelle masse proiettate in quel turbinare di eventi, verso una presa di coscienza, sino ad allora ignota. I precedenti non erano certo mancati. Il Risorgimento, l’insurrezionalismo repubblicano di Giuseppe Mazzini, la Comune di Parigi, l’episodio di Carlo Pisacane, l’anarcosindacalismo di Georges Sorel, il sindacalismo rivoluzionario di Filippo Corridoni, il Fascio Rivoluzionario di Azione Internazionalista di Michele Bianchi, l’Avanguardia Futurista di Filippo Tommaso Marinetti, ma anche i progetti insurrezionali di Bakunin, accanto ai primi tentativi di sollevazione portati avanti da Lenin e dalla Rosa Luxembourg e da altri ancora, a partire dal 1917, nell’immediato dopoguerra, andarono concretizzandosi in una serie di insurrezioni e rivolte su scala mondiale. Queste ultime, rappresentarono le risposte concrete a tutte quelle istanze incentrate sulle problematiche poste dall’impeto con cui la tecno-economia, a partire dal 19° secolo, aveva imposto la propria supremazia sulla scena della storia. Ad iniziare fu proprio la Russia nel ’17 con la rivoluzione bolscevica di Lenin, seguita dai tentativi di Bela Kun in Ungheria e dalla Repubblica dei Consigli di Monaco, di Karl Liebeknecht e Rosa Luxembourg, via via passando per Fiume, sino alla Rivoluzione Fascista. Pertanto, da rivolte caratterizzate dalla più svariata connotazione ideologica, si passò, in Russia, Italia e Germania, alla vera e propria instaurazione di regimi rivoluzionari, favorita proprio dalla situazione di grave tensione sociale e disagio economico, venutasi a determinare in seguito agli eventi del Primo Conflitto Mondiale. Come poi siano andati gli eventi, lo sappiamo tutti. Tutte le tensioni e le frustrazioni accumulatesi a seguito degli accordi di Sevres e di Losanna, innescarono nuovamente un mai sopito senso di rivalità tra le nazioni europee che, con il Secondo Conflitto Mondiale, avrebbero portato a termine la demolizione politica del Vecchio Continente, spalancando, in tal modo, la strada al dominio planetario degli USA. Nonostante tutto ciò, da un lato, la Prima Guerra Mondiale fu il banco di prova per iniziare la demolizione d’Europa, dall’altro essa rappresentò il tentativo di dare corpo a tutte quelle istanze che, rappresentate dalla sintesi tra un’ avanguardia, palesatasi nelle sue cento manifestazioni politiche, artistiche e scientifiche accanto un profondo e radicale iato di risguardo alle radici ed all’identità “volkisch” ed ai suoi archetipi, in totale discontinuità con i caposaldi Illuministi, si erano proiettate verso la dimensione del Futuro e del futuribile, rendendo quell’intenso scorcio epocale tra fine Ottocento ed inizi del Novecento, il brodo di coltura che avrebbe dovuto conferire una connotazione “altra” alla Modernità. La portata e le dimensioni del I Conflitto Mondiale, ne fanno un evento trasversale pre ideologico, perché ovunque e su tutti i fronti, connotato da forti aspirazioni identitarie, accompagnate da una sempre più estesa e condivisa presa di coscienza, sulla nefasta influenza del grande capitale sulla vita dei popoli, in relazione, in quel particolare momento, a quel tragico evento bellico. In un’epoca come la nostra, pertanto, caratterizzata dallo strapotere dell’economia e della finanza a livello globale, per poter fornire una valida alternativa a questo modello autodistruttivo ed alienante, è proprio necessario ripartire da quello spirito irredentista ed identitario che, della Terribile, Grande, Guerra ‘15-‘18, come anche degli eventi di Fiume, fu il motore propulsore. Al di là di Fascismi ed Antifascismi, o di Destre e Sinistre, oramai ridotte allo sbando ed allo stremo più totali. Per quanto strano  possa apparire, l’Europa di oggi ci presenta un conto non molto dissimile, se non peggiore, rispetto alla situazione di cento anni fa. Due guerre mondiali, Risorgimenti vari e guerre napoleoniche incluse, sembrano proprio non aver insegnato nulla, agli ottusi europei. E’ vero. Gli Imperi Centrali, la mitica Cacania del buon Cecco Beppe, non esistono più. Al loro posto un informe guazzabuglio di burocrati, al cui capo sta un quanto mai volubile duo franco-tedesco, nell’umiliante ruolo di tenutario degli interessi dell’impero americano, a sua volta, tangibile espressione dell’ Impero dell’Economia e della Finanza che, fondato sulla estrema volatilità dei capitali, ma anche sulla svalorizzazione delle risorse e del lavoro umano, oramai, sembra non conoscere più limiti e confini. E proprio la continua fluidità dei capitali e la sua continua spirale anatocistica (ovverosia la produzione di interesse sull’interesse, sic!), necessitano di uno spietato sfruttamento delle risorse umane e planetarie, a qualunque costo. Inquinare, avvelenare, ma anche sfruttare, svilire, annullare lavoro e diritti, privatizzando, svendendo o, ancor meglio, dando in appalto il lavoro, a turme di nuovi schiavi, leziosamente definiti “migranti”, ma in verità nel ruolo di vere e proprie truppe cammellate del Nuovo Ordine Mondiale, chiamate a diluire sino a cancellare qualunque forma di identità e comunitaria coscienza dei diritti, nel nome della creazione “ex nihilo”, di una ben più manovrabile brodaglia multi-etnica, in sostituzione di popoli e nazioni di antico lignaggio. E qui sta, però, la radicale differenza con l’Italia di cent’anni fa. Allora “coram populi”, l’Italia si lanciò nel conflitto, perché stanca ed indignata di esser trattata come un socio di minoranza in improbabili alleanze a tre. Allora, “coram populi”, l’Italia intera si inginocchiò al passaggio del convoglio che levava la salma del Milite Ignoto. Allora “coram populi”, di fronte ad una “vittoria mutilata”, l’Italia intera appoggiò l’impresa di Fiume, lanciando un chiaro segnale alle potenze capitaliste. Oggi invece, a dominare sembra esservi uno stato d’animo oscillante tra la più cupa rassegnazione ed il più marcio e deleterio “buonismo”, assurto a vera e propria “sifilide” di un’anima europea, oramai perduta in cincischiamenti e vaneggiamenti, eretti a veri e propri alibi morali per coprire la propria mancanza di spina dorsale. Ma anche i contesti nazionali da cui i vari “migrantes” provengono, non stanno molto meglio di noi. Alle immagini-icona di Ho Ci Mihn, di Che Guevara, dei Feddayn Palestinesi, alle infuocate dichiarazioni dei Paesi Non Allineati, ma anche agli stentorei volti dei dissidenti d’Oltrecortina, questi signori hanno preferito una forma di squallido accattonaggio. Una via di mezzo tra il maldestro tentativo di conformarsi agli standard occidentali ed un bilioso risentimento, celato sotto vari integralismi da strapazzo, troppo spesso sponsorizzati ed alimentati da quegli stessi occidentali, che tanto si vorrebbe combattere e distruggere. Per un cellulare o un abitino simil firmato, questi bei signori hanno svenduto identità, dignità e quant’altro di più si possa immaginare. Cent’anni fa l’Italietta dei maneggi giolittiani, l’Italietta della povertà endemica e dell’emigrazione, sconfitta ed umiliata dagli Imperi Centrali a Caporetto, ritrovò in un balzo dignità e coesione. Sul Piave furono mandati a combattere, a migliaia, ed in migliaia morirono, in un sol colpo. Il Piave si fece rosso di sangue, quanto le alture del Carso e le vette alpine, su cui l’Italia forgiò identità, coerenza e diritto di stare nel consesso delle nazioni. Cent’anni dopo, invece, certi signori del terzo mondo, finito il tempo delle chiacchiere e dei proclami bellicosi, preferiscono affidare la risoluzione delle proprie annose questioni alla fuga in barca o in gommone, grazie al benestare delle classi politiche nostrane che, intente allo sport dello scaricabarile e del magna-magna, sembrano aver trovato nella questione delle nozze gay, l’unico vero, trainante, motivo, in grado di illuminare le proprie grame esistenze…..                                                                                                                                          

 

Quando i nazisti progettavano lo Stato del Friuli con Marco d’Aviano quale nume protettore

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È una cosa abbastanza nota che gli Italiani conoscono poco la propria storia, e il proprio patrimonio culturale, se conoscere vuol dire saper andare al cuore delle cose, sfrondato di ogni retorica; e la stessa cosa vale, a maggior ragione, per un piccolo popolo che vive da sempre ai margini della Penisola, quello friulano.

In effetti, i Friulani si sentono e non si sentono un popolo; possiedono una propria lingua e, da qualche decennio, hanno imparato ad andarne orgogliosi, mentre prima, un po’ se ne vergognavano; amano anche, in linea di massima, le loro tradizioni; tuttavia non si può dire che conoscano bene il proprio patrimonio culturale, né che siano del tutto consapevoli della propria specificità. La parlata friulana ha perso molto terreno, nel corso del Novecento: è pressoché scomparsa da Udine e si difende, non sempre con successo, dal dilagare del friulano e del dialetto veneto importato dalla Serenissima dopo la caduta del potere temporale dei patriarchi di Aquileia.

Per sentirsi un popolo è necessario non solo avere, oggettivamente, una propria storia, una propria lingua, una propria radice etnica: bisogna che a tutto questo si accompagni una coscienza e, inoltre, bisogna avere, nel proprio retaggio storico, qualche nome illustre, qualche evento speciale, nei quali tale coscienza appaia pienamente matura, come una specie di bandiera ideale. L’ideale sarebbe avere la propria Giovanna d’Arco o il proprio Dante Alighieri: qualche eroe, qualche esempio insigne di vita, di pensiero, di azione, sia pure di umile estrazione, anzi, meglio se di umile estrazione, perché più direttamente legato alle radici popolari: qualche personaggio di cui andare fieri e in cui si compendiano le migliori qualità nazionali.

Il popolo friulano, sospeso fra tre mondi – quello latino, quello germanico e quello slavo – possiede una sua specificità storica, geografica e culturale, se pure largamente influenzato dall’influsso tedesco – i Longobardi, la nobiltà feudale, i patriarchi aquileiesi di nazione germanica – ma, nello stesso tempo, ha una debole coscienza di sé; il suo tipo psicologico più caratteristico è segnato dalla laboriosità e dalla sobrietà, ma anche da una certa tendenza alla rassegnazione stoica, frutto di una plurisecolare povertà e di una lunga esperienza di emigrazione. Il contadino e il manovale friulani sono apprezzati in tutto il mondo: hanno costruito la ferrovia transiberiana e messo a coltura le colline del Rio Grande del Sud, in Brasile; ma, come gli eroi di Verga, non sono tipi propensi alla ribellione o al gesto clamoroso, soffrono in silenzio e piegano il capo al destino.

Se si chiedesse ad un Friulano di media cultura di ricordare qualche illustre personaggio della sua terra, che abbia particolarmente illustrato le qualità della stirpe, difficilmente si arriverebbe, crediamo, a più d’una decina di nomi, e forse anche meno; difficilmente si andrebbe molto indietro nel tempo, perché per fare questo ci vuole memoria storica, e le nuove generazioni vivono molto, forse troppo, nella dimensione del presente. Certo, da qualche anno si parla del frate cappuccino Marco d’Aviano, che predicò la difesa d’Europa presso le corti e i sovrani del XVII secolo, dando un contributo decisivo alla difesa di Vienna e alla vittoria nella battaglia del Kahlenberg contro i Turchi, nel 1683, alla quale era presente per rincuorare le truppe. Ma è significativo che questo personaggio, famosissimo al suo tempo e popolarissimo a Vienna (ove gli fu eretto un monumento) e a Budapest, alla cui riconquista era, ancora, presente, non sia mai stato molto conosciuto nella sua terra natale e meno ancora fosse stata compresa e riconosciuta la statura continentale del la sua persona e della sua opera, senza la quale, probabilmente, la storia d’Europa sarebbe stata diversa.

La sua riscoperta è cosa recentissima, forse anche perché le sue spoglie mortali riposano nella Chiesa dei cappuccini, a Vienna, dove gli era stato tributato, nel 1699 (l’anno della risolutiva battaglia di Zenta contro i Turchi); in pratica, coincide con la sua proclamazione a beato, da parte di Giovanni Paolo II, nel 2003. Ebbene, i primi a porre una lapida commemorativa sulla facciata della sua casa natale furono i nazisti del Kommando “Adria”, insediato nel Litorale Adriatico (comprendente le province di Udine, Gorizia, Trieste, Pola, Fiume, Lubiana) dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943. Essi avevano creato uno speciale ufficio per lo studio e la valorizzazione del  patrimonio etnico e culturale friulano e intendevano promuovere la fama di padre Marco nel contesto d’un progetto politico volto alla creazione di un futuro stato-cuscinetto (Pfufferstaat) del Friuli, che, a guerra finita, avrebbe dovuto fare da intercapedine tra una Italia ridimensionata nelle sue ambizioni di grande potenza e un Terzo Reich assurto al ruolo di potenza egemone del continente europeo.

Era successo che, dopo la battaglia di Stalingrado e, poi, quella di El Alamein, perfino fra gli orgogliosi capi politici e militari tedeschi si era insinuato il dubbio nella possibilità di una vittoria totale, cosa che aveva reso alcuni di essi meno rigidi e più possibilisti riguardo al progetto, già prima avanzato, ma solo da pochi, di un maggiore coinvolgimento di alcune nazionalità “minori” nel disegno del Nuovo Ordine europeo. Hitler, per esempio, si era sempre opposto al reclutamento di soldati fra i militari fatti prigionieri e le popolazioni dell’Unione Sovietica, in funzione anti-sovietica; ma, dopo Stalingrado, apparve chiaro che sarebbe stato un grave errore quello di rifiutare l’offerta di collaborazione del generale Vlasov e di altri elementi, specialmente cosacchi, per costituire dei reggimenti e delle divisioni da impiegare in guerra. Perfino nel reclutamento delle SS, le truppe di élite dell’ideologia razzista del nazionalsocialismo, si divenne meno esigenti e Himmler fu autorizzato ad arruolare, nelle loro formazioni, tenendole però separate da quelle tedesche, volontari francesi, belgi, italiani, slavi e perfino bosniaci di religione musulmana, beninteso sotto la guida di ufficiali superiori di nazionalità germanica.

Per quanto riguarda le truppe russe anticomuniste, però, apparve subito chiara l’estrema difficoltà di impiegarle sul fronte orientale, perché i Sovietici, in caso di cattura, le passavano senz’altro per le armi; si cominciò allora a destinarle ai Balcani, nelle operazioni di controguerriglia, e, a un certo punto, anche nell’Italia settentrionale. Nacque così l’idea di trasferire in Friuli, e precisamente nelle valli della Carnia, circa 40.000 persone, fra soldati e le loro famiglie, sotto la guida dell’ataman Krasnov, destinandoli alla lotta contro i partigiani italiani e sloveni e promettendo loro, a guerra finita, una nuova patria, un Kosakenland, proprio in quella terra. Fu uno spettacolo impressionante e quasi incredibile, per i cittadini di Udine, nel 1944, l’arrivo di quelle truppe esotiche, le quali, scese da ben cinquanta tradotte ferroviarie, attraversarono tutta la città con i loro mezzi e perfino con i loro reparti cammellati, diretti verso la Carnia, ove andavano a spazzar via l’effimera repubblica partigiana ivi proclamata nel corso dell’estate.

Come i nazisti pensassero di conciliare l’idea di far risorgere uno stato friulano nominalmente indipendente, cin quella di creare in esso una nuova patria per i Russi anticomunisti del Don, del Caucaso e di regioni ancor più lontane, è cosa che non appare del tutto chiara: ma questo è il fatto. Venne perciò creato un ufficio di propaganda, con numerosi corrispondenti, più una stazione radio insediata a Trieste, e venne curata la stampa, al fine di sensibilizzare l’opinione pubblica al tema della identità culturale friulana e, un poco alla volta, a quello della eventuale indipendenza. Furono promossi le danze popolari e tutti quegli aspetti del folklore che avrebbero potuto irrobustire e rivitalizzare il sentimento patriottico ladino; la posa della lapide per Marco d’Aviano rientrava in questo disegno ad ampio raggio.

Tutto questo fu svolto con molta discrezione, perché il destino finale del Litorale Adriatico rimaneva, ufficialmente, impregiudicato: contrariamente a quel che si crede, non venne fatto alcun passo concreto in vista di una sua annessione alla Germania (così come nel caso della Zona di guerra delle Prealpi, comprendente le province di Belluno, Trento e Bolzano). Di fatto, oltre al riguardo personale che Hitler aveva nei confronti di Mussolini, esistevano diversi orientamenti anche all’interno dei circoli politico-militari del Terzo Reich riguardo al destino finale di quelle terre. Alcuni, come l’alto commissario Friedrich Rainer (ed il potente capo delle SS e della Polizia colà insediate, Odilo Globocnick), caldeggiavano una futura Grande Austria, sempre legata alla Germania, però autonoma, ed estesa alla Slovenia, alla Croazia, all’Ungheria e alla Romania); altri, come il dottor Franz Hradetzky, capo dell’Ufficio propaganda SS, pensavano, come si è detto, alla costituzione di uno Stato-cuscinetto del Friuli. A rendere il quadro ancora più complesso, c’erano poi i disegni imperiali di Goebbels ed altri, i quali sognavano una Grande Germania che non solo avrebbe continuato a inglobare l’Austria, ma si sarebbe annessa tanto il Litorale e l’Alpenvorland, che  l’intero Veneto, sulla base della passata appartenenza di questa regione all’Impero asburgico, oltre che della presenza di alcune “isole” linguistiche tedesche nella zona prealpina.

Riportiamo un passaggio di quella autentica miniera di notizie insolite e tuttavia ben documentate che è il libro «Lo sterminio mancato» (Milano, Mursia, pp. 87-89) di Pier Arrigo Carnier – autore di un altro libro prezioso e insostituibile, «L’armata cosacca in Italia, 1944-45», due opere che, se l’Italia fosse un Paese normale, e la cultura italiano non fosse monopolizzata dalla solita banda di furbi e raccomandati, basterebbero a fare di lui uno storico d’importanza nazionale:

 

«…Eravamo quindi nella fase preparatoria e culturale, assunta direttamente dalle SS che faceva capo a Berlino. La costituzione del Pfufferstaates Friaul prescindeva dai programmi della normale direzione politico-amministrativa delegata al commissario supremo Rainer. Himmler, Reichsführer SS, che deteneva i poteri per il consolidamento del carattere nazionale tedesco riguardanti anche il “sangue di popoli affini”, intervenne direttamente con lì apparato SS.

Il territorio dello stato cuscinetto Friaul, secondo la concezione tedesca, si riferiva geograficamente alla provincia di Udine, intesa nella sua estensione al momento dell’inizio della prima guerra mondiale(1915). In pratica, a Nord, la delimitazione era data dalla catena elle Alpi a Est il confine si attestava secondo la vecchia linea, a ovest di Grado, delimitata dall’Isonzo e da Pontebba. A Ovest il confine correva lungo il limite territoriale del Cadore, a Sud-Ovest lungo il Livenza. Il territorio contava circa mezzo milione di abitanti, Stando ai limiti di confine indicati la val Canale restava esclusa dal Pfufferstaates Friaul e veniva assorbita nuovamente dalla Carinzia.

Premeva evidentemente ai nazisti di rafforzare celermente nel Friuli quelle condizioni che contribuivano ad accentuare gli aspetti della tradizione.

Gli specialisti delle Waffen SS si avvalevano del principio di grandi esperti e studiosi, austriaci in particolare, in materia di minoranze, secondo i quali l’autodifesa di una minoranza sta nella unità culturale e folkloristica e nel mantenimento di una comunità chiusa.

Tale principio generale avrebbe dovuto esser applicato al Friaul. L’iniziativa di una totale autonomia, e cioè l’elezione a stato, caldeggiata dai teorici tedeschi, avrebbe dovuti farsi strada nelle coscienze dopo secoli di silenzio. Erano infatti trascorsi cinque secoli dal momento in cui, nel 1452, i patriarchi di Aquileia avevano cessato di governare l’area della ladinità.

Eroi e personaggi, comunque legati alla storia o al ceppo della ladinità, dovevano essere ravvalorati. I corrispondenti di guerra erano all’opera per cogliere le figure del passato. Tutto doveva essere reimpostato alla luce di un realismo vivo, con riflessi positivi nel presente, debellando un persistente immobilismo che avvolgeva ogni cosa.  

Ci si accorse ben presto che la storia del Friuli non aveva registrato moti di ribellione in senso stretto [si vede che gli esperti nazisti non tennero conto del “crudele giovedì grasso” del 1511], né la germinazione di circoli culturali su base politica tendente all’irredentismo vero e proprio, o, tanto meno, alla difesa della vitalità effettiva della minoranza e dei suoi diritti, nel contesto generale, con azioni vigorose. Storicamente, in questo senso, si era registrato uno stato d’inerzia.

La Filologica Friulana, di cui la popolazione non aveva mai avvertito una funzione penetrante con una presa di coscienza a largo raggio e che pertanto restava un’istituzione isolata, aveva avuto una proposta, o intimazione, di quiescenza dal fascismo, motivata certamente dalla linea politica fascista che bandiva le istituzioni non rispondenti ai propri obiettivi.

Un corrispondente di guerra del Kommando “Adria”osservò che al Friaul mancava, nel passato, la figura di un Hofer: un martire o personaggio che simboleggiasse l’irredentismo o la maturità etnica espressa con dignità eroica. I tedeschi, per le loro valutazioni, si basavano su personaggi come Skanderberg, il patriota albanese che combatté per vent’anni, verso la metà del ‘400, per la libertà.

Ma il Friuli non aveva un simile personaggio. Caso vuole che anche il territorio friulano avesse dovuto subire, nei secoli passati, le scorrerie dei turchi. Provenendo dalle loro sedi della Bosnia-Erzegovina, con due invasioni, rispettivamente nel 1479 e 1499, i turchi, che avevano incontrato indomite resistenze soprattutto in Croazia, passarono crudelmente sulla terra del Friuli travolgendo, con furibonde cavalcate, le deboli opposizioni delle milizie veneziane.

Vi erano comunque stati dei moti di ostilità contro gli austriaci, durante il periodo della loro dominazione. Ciò tuttavia non risolveva affatto il problema. Non si era trattato, peraltro, di moti rilevanti.

Ci si rese conto che questa popolazione che si fa risalire a un’origine celtica, attraverso una certa rassegnazione e fatalismo, sulle cui ragioni rimaneva aperto un ampio interrogativo, dimostrava che ancora non si era verificata una presa di coscienza per una propria distinzione di carattere tecnico-politico, vale a dire per una vera autonomia.

La ricerca delle Waffen SS andò naufragando, rispetto al proprio obiettivo, poiché non si reperirono sostegni storici in tal senso. Fu scoperto tuttavia un personaggio, quasi ignorato nel presente, di notevole mole:  padre Marco d’Aviano (Carlo-Domenico Cristofori), il grande cappuccino che, nel 1683, aveva svolto un’ardita azione diplomatica. Padre Marco, che aveva avuti i natali sulla destra del Tagliamento, a Somprado di Aviano, accordando regnanti, duchi e principi imperiali, aveva ottenuto, come risultato, la cacciata dei turchi che assediavano Vienna; e lui stesso, con grande rischio, s’era affiancato all’azione militare per rincuorare condottieri e combattenti imperiali.

Alle Waffen SS del Kommando “Adria” piacque questa storia dei turchi, poiché, proprio coi turchi, aveva avuto a che fare per lungo tempo anche Skanderbeg, l’eroe albanese.

In un certo senso il cappuccino impersonava il principio della difesa d’Europa dalle invasioni d’Oriente. E, infatti, gli austriaci gli avevano eretto un imponente monumento a Vienna.

La figura di padre Marco colmava solo apparentemente il vuoto riscontrato. La sua azione aveva sicuramente un significato molto ampio, ma non rifletteva quella situazione realisticamente etnica e razziale alla quale il Kommando “Adria” cercava di dar corpo scoprendo ragioni radicate nel passato. Le autorità tedesche avevano deciso comunque di richiamare all’attenzione delle popolazioni del Friuli il ricordo di padre Marco d’Aviano. Collocarono quindi, con cerimonia ufficiale, una lapide marmorea ad Aviano sulla facciata della casa dove era nato il grande cappuccino.»

 

Carnier ha avuto la possibilità di intervistare personalmente alcuni dei personaggi coinvolti in questa vicenda assai poco conosciuta; va detto, inoltre, che molti documenti ufficiali sono stati distrutti o fatti sparire. Infatti, nel maggio del 1945, i Cosacchi di Krasnov, che si erano ritirati dal Friuli in Carinzia, dovettero arrendersi ai Britannici i quali, macchiandosi di un vergognoso tradimento, li consegnarono ai Sovietici, che li giustiziarono in massa; molti preferirono suicidarsi, gettandosi nelle acque della Drava. Il generale von Pannwitz, che, in quanto tedesco, avrebbe potuto salvarsi, non volle separare il suo destino da quello delle valorose truppe russe e affrontò anch’egli la condanna capitale.

Fu in quel tragico contesto che molti documenti riservati del comando di Rainer (estradato in Jugoslavia e giustiziato il 19 luglio 1947) e quello di Globocnik (suicidatosi il 31 maggio del 1945) andarono smarriti o, forse, vennero acquisiti dai Britannici, dai Sovietici e dagli Jugoslavi ed è certo anche per questo che, ancora oggi, pochissimo si sa della strana operazione tedesca mirante a trasformare il Friuli in uno stato satellite, così come altri che avrebbero dovuto sorgere alla periferia del Terzo Reich, sfruttando la presenza di alcune “isole” tedesche lontane dai confini della Germania (come i Sassoni della Transilvania) e la specificità linguistica e culturale di alcune popolazioni europee che i gerarchi e gli studiosi nazisti consideravano, a torto o a ragione, etnicamente affini.

È abbastanza logico che ai Friulani possa non piacere questo antecedente delle loro rivendicazioni autonomistiche; tuttavia la conoscenza dei fatti storici non può essere ignorata, quando essi non collimano con le nostre convinzioni politiche e morali; né le strategie messe in opera dai nazisti, sul piano propagandistico e culturale, per rianimare la coscienza di sé del popolo friulano, rappresenta in alcun modo una macchia per quest’ultimo. Quella propaganda e quei piani, benché chiaramente strumentali ai fini egemonici tedeschi, stanno semplicemente a indicare che, in Italia come in Friuli, succede spesso che ad accorgersi di quel che vi è di più valido e interessante nel proprio patrimonio storico e culturale tenda a passare inosservato o a cadere presto nell’oblio, ma non sfugge all’occhio più imparziale degli stranieri: più imparziale proprio perché sciolto dalle logiche di campanilistiche o, peggio, di consorteria, che tengono la cultura e la tradizione in possesso, e in ostaggio, di élite politiche e intellettuali tutte prese dai loro scopi e dai loro schemi mentali di parte e pochissimo propense, o disposte, a riconoscere il valore e l’importanza di quelle situazioni e di quegli aspetti che meriterebbero di essere fatti conoscere al grande pubblico, fuori da ogni logica di campanile, di partito, di corporazione.

Un grazie, in ogni caso, spetta a quegli studiosi i quali, senza guardare in faccia a nessuno, procedono dritti e risoluti nella ricerca della verità, anche quando essa è scomoda o discorde da ciò che insegna la Vulgata politico-culturale dominante: e, fra essi, un posto ragguardevole spetta a Pier Arrigo Carnier. Si veda, a titolo di esempio, ciò egli che scrive del bombardamento aereo dei “liberatori” anglo-americani di Treviso. Del 7 aprile 1944; oppure dei fatti do Ovaro del 1-2 maggio 1945, che videro un attacco partigiano ai Cosacchi in ritirata e una dura rappresaglia di questi ultimi. Il fatto è che ricerche come quelle del Carnier turbano i comodi schemi mentali e insinuano troppi scomodi dubbi in quanti credono di aver compreso tutto della seconda guerra mondiale. E questo è un discorso particolarmente difficile da fare in una terra difficile come il Friuli, posta al confine di tre grandi aree culturali, ove la situazione politico-militare era quanto mai complessa. Basti pensare alla sorte del Battaglione bersaglieri Mussolini e al Reggimento alpini Tagliamento, i quali, per aver difeso l’italianità di quella terra dalle mire annessionistiche dei comunisti slavi, oltre ad aver pagati un prezzo altissimo sul campo di battaglia, subirono anche l’oltraggio di venire dipinti, a guerra finita, più o meno come dei reparti di collaborazionisti, specializzati in crimini di guerra e meritevoli, pertanto, del massimo disprezzo da parte di ogni “vero” italiano e di ogni “vero” democratico…

Il ’900 è finito e noi ci sentiamo poco bene

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Verso la fine del 1899 si accese una disputa molto vivace se l’imminente 1900 dovesse contare come ultimo anno del secolo vecchio o come primo del nuovo. Alla fine intervenne l’imperatore di Germania, Guglielmo II, dichiarando che il 1900 era il primo anno del XX secolo: a Berlino, alla mezzanotte di San Silvestro del 1899, campane a distesa e salve di cannone annunciarono la nascita del nuovo secolo. Allora era così. Il tempo poteva essere scandito dagli orologi di Berlino e il potere di un imperatore tedesco faceva direttamente sentire i suoi effetti nella vita quotidiana di milioni di uomini.
Nessuno se ne rese conto, ma quello fu il definitivo addio al tempo storico dell’Ottocento. Nel Novecento il tempo avrebbe smesso di essere il «principio ordinatore» degli eventi umani e della loro rappresentazione fondata sulla successione cronologica, per lasciare posto all’«esperienza della simultaneità»: prima la telefonia e la radio, poi il cinema e la televisione, poi ancora il trasporto aereo, il fax, le reti telematiche, infine il mondo sterminato del web hanno consentito l’accesso immediato a una pluralità di spazi e di tempi cancellando i concetti tradizionali di passato e futuro, di vicino e lontano. Oltre al tempo, anche gli spazi si sono infatti ridefiniti in una dimensione planetaria, proponendosi come territori percorribili istantaneamente, senza più il tempo che era necessario per attraversare le antiche distanze.
L’età dell’inquietudine
Questo cambiamento radicale ha alterato in maniera irreversibile il nostro modo di vivere e ha reso il mondo del ’900 irriconoscibile per tutti quelli che avevano abitato il secolo precedente.
Oggi stiamo vivendo una rottura altrettanto drastica. Nessuna delle definizioni che gli storici hanno utilizzato per leggere il ‘900 sembra resistere a questo passaggio. Charles Maier lo aveva chiamato il «secolo delle ciminiere», riferendosi alle grandi produzioni industriali con le fabbriche che funzionavano con grandi ciminiere, con il carbone o con altre energie «fumanti». Per altri era stato «il secolo delle guerre» (tra il 1900 e il 1993 c’erano stati 54 conflitti armati con ben 185 milioni di morti, di cui l’80% civili). Altri ancora avevano insistito sul totalitarismo, la diffusione dei mezzi di comunicazione di massa, l’allargamento planetario dei mercati, l’omologazione indotta dai consumi; definizioni che si muovevano tutte verso un’unica direzione: produzioni di massa, morte di massa, politica di massa, consumi di massa, mezzi di comunicazione di massa attribuivano al Novecento i tratti indelebili del «secolo delle masse». Nell’Occidente euroamericano, a cui questi concetti si riferiscono, si era affacciata alla storia una schiera di produttori, elettori, consumatori, che avevano affollato le fabbriche, le urne elettorali della democrazia, le piazze dei regimi totalitari, i supermercati e i campi dello sterminio e della guerra.
Molti pilastri che sorreggevano queste definizioni sono crollati. E sulle loro macerie è affiorata un’inquietudine, un senso di inadeguatezza. Molti degli eventi che caratterizzano il nostro tempo ci appaiono incomprensibili. Le categorie del ’900 non ci aiutano a capire l’Isis; un’Europa che abbiamo imparato a conoscere attraverso gli Stati che vi aderivano, ora - per la prima volta, con la Grecia - rischia di perderne uno. La competizione globale tra i Paesi industrializzati, i flussi dell’informazione, del sapere, del denaro, delle persone e delle immagini hanno superato i limiti territoriali degli Stati nazionali, disvelando uno scenario i cui confini sono solo il cielo e la terra.
Totalitarismo tecnologico
Il binomio Guerra e Stato, ad esempio, per secoli inscindibile, si è ora dissolto in quelle che chiamiamo le «guerre postnazionali», caratterizzate, da un lato, da una complessiva «privatizzazione» dei conflitti armati (i mercenari, i volontari, il tramonto della tradizionale figura del soldato), dall’altro dalla dimensione sempre più sovrannazionale dei poteri di comando sulle forze armate che operano nei vari fronti. E sono cambiati anche gli aspetti ideologici della guerra, con una netta accentuazione della sua «confessionalità»: si combatte in nome di Dio, e la dimensione laica delle categorie «amico» e «nemico» viene dissolta in un universo in cui l’avversario diventa un alleato del Diavolo, un ostacolo all’espandersi del bene da cancellare. Non più la sconfitta militare, ma l’annientamento del nemico rappresenta così l’unico scopo plausibile della guerra.
Ma è soprattutto nella Rete e nella rivoluzione digitale che sono emerse le principali novità post-novecentesche. La velocità del cambiamento digitale è stata vertiginosa e ormai la Rete penetra in ogni angolo della nostra vita: il lavoro, il tempo libero, l’organizzazione del dibattito politico e della protesta sociale, perfino le nostre relazioni sociali e i nostri affetti. Facebook e Twitter, programmaticamente nati per renderci più amici, più solidali e allargare i nostri spazi «comunitari», oggi si sono insinuati prepotentemente nella nostra privacy, determinano e controllano i nostri gusti e i nostri consumi. Quasi che dal totalitarismo ideologico del XX secolo si stia passando a quello tecnologico del XXI

La fine di una guerra civile

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Aldo Cazzullo ha scritto che «è il momento di riconoscere che la Resistenza è patrimonio della nazione, non di una fazione». Giustissimo. Ma chi non l’ha voluto per 70 anni? Nel 1954 Pietro Secchia, nel suo libro I comunisti e l’insurrezione , respinse l’accusa ai comunisti di voler «monopolizzare la Resistenza». Lo stesso anno Alessandro Natta cercò invano di pubblicare con Editori Riuniti («disavventura» la definì) il suo libro dall’inquietante titolo L’altra Resistenza , che rievocava la sua vicenda d’internato militare e uscì da Einaudi solo nel 1997, quando il comunismo sovietico era finito da un po’. L’affermazione di Cazzullo è un auspicio, non un fatto. Purtroppo la politica e l’istruzione perpetuano la vulgata contraria all’auspicio di Cazzullo.
Pietro Di Muccio de Quattro

Caro Di Muccio,
Confesso di non sapere che cosa sia effettivamente accaduto in via delle Botteghe Oscure quando Alessandro Natta (futuro segretario del Partito comunista italiano) cercò di pubblicare negli anni Cinquanta le sue memorie sull’anno e mezzo trascorso in uno dei campi di «internamento» dove i tedeschi tennero i militari italiani che rifiutarono di aderire alla Repubblica di Mussolini. Per molto tempo abbiamo conosciuto quella vicenda soprattutto grazie ai ricordi di Giovannino Guareschi, Giovanni Ansaldo e altre persone meno note al grande pubblico. Ma credo che Aldo Cazzullo abbia ragione quando constata la pluralità culturale e politica della Resistenza. E credo che lei abbia ragione quando osserva che il Pci cercò di monopolizzarla svalutando qualsiasi altro apporto.
La strategia del partito comunista obbediva ad almeno due esigenze. In primo luogo occorreva dimostrare che il Pci aveva avuto un ruolo nazionale e non poteva essere accusato di avere servito gli interessi dell’Urss. L’accusa non era del tutto infondata, soprattutto quando furono in causa i confini orientali. Ma Palmiro Togliatti voleva che il partito fosse percepito come una forza nazionale. Non lo chiamò «Partito comunista d’Italia», come dopo la scissione del Congresso di Livorno nel 1921, ma Partito comunista italiano; e volle che sotto il suo nome e dietro la bandiera rossa, apparisse una fettina di tricolore.
In secondo luogo, una Resistenza celebrata e dominata dal Pci doveva sottintendere che la lotta contro i fascisti e i tedeschi era soltanto la fase iniziale di un processo rivoluzionario destinato a rinnovare radicalmente lo Stato e la società. La promessa della rivoluzione rimase, per parecchio tempo, parte integrante della retorica del partito e finì per produrre qualche inconveniente. Fu sempre più difficile per il Pci, con il passare del tempo, dimostrare che poteva essere contemporaneamente un partito rivoluzionario e di governo. Una tale duplicità lo esponeva al rischio di essere poco credibile sia agli occhi di molti moderati, sia a quelli di coloro per cui la rivoluzione era un ideale irrinunciabile. Fu questa almeno una delle ragioni per cui il partito, dopo l’inizio della fase del compromesso storico, fece molta fatica a controllare quella fazione del suo «popolo» stalinista che Rossana Rossanda riconosceva come parenti in un Album di famiglia.
Tutto questo appartiene fortunatamente al passato. Ma il clima e lo stile, nelle celebrazioni del 25 Aprile, restano ancora tenacemente, per molti aspetti, quelli di un tempo. Osservo infine che quella festa ricorda la fine di una guerra civile e che la pacificazione, in questi casi, è possibile soltanto quando tutti riconoscono che dignità e onestà non furono il monopolio dei vincitori.

Controstoria dell’amor di Patria

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Tradimenti, congiure, sudditanza verso lo straniero hanno segnato la storia italiana dal Risorgimento ad oggi. Un viaggio attraverso un orgoglio e un’identità da ritrovare.

  

I recenti respingimenti di immigrati alla frontiera di Ventimiglia da parte dei francesi, le navi estere che sbarcano disperati nei porti italiani: inutile scomodare tecnicismi giuridici o trattati internazionali, queste sono le immagini di una nazione costantemente derisa e presa a schiaffi dagli alleati europei. Dietro la retorica di unità e fratellanza, sono ancora una volta le ragioni dell’interesse nazionale e della politica a prevalere. Ragioni che valgono per tutti, tranne che per l’Italia. Nel nostro paese, infatti, ha sempre avuto largo spazio una retorica denigratrice del paese e dei suoi vizi atavici che ha spianato la strada alla perdita dell’amor di patria e della sovranità nazionale. Accompagnata troppo spesso da una sfrenata ricerca del proprio tornaconto personale, del particulare, a scapito della comunità. Di questo autorazzismo hanno ampiamente beneficiato i nostri concorrenti, col risultato che oggi l’Italia si trova ad aver perso moltissime posizioni dal punto di vista industriale, geopolitico e culturale. Senza voler negare limiti e scandali (Mafia capitale l’ultima ferita in ordine di tempo) il patrimonio del nostro paese rimane nonostante tutto di grande rilievo. Conoscerlo e difenderlo dovrebbe essere il compito delle giovani generazioni e di una classe dirigente degna e, in questo caso sì, al passo degli Stati europei.

Il complesso d’inferiorità del paese ha radici lontane. Già durante il Risorgimento il riferimento alle grandi potenze europee fu una costante e la costruzione di un sentimento comunitario divenne un compito quasi insormontabile. Banche e industriali furono maestri nel cogliere solo i benefici del progressivo sviluppo italiano, scaricando i costi umani sulle masse lavoratrici e allontanando una possibile solidarietà interclassista nel nome della nazione. Le tensioni sociali e la disparità nord-sud rimanevano i maggiori talloni d’Achille: Augusto Grandi e Teresa Alquati hanno descritto queste dinamiche con lucidità nell’opera «Eroi e cialtroni. 150 anni di controstoria». La Grande Guerra riuscì a imporre una significativa sterzata, quando italiani provenienti da tutto lo Stivale si trovarono uniti nel sangue e nel fango delle trincee, in nome del completamento del processo risorgimentale. Bagliori destinati a finire: gli italiani si dimostrarono capaci di grandi eroismi quanto di  intrighi e doppiezze nei momenti di difficoltà. Nel secondo conflitto, di fronte alle sconfitte e ai crescenti dolori della guerra, interi settori del paese abbandonarono letteralmente la patria di fronte allo straniero: la grande industria e una parte significativa delle forze armate per primi. Una vasta letteratura si è occupata delle loro mancanze e dei loro  egoismi: «Navi e poltrone» di Antonino Trizzino già negli anni ’50 denunciò le negligenze dell’Aeronautica e soprattutto della Marina, accusata di codardia, spionaggio e tradimento in molti suoi protagonisti. Tra questi, l’ammiraglio Franco Maugeri, che non a caso arrivò a scrivere nelle sue memorie: «L’ inverno del 1942-43 trovò molti di noi che speravano in una Italia libera di fronte a questa dura, amara, dolorosa verità: non ci saremmo potuti liberare delle nostre catene se l’ Asse fosse stata vittoriosa. Più uno amava il proprio Paese, più doveva pregare per la sua sconfitta sul campo di battaglia». Studiosi come Piero Baroni (I condottieri della disfattail suo atto d’accusa contro il complesso militare-industriale italiano) e Filippo Giannini (Il sangue e l’oro) sono altri nomi poco noti quanto fondamentali per capire questi aspetti del passato.

Nel dopoguerra, il ripudio del fascismo portò con sé anche quello del patriottismo. Parlare di interesse nazionale e di tricolore fu per anni quasi una bestemmia. I padri della Repubblica e i partiti egemoni avevano un buon curriculum in questo senso. «Il nostro dovere è quello di accogliere le truppe di Tito come liberatrici» disse Togliatti a proposito del doloroso caso di Trieste nel 1945. De Gasperi dal canto suo aveva sottolineato come la via cattolica comportasse la fiducia «nella limitazione della sovranità statale a favore della società internazionale». L’Italia iniziò quindi quel processo di integrazione europea che l’ha portata oggi sull’orlo del baratro, divenendo al contempo satellite statunitense. Grande protagonista: l’antifascismo. «Fin dalla loro nascita, i gruppi antifascisti si resero organici, non potendone fare a meno, alle esigenze militari alleate che, in quanto tali, erano funzionali ai disegni geopolitici americani. Le prime forme di manifestazione antifascista in Europa furono dunque al servizio di uno stato straniero extraeuropeo, ossia gli Stati Uniti, il cui obiettivo era quello di svuotare di sovranità il continente europeo e renderlo parte di un’alleanza atlantica che fosse funzionale ai propri interessi» ha scritto Luca Steinmann. Quello stesso antifascismo che sarà poi il collante del sistema partitocratico e dell’avvicinamento DC – PCI degli anni ’70. Durante il percorso, non mancarono certo aspetti positivi e anche una politica estera abile messa in mostra nelle pieghe della guerra fredda (Gronchi – La Pira – Mattei – Fanfani i personaggi più interessanti) ma questo patrimonio sembra sempre più lontano nel tempo. Il cieco europeismo ci ha costretto nelle gabbie dell’euro e dei limiti di spesa, l’atlantismo ci ha portato contro Putin e la Libia, dove abbiamo segnato autogol impressionanti.

Recuperare orgoglio e difesa delle tradizioni appare vitale. Caratteristiche che rimangono, non dimentichiamolo, alla base di qualunque aggregato sovranazionale che voglia «unire nella diversità». Davanti alla globalizzazione, al modello americano e a quello dei cugini europei sempre “efficienti e incorrotti” occorre ribadire la sovranità, l’originalità e la fierezza italiana per ritrovare un ruolo internazionale. Proprio un uomo del continente che è al centro dei drammi citati in apertura, il senegalese Pape Gora Tall, ha scritto a proposito dell’importanza per l’Africa di valorizzare le proprie radici per sconfiggere ogni sudditanza e imperialismo culturale. Le assonanze con il nostro caso sono impressionanti: «Oggi, in un mondo in cui le ambizioni dell’uomo sono sempre più smisurate, l’entrata in scena dell’imperialismo culturale è enorme. Che lo si voglia o no, il pensiero dei paesi tecnicamente più avanzati di noi tende a far accettare con sottili manovre o tramite l’intermediazione di oggetti di uso corrente come giornali, radio, televisione modi di vita che – se non contribuiscono positivamente all’impoverimento mentale dei nostri popoli – sono strumenti che favoriscono più velocemente di quanto non lo si creda, l’alterazione progressiva delle nostre culture nazionali. Si tratta di conservare l’essenza del proprio essere, cioè i propri valori culturali positivi. Poiché, non più che altrove, molti di noi si imbastardiscono, si trovano in una situazione di ambiguità e di ambivalenza rispetto alla propria cultura, alla propria natura e si sono allontanati dalla propria appartenenza. Di fronte a tale problema, un azione di ricostruzione dei valori umani delle nostre culture che giacciono sotto le macerie si impone».

Bin Laden morto 6 anni prima del raid

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Il leader di al Qaeda sarebbe morto per cause naturali molto prima del blitz dei Navy Seals. Lo rivela l'ex capo dei servizi segreti militari pachistani


Prosegue il tormentone sulla morte di Osama Bin Laden. A metter in dubbio che il capo di al Qaeda sia rimasto ucciso ad Abbotabad (2 maggio 2011) ora è l'ex capo dei servizi segreti militari pachistani, generale Hameed Gul.

In un intervista all'emittente tv Geo News Gul afferma che Bin Laden è morto nel 2005. Ben sei anni prima, dunque, del famigerato blitz dei Navy Seals. "Sono convinto che Osama non era ad Abbottabad al momento dell’incursione - ha detto - perché era morto nel 2005 percause naturali".

Il militare si dice sicuro che prima o poi "emergerà tutta la verità" sull’operazione segreta condotta dai Navy Seals il 2 maggio 2011. Durante il raid notturno nella villa bunker diAbbottabad, le forze speciali Usa uccisero lo sceicco saudita, dopo averlo sorpreso mentre dormiva con una delle sue mogli, e ne portarono via il corpo. Secondo quanto fu riferito dalle autorità statunitensi, la salma fu gettata in mare da una portaerei nel Mar Arabico settentrionale dopo una breve cerimonia funebre.

L’ex generale Gul, in pensione dal 1992, era stato accusato in passato di aver appoggiato Bin Laden e i talebani.

La guerra d'Algeria e il "piano Pouget"

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Recensendo la riedizione ( finalmente in versione integrale ) de “I centurioni” , livre de chevet della giovane destra degli anni sessanta, Stenio Solinas osservava con favore che la Casa editrice Mursia aveva affidato “ la traduzione, per il progetto che includeva anche la pubblicazione de “I pretoriani”, a uno  specialista in materia, Gianfranco Peroncini, autore per la stessa casa editrice di “Il sillogismo imperfetto. La guerra d'Algeria e il “Piano Pouget”….. monumentale ricostruzione non solo di quel conflitto, ma delle componenti politiche, sociali, ideali e psicologiche che ne fecero il paradigma dell'incontro-scontro fra imperi e colonie”.

 Il volume citato ( 800 pagine oltre 650 note ) è una lettura fondamentale per chi voglia comprendere  le vicende della guerra d’Algeria, il concetto di “ guerra rivoluzionaria”, l e condizioni della conquista del potere da parte del gollismo, il “superamento” delle concezioni coloniali nell’affermarsi di un neocolonialismo capitalistico.

L’analisi del Peroncini  è enorme in vastità : le tensioni e le preoccupazioni  nell’ Armée tra le due guerre, la frattura avvenuta durante il conflitto mondiale, la guerra d’Indocina dal disastro della Route Coloniale 4 alla tragedia finale di Dien Bien Phu, la crisi di Suez e l’intervento in Egitto ma ancor di più in profondità: il che gli permette, ad esempio, di far emergere in modo chiarissimo l’impatto che per i sopravvissuti ( sette corsi di allievi di Saint-Cyr distrutti) ebbe la sconfitta in estremo oriente . Non solo la sconfitta in sé ma la consapevolezza e la vergogna per il tradimento compiuto nei confronti delle popolazioni che avevano dato fiducia alla Francia e alla parola d’onore per essa spesa dagli Ufficiali. Come scritto da un capitano sul Courrier de la Nation: “Conserviamo nei nostri cuori l’immagine di una folla che si gettava in mare per raggiungere le nostre navi e il ricordo di tutti coloro che quel giorno sono annegati”. Incidentalmente non risulta una simile drammatica presa di coscienza  per  un altro successivo abbandono di Saigon.

E’ con la consapevolezza di questa “colpa”, con la volontà di vincere e di mantenere alla Francia i dipartimenti algerini, con la convinzione di trovarsi di fronte a una “ guerra rivoluzionaria” cui si poteva far fronte solo comprendendone  e facendone  proprie la natura e il carattere specifico che viene affrontata la ribellione algerina.

I limiti di una scheda impongono di sintetizzare la miriade di informazioni e di riflessioni che nascono dalla lettura di questa opera omettendo l’esame degli avvenimenti e di segnalare taluni elementi di fondo: la profonda divisione fra chi ln Indocina aveva combattuto e gli stati maggiori che quell’esperienza, non vissuta sul campo, non erano stati in grado di comprendere perché estranea alla loro cultura, la drammaticità della scelta della tortura a fronte di una guerriglia che faceva letteralmente a pezzi donne e bambini e che ricevette dalla opinione pubblica una condanna che non si ebbe per gli analoghi comportamenti dei “barbouzes” o per quelli subiti dagli harkis, la inevitabilità della vittoria gollista espressione anche di “poteri forti” (esemplare la nomina a  primo ministro di Georges Pompidou già direttore generale della Banca Rothschild).

Ma non si può non accennare al piano Pouget che ipotizzava una nuova Algeria, più giusta e solidale, da far nascere dall’incontro fra i combattenti delle due parti: un sogno che fu a un passo dal realizzarsi quando il 16 maggio 1958 oltre trentamila arabi provenienti dalla Casbah si unirono ai manifestanti europei. E Yves Courrière scrisse di « miracolo », della folla della ratonnade che abbracciava i « fratelli musulmani ».

Miracolo durato poco : il primo giugno successivo il maggiore Pouget, veterano d’Indocina e di Algeria, riceveva l’ordine di seguire un corso ad Arzew  dove venivano inviati gli ufficiali subalterni destinati per la prima volta in Algeria. Il « piano Pouget era liquidato », l’Algeria era perduta

 

Gianfranco Peroncini “Il sillogismo imperfetto
La guerra d'Algeria e il «piano Pouget », un'alternativa dimenticata “  Mursia  26 euro


 

Il senso della continuità storica nell'era Putin

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«Chi vuole restaurare il comunismo è senza cervello. Chi non lo rimpiange è senza cuore» (Vladimir Putin).  Su questa celebre frase pronunciata dal Presidente della Federazione Russa, inserita da Emmanuel Carrère quale incipit del proprio romanzo biografico Limonov, si sono scatenati ampi dibattiti, talvolta faziosi e tendenziosi, volti a individuare la precisa posizione del politico russo in merito alla controversa eredità sovietica. In questa concisa riflessione vorremmo tuttavia superare le analisi politiche contingenti o le considerazioni storiografiche per rilevare, in nuce alla presente affermazione, una possibile chiave metodologica d'interpretazione della tradizione storica.

 

 

 

 In questo senso, l'importanza dell'osservazione di Putin oltrepassa il dibattito sul comunismo russo per indurci  a riflettere sulla rilevanza e il fascino di una visione della storia che sia capace di sintesi, di critica onesta ma equilibrata e, insieme, di consapevolezza destinale del portato del proprio passato.

Assumere su di sé l'eredità storica, al di là di ogni celebrazione ideologica o puerile vergogna, rappresenta un atto politico – a livello comunitario – ed esistenziale – a livello individuale – di grande portata. Significa infatti farsi carico delle proprie radici senza mitizzarle artificiosamente, eppure integrandole nello sviluppo processuale della comunità di appartenenza, il cui stesso esito e la cui stessa identità scaturiscono proprio da tale percorso.

Se la restaurazione è un gesto imbelle e fallimentare, destinato a degenerare in sterile conservatorismo, e il progressismo a oltranza, dimentico di ogni vincolo con il passato, annienta ogni legame con la tradizione comunitaria in cui ha luogo la genesi della persona – nonché della dimensione immaginale e archetipica a cui questa genesi si ispira –, un'altra via risulta possibile. É appunto la strada tracciata da una consapevolezza sintetica della storia, che è luogo di conflitto – l'eracliteopolemos – ma anche di costituzione di senso e di manifestazione del destino.

Se il realismo politico impone di tenere lo sguardo fermo verso il futuro, è proprio la medesima postura a invitare a trarre lezione dal passato, evitando gli atteggiamenti inquisitori e imparando a valorizzare le linee guida che costituiscono in modo positivo l'identità nazionale o federale. É difatti questa l'unica via che può rendere possibile quelle pacificazioni nazionali grazie a cui le lacerazioni del passato possono reintegrarsi nella coscienza del presente.Curare le ferite storiche è dunque un atto terapeutico di responsabilità politica. Lo chiarisce limpidamente Alfonso Piscitelli, che in un articolo apparso su Politicamentea commento di alcuni discorsi di Putin (anno IX, n. 91 – marzo 2014) rileva: «Al passato non si ritorna e i fantasmi del passato devono essere dissolti, ma il quarto comandamento dice: “Onora il padre e la madre”; pertanto tutti coloro che in buona fede, con volontà costruttiva, di epoca in epoca hanno operato per rendere grande la nostra storia devono essere onorati. Alla concezione progressista che dissolve il passato nell’acido della critica, alla concezione reazionaria che vorrebbe cristallizzare il tempo storico in una sorta di museo, si sostituisce una visione del mondo che sintetizza modernità e tradizione; come dire: l’icona della Madonna di Vladimir & i progetti spaziali dell’agenzia Roscosmos».

Fra amor fati e sintesi storica è racchiusa pure la lettura di Alexander Dugin, filosofo e politologo russo, che ha affermato in un saggio: «Nella nostra storia abbiamo conosciuto dei periodi che, da un punto di vista razionale, sembrano contraddirsi completamente: la Russia del regno moscovita, dal XV al XVII secolo, l'impero di Pietro il Grande e dei suoi successori, la rivoluzione zarista e ortodossa, la Russia comunista e atea. Ma vedere nella nostra storia delle rotture significa avere uno sguardo superficiale. Esaminando le cose più attentamente, si constata presto che quella che sembrava in superficie una rottura manifestava in effetti, in profondità, una grande continuità» (A. de Benoist, A. Dugin, Eurasia, Vladimir Putin e la grande politica, Controcorrente, Napoli 2014, p. 68).

La storia della Russia è storia imperiale, connotata secondo una coscienza destinale e, a tratti, persino escatologica. Assumere questa identità, senza piombare in ridicole parodie, potrebbe insegnare molto, anche ai non russi. Superare tanti schemi interpretativi usurati, che su un piano politico servono solo a conservare uno status quo di appartenenze neotribali, e su un piano culturale limitano la crescita comune, è compito presente e futuro irrefutabile.

Così il rilancio dell'educazione patriottica, il tentativo di veicolare una visione conflittuale ma sempre tragica e grande dell'eredità storica, onorando il “tipo russo”, al di là degli schieramenti contingenti, così come l'introduzione di un “manuale unico” di storia nelle scuole, non devono  essere letti soltanto quali strumenti di propaganda dell'amministrazione putiniana, ma possono racchiudere intuizioni importanti in vista dell'edificazione di un codice culturale d'appartenenza condiviso.

 

 

Le radici islamiche dell’Europa

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radici_islamicheSgombriamo subito lo spazio da un equivoco che potrebbe ingenerare involontariamente il titolo del libro. L’Autore non intende sostenere che le “radici dell’Europa” siano esclusivamente islamiche. Si tranquillizzino dunque gli islamofobi più scalmanati.

Certo, però, una volta chiarito che oggetto del libro è il riconoscimento di un “travaso di civiltà” verso l’Europa dalle terre dell’Islam mentre la prima faticava ad uscire ancora dal trauma del crollo dell’Impero romano, non siamo del tutto sicuri di aver placato i furori di tutti quelli che, come sentono parlare d’Islam, cominciano ad agitarsi e a sudar freddo.

Ma bisogna farsene una ragione: esistono anche le “radici islamiche” dell’Europa. Non solo quelle greco-romane e/o giudaico-cristiane, tanto per citare le due più gettonate (e strumentalizzate).

Di prim’acchito uno potrebbe contestare che no, non è possibile, perché tutti questi musulmani e le loro moschee non s’erano mai visti da queste parti. Eh, fosse così semplice la questione… E ci voleva qualcuno che si prendesse la briga di spiegarla, con stile divulgativo ma dall’alto di una notevole preparazione in materia.

E con tanta, tanta buona volontà.

Sì, perché di questi tempi, un Massimo Jevolella che si mette a raccontare – rimandando il lettore a fondamentali riferimenti bibliografici – che l’immagine dell’Islam e del suo Profeta è stata condizionata dalle trasformazioni politiche e culturali del “vecchio continente”; che “il sapore dell’estasi” (cap. 2) accomuna Dante Alighieri, la sua Commedia e l’Ascensione proprio di quel terribile “Maometto”…[1] ; che le origini della poesia “cortese” e del relativo concetto di “amore” sono assolutamente islamiche; che tra spiriti elevati non esistono barriere religiose o “culturali” di sorta (Federico II, San Francesco, il massimo_jevolellaSaladino, il sultano ayyubide d’Egitto); che la civiltà islamica al suo apogeo ha sempre esaltato la ricerca della “scienza” – di una scienza primariamente rivolta all’edificazione di sé – ovunque essa fosse disponibile (cap. 5), e che a sua volta l’ha messa a disposizione anche del “nemico” (si pensi alle matematiche, alle conoscenze mediche…); che il viaggio in Oriente, in special modo quello tra i musulmani, ha rappresentato, quando gli europei si sono sentiti più forti, un elemento importante nella definizione della loro identità. Insomma, uno che si prende la briga di condensare in sole 141 pagine la ricchezza e l’inestimabile dono di cultura e sapienza che ci è arrivato dalla civiltà islamica, in tempi di terror panico per ciò che concerne i “seguaci di Allah” non può che appartenere all’evangelica schiera degli uomini di buona volontà.

Quelli che, invece di seminare discordia, cercano di metter pace. Perché la prima è facile a spargersi, anche in mezzo a tanta “erudizione”; la seconda comporta un enorme sforzo di autocontrollo. Non è forse anche questa una forma di jihâd?

Le radici islamiche dell’Europa entra così a far parte di quei libri che non dovrebbero mancare dalla biblioteca di un ministro degli Esteri o di un ministro della Cultura. E, diciamocelo pure, dalle biblioteche di tutti quegli esagitati che in nome di un preteso “Islam delle origini”, assolutamente “puro” ed “incontaminato” che oggi essi sarebbero in grado di riproporre, si permettono d’infamare il nome di Dio perché, anziché “cercare la scienza, fosse pure in Cina” (detto profetico), ricercano con un “martirio” ben poco ascetico e molto “moderno” (perché intriso d’odio) la scorciatoia per il Paradiso.

corano_libropaceForse, a tutti costoro – gli uni adusi ad accodarsi alle “missioni di civiltà” occidentali, gli altri sclerotizzati al punto dal condannare come “innovazione” tutto quello che non s’inquadra nel loro sistema ideologico – farebbe bene ricordarsi che Wa lâ Ghâliba illâ Llâh (Non vi è Vincitore se non Allah).

A questa verità assoluta, scolpita a ripetizione nell’Alhambra, Jevolella dedica il capitolo 3 del suo libro, tra i cui ulteriori pregi si annovera quello di chiarire, pagina dopo pagina, che interminabili querelle come il conflitto tra “scienza e fede” sono puramente oziose perché partono da un presupposto sbagliato. La religione, purtroppo, salvo rari periodi aurei (come quello “islamico” qui indagato che va grosso modo dalle origini alla conquista mongola della Siria), è rimasta a tutte le latitudini ostaggio di persone inadeguate, che per puntellare il loro potere hanno frapposto una miriade di ostacoli ad un “progresso” in determinate scienze che comunque ha innegabilmente migliorato, dal punto di vista materiale, l’esistenza della persone. Mentre a Cordova o a Baghdad si godeva di quelli che oggi chiameremmo i “comfort” e si veniva curati persino per le malattie mentali, in Europa si moriva per un raffreddore e a chi soffriva di qualche turba psichica non si trovava di meglio che impartirgli digiuni e penitenze.

libro_dei_cerchiMa la fine della storia qual è stata? Che oggi, tutto questo “progresso” s’è per così dire inorgoglito, e se agli europei, trasformatisi in “occidentali” in opposizione agli “orientali”, esso ha dato alla testa facendo loro dimenticare che, alla fine, anche di una lavatrice o di un frigorifero dovrebbero sempre ringraziare Iddio, ai musulmani che se lo son visto arrivare tra capo e collo, senza alcuna “metabolizzazione” (nel bene e nel male), esso ha prodotto più d’uno sconquasso cui il cosiddetto “fondamentalismo” tenta di dare una risposta.

Ma forse “la religione non è cosa per tutti”, verrebbe da dire. Col che ci troviamo d’accordo con Jevolella quando qua e là, nel suo affascinante affresco, prende apertamente le parti dell’Islam dei “mistici”, e non di quei “dottori della legge” che, assieme ad una “scienza” e una “tecnica” senz’anima, hanno saputo produrre i peggiori obbrobri “islamici”.

Ma questa è storia di oggi, mentre quella che Massimo Jevolella invita il lettore a ripercorrere per sommi capi è quella che – grazie ad una trasmissione del sapere che proveniva dalla Persia, dall’India e, per l’appunto dalla Cina (non solo dalla Grecia…) – possiamo, senza temere le rimostranze di qualche islamofobo, assumere a pieno titolo tra le radici islamiche dell’Europa.

 

Note:

[1] Sarà utile ricordare che la Luni Editrice ha riproposto nel 2014 la ristampa della traduzione dello studio di Don Miguel Asín Palacios, Dante e l’Islam, pubblicato per la prima volta in Spagna nel 1919 (prima traduzione italiana: Pratiche Editrice, Parma 1994).

Due potenze, un ordine mondiale

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Stati Uniti - Gran Bretagna: dal ‘700 al caso-Snowden, storia di una relazione speciale.
  

Nel pieno degli sconvolgimenti che stanno agitando l’Europa, dall’Ucraina fino alla Grecia, un attore continua a distinguersi per la convinta aderenza alle istanze e ai diktat provenienti dagli Stati Uniti: la Gran Bretagna. La volontà di arrestare la (pre)potenza tedesca e di impedire un suo avvicinamento a Mosca accomuna i due paesi in maniera sempre più evidente. Nonostante alcune battute d’arresto, come i recenti ammiccamenti della City verso la Cina, questo rapporto vanta radici solide e lontane nel tempo, che meritano di essere studiate per capire il presente.

Daniele Scalea, in un recente saggio pubblicato sul «Semestrale di Studi e Ricerche di Geografia», ha ripercorso le tappe della special relationship Londra – Washington che ha caratterizzato la scena politica in modo indelebile, e continua a farlo. Le basi ideologiche dell’unità anglosassone mondiale affondano le loro radici nel ‘700. Adam Smith, padre del liberalismo e convinto fautore di un maggior coinvolgimento delle colonie nella politica britannica, riconobbe il grande potenziale del Nord America, tanto da arrivare a immaginare un futuro in cui la capitale si sarebbe spostata oltreoceano. «Questa “facilità” con cui i britannici riuscivano a immaginare lo spostamento della capitale lontano dalla madrepatria colpì Schmitt, il quale la mise in relazione all’elemento acquatico dell’Impero britannico, di cui l’Oceano era la vera sede», scrive Scalea.

I consigli di Smith non furono seguiti, e il mancato riconoscimento delle richieste delle colonie («No taxation without representation») fu alla base della guerra d’indipendenza, che segnò una rilevante spaccatura tra Londra e Stati Uniti. Il conflitto, assieme ad altri scontri e incidenti, non impedì la costruzione di un rapporto sempre più stretto nel tempo. Una vasta produzione culturale si spese in questo senso, promuovendo l’idea di un’unione paritaria tra le varie comunità anglosassoni sparse nel mondo. La Greater Britain, teorizzata dal politico liberale Charles W. Dilke (1868), fu la formula più in voga, in cui spiccava l’idea della superiorità delle istituzioni inglesi e dei concetti di “sangue” e “razza” quali elementi unificanti. Tra le numerose spinte in questo contesto (come l’Imperial Federation League del 1884) acquistò notorietà la figura di Alfred Milner, convinto sostenitore della superiorità della «razza britannica». Nel suo «Credo» si legge: «I am a British (indeed primarily an English) Nationalist. If I am also an Imperialist, it is because the destiny of the English race, owing to its insular position and long supremacy at sea, has been to strike roots in different parts of the world. I am an Imperialist and not a Little Englander because I am a British Race Patriot». L’importanza dell’elemento «mare» si ritrova anche nelle speculazioni di Alfred Thayer Mahan e John Mackinder, padri della geopolitica classica. Milner divenne celebre durante le guerre in Sudafrica d’inizio ‘900, affermandosi come figura carismatica e allevando una generazione di capaci amministratori, ironicamente da lui definita Milner’s Kindergarten. Il suo impegno fu alla base della creazione del Round Table Movement, che voleva rilanciare il prestigio anglosassone includendo apertamente nel progetto non solo le colonie ma anche gli USA, potenza sempre più in ascesa. «Il Round Table, principale prodotto del milnerismo, riportò l’idea – svuotata del suo anglo centrismo – negli USA, gettando così le basi ideologiche di quell’alleanza e solidarietà tra le cinque potenze anglosassoni (USA, GB, Canada, Australia, Nuova Zelanda) che prosegue ancora oggi». Proprio due membri del movimento, Lionel Curtis e Walter Lippmann, fonderanno rispettivamente il Royal Institute of International Affairs (Chatam House) e il Council of Foreign Relations, fulcri della politica estera di Londra e Washington.

La Prima e ancor più la Seconda Guerra Mondiale segnarono il sorpasso statunitense sull’Impero britannico, ma il legame creato negli anni non ne risentì. Anzi andò rafforzandosi, pensiamo solo all’opera di Winston Churchill che coniò il termine special relationship. Nel 1941, quando l’America non era ancora entrata in guerra, Roosevelt aveva firmato insieme alla Gran Bretagna la Carta Atlantica, che disegnava i futuri assetti dominati dalle democrazie. La «crociata in Europa», per usare le parole di Eisenhower, portò alla costruzione di un nuovo ordine mondiale caratterizzato dal dollaro e dalla lingua inglese. Tra alterne fortune, la relazione porta i suoi frutti ancora oggi. L’appoggio inglese alle guerre di Bush jr. è stato l’esempio più lampante, senza trascurare il recente caso-Snowden, dove è emersa la sorveglianza globale attuata dalle intelligence di USA, Gran Bretagna, Canada, Australia e Nuova Zelanda («Five eyes») ai danni di paesi alleati, tra cui il nostro. Uno spionaggio frutto di accordi segreti stipulati tra potenze anglosassoni, logico risultato di storiche «relazioni speciali» che non accennano a finire.


Andare per l’Italia araba

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italia_araba_vanoli2Quando visitiamo un Paese o studiamo un periodo storico è sempre bene ricordarsi che noi possiamo o riusciamo a vedere solo quello che i nostri occhi sono in grado di vedere.

Alessandro Vanoli, autore di Andare per l’Italia araba (Il Mulino, Bologna 2014), ciò lo mette in chiaro fin dalle prime battute di questo suo agile e stimolante volumetto, che in 140 pagine, lungi dal pretendere di esaurire l’argomento della presenza araba e islamica in Italia, stimola il lettore ad approfondire una traccia sotterranea della nostra identità.

Che cosa intende esprimere il Vanoli con quell’opportuna avvertenza che riaffiora qua e là nel testo? Che non è affatto scontato che gli uomini che hanno vissuto nella Penisola nei secoli passati abbiano saputo “vedere” quello che per noi, oggi, può risultare di una certa evidenza.

Perché l’interesse per questo o quel “momento” della nostra storia, per esaltarlo o denigrarlo, deriva essenzialmente dal “clima” di un’epoca.

Durante il Fascismo, per esempio, venne incoraggiata al massimo grado la riscoperta delle vestigia romane (e non solo). Poi, col crollo del regime, vi fu un certo ripensamento al riguardo dell’unilateralità di quella prospettiva (per giungere, purtroppo, anche ad eccessi di segno opposto). Insomma, gli uomini di ogni epoca risentono delle idee che circolano, le quali ‘aprono’ loro gli occhi in una direzione o un’altra.

E così, attraverso rapidi e sintetici ‘affreschi regionali’ – dalla Sicilia alla Puglia, dalla Campania alla Toscana, dal Veneto al Piemonte – l’esperto medievista già autore de La Reconquista (2009) e La Sicilia musulmana (2012) ci conduce lungo le tappe a suo parere più significative, storiche ed artistiche, di quella che potremmo definire “l’Italia arabo-islamica”.

Che altri, producendo volumi davvero pregevoli per quantità e qualità d’informazione, hanno indagato con maggior dovizia di particolari[1].

Ma questo libro, come scrivevamo, è un invito. Un invito a scoprire – o riscoprire – quel passato.

Che convive in noi, anche se spesso non lo vogliamo ammettere o riconoscere, succubi come siamo di una propaganda che vorrebbe tracciare una linea di demarcazione netta tra “noi” e “loro”.

AlessandroVanoliInvece le cose sono fortunatamente un attimo più complesse. E di questa complessità della storia (un elemento sul quale Romolo Gobbi ha invitato a riflettere) Vanoli dà perfettamente conto ricordandoci, per esempio, che mentre “il turco” metteva una gran paura c’era chi, senza tanti sotterfugi, ci faceva lauti guadagni, in nome di quel commercio che, assieme alla cultura, non ha mai sopportato troppe barriere.

I limiti e le differenze tuttavia esistono, essendo probabilmente un dono della Provvidenza (il Corano stesso invita a meditare su questo, proponendo l’immagine di una “misericordia” per gli uomini, affinché nel confronto – e, perché no, nello scontro – si migliorino e si avvicinino alla Perfezione). Altrimenti non potremmo neppure parlare di “Italia araba”, bensì, in assenza di qualsiasi “differenza”, di un tutto indistinto dalle sembianze decisamente inquietanti e disperanti.

Per questo, accogliendo con entusiasmo l’invito dell’autore a mettersi in viaggio alla ricerca di questa “altra storia”, vorremmo ricordare a chi ha in orrore le “identità” che più ve ne sono, in una stessa persona o comunità, e meglio è. Mentre la tragedia è quando non ve n’è più alcuna o, variante sul tema, se ne proclama solo e sempre una, in maniera interessata e sclerotica, per bassi fini che non hanno a che vedere in alcun modo con la tanto sbandierata “cultura” e, tanto meno, con la ricerca della Verità.

E allora mettiamoci in cammino, lungo le vestigia e le storie di questa “Italia araba” che Alessandro Vanoli è stato in grado di “vedere”[2].

Note:

[1] Tra i vari titoli che si possono citare da un’oramai corposa bibliografia: F. Gabrieli, U. Scerrato, Gli arabi in Italia. Cultura, contatti e tradizioni, Garzanti/Scheiwiller, Milano 1985 (2a ed.); G. Curatola (a cura di), Eredità dell’Islam. Arte islamica in Italia [Venezia, Palazzo Ducale, 30.10.1993/30.4.1994], Silvana Editoriale, Milano 1993; S. Allievi, Islam italiano. Viaggio nella seconda religione del paese, Einaudi, Torino 2003; L. Scarlini, La paura preferita. Islam: fascino e minaccia nella cultura italiana, Bruno Mondadori, Milano 2005; Venezia e l’Islam. 828-1797 [Venezia, Palazzo Ducale, 28.7./25.11.2007], Marsilio, Venezia 2007; A. Feniello, Sotto il segno del leone. Storia dell’Italia musulmana, Laterza, Roma-Bari 2011.

[2] Il libro si conclude significativamente con una tappa a Torino, forse la città d’Italia più “araba” dei nostri giorni. A riprova che “l’Italia araba” non è solo questione di testimonianze architettoniche, d’immaginario ispirato all’“Oriente” e di pagine di storia più o meno significative. A testimonianza di un rapporto ed un interesse duraturi che si dipanano tra fasi alterne, luci ed ombre, possiamo annoverare anche la recente rinnovata diffusione dell’editoria specializzata nell’insegnamento della Lingua araba, dopo le prime pionieristiche e per certi versi insuperate grammatiche d’epoca coloniale.

L'Islam nel XXI secolo: una sintesi

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Gli eventi recentissimi – primi fra tutti la dinamica avviata nel Vicino oriente e in Africa dalla presenza dello “stato islamico” del califfo al-Baghdadi e l’avvìo di una possibile soluzione diplomatica alla questione dell’embargo decretato contro l’Iran a causa del suo supposto programma di autodotazione di un’arma nucleare – obbligano a un generale ripensamento del ruolo dell’Islam in rapporto al nostro nuovo secolo e all’equilibrio mondiale.

L’ultimo numero della rivista “Limes” pone il problema della “radica quadrata del caos”, che si dovrebbe calcolare partendo dall’analisi di quanto sta avvenendo in Israele-Palestina, in Arabia Saudita, in Iran e in Turchia e nei reciproci rapporti tra questi stati: un problema per la verità complicato anche dal fatto che nell’affaire arabo-islamico-vicinorientale entrano direttamemte anche lo Yemen, l’Egitto, la Libia, il paese curdo nel suo complesso (che interessa quattro stati: Turchia, Siria, Iraq, Iran), mentre ai margini si profila un coinvolgimento di si può dire tutta l’Africa settentrionale.

A questo punto, mentre il sia pur appena incertamente avviato accordo con l’Iran sta compromettendo addirittura i rapporti tra governo israeliano e presidenza USA mentre gli sviluppi del problema del gasdotto russo sembrano impostarsi sulla via di una del tutto inedita e fin qui inaudita (nel senso etimologico del termine) “amichevole collaborazione” russo-turca – dai tempi di Pietro di Grande considerata impossibile -, appare indispensabile un generale ripensamento sull’Islam: sulla sua natura, sulle conseguenze degli eventi del XX e XXI secolo che hanno condotto all’impiantarsi del fenomeno “fondamentalista-islamista-jihadista”, sullo sviluppo della fitna (“contesa”, “lotta”) sunnito-sciita ma anche intrasunnita, sull’ambiguo ruolo delle potenze arabe del Golfo che mostrano un volto tradizionalista/fondamentalista sul piano religioso e civile, ipermoderno e filoccidentale su quello politico, economico, finanziario, tecnologico e produttivo.

A questo riguardo segnalo l’importanza del numero del giugno 2015 della rivista “Oasis – cristiani e musulmani nel mondo globale”, organo della Fondazione Internazionale Oasis il cui comitato promotore è presieduto dal cardinal Angelo Scola e che si pubblica in quattro lingue (italiano, francese, inglese e arabo). Tale numero reca un titolo e un sottotitolo del tutto eloquenti: L’Islam al crocevia. Tradizione, riforma, jihad. La crisi attuale affonda le sue radici in un secolo lungo di rinnovamenti e chiusure. La lezione del passato, il dibattito di oggi.

In 142 pagine dense di articoli e recensioni, un gruppo di specialisti e di osservatori attenti cerca di mettere a fuoco i problemi salienti della crisi dell’Islam e soprattutto di rispondere all’urgente questione se essa sia crisi strutturale o episodica, temporanea o irreversibile, “di sviluppo” o “di decadenza”; e se i suoi risultati saranno un riacquisto di equilibrio o un’intrinseca mutazione o addirittura l’avvìo di una fase che potrebbe configurarsi come letale. Ciò tenendo presente che, in questi anni di conclusione di quella che Zygmunt Bauman definisce “Modernità solida”, la crisi appare come generale, onnipresente, e riguarda tutte le fedi e i culti religiosi non meno di altri aspetti della vita del genere umano. In altri termini, se l’Islam è in crisi, esso è in buona compagnia.

Nel consigliare la lettura di questo fascicolo di sintesi davvero preziosa (lo si può richiedere alla sua casa editrice, la veneziana Marsilio, oppure scrivendo a oasis@fondazioneoasis.org), mi limito a segnalare che nel saggio di apertura dal titolo Il secolo lungo dell’Islam che sembra arieggiare a una replica rispetto alle tesi di Eric Hobsbawm a proposito del Novecento come “secolo breve”, Martino Diez parte dalla considerazione – che dal mio canto ritengo assolutamente condivisibile – che esso, almeno per l’Islam, vada inteso e considerato invece come “secolo lungo” che parte dall’inizio dell’Ottocento. La rivista svolge il tema delle tesi interne all’Islam, a partire soprattutto dal magistero di Muhammad ‘Abduh (1849-1905); per quanto mi riguarda, facendo tesoro di tale indicazione proporrei una parallela considerazione dei rapporti tra Islam e Occidente, ai quali evidentemente lo sviluppo interno del pensiero musulmano è strettamente connesso. Ma tutto ciò conduce a due eventi, situati oltre un secolo di distanza l’uno dall’altro, che hanno profondamente inciso sulla vita dell’Islam in generale, di quello arabo in particolare: lo sbarco del Bonaparte in Egitto nel 1798 e la “rivolta araba” del 1916 con l’annesso inganno del trattato Sykes-Picot. FC

Stupri e saccheggi degli Alleati in Germania

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Il libro di una giovane storica tedesca riapre un capitolo che tutti vorrebbero dimenticare: la violenza sugli sconfitti



I tedeschi, si sa, hanno tutte le colpe, da sempre: oggi sono i feroci custodi dell'euro, mentre ieri erano i Barbari che combatterono contro Roma, i Lanzichenecchi che la saccheggiarono, gli Unni che ci sconfissero a Caporetto, e i Nazisti che scatenarono la Seconda guerra mondiale, a cui, soprattutto, non possiamo perdonare di essere stati nostri alleati almeno fino al 1943.

Le macerie di Dresda dopo il bombardamento

Forse è per questo che, in Italia, non è possibile, o comunque non interessa, parlare di quello che la Germania patì dopo la sconfitta del 1945. Argomento tabù per tutto l'Occidente almeno fino alla caduta del Muro di Berlino, quello dei «vinti della liberazione» è, per ovvie ragioni, un argomento poco trattato. Qualche anno fa è uscito anche in Italia, tradotto da Einaudi ma ormai fuori catalogo, un libro anonimo intitolato Una donna a Berlino , un diario che raccontava con agghiacciante crudezza le violenze subite dalle donne tedesche durante l'occupazione sovietica, tanto brutali e sistematiche da rendere lo stupro di ogni creatura femminile dai nove ai novant'anni quasi una doverosa «normalità». Dal libro, nel 2008, fu tratto un film, anche quello di poco impatto sul pubblico nostrano, anche se incrinò il mito della cosiddetta «liberazione», che tale certamente non fu per la metà dell'Europa finita sotto il tallone dell'Armata rossa. Più recentemente, altri libri e documentari, come ad esempio Hellstorm , un saggio dello scrittore americano Thomas Goodrich da cui è stato tratto un impressionante documentario, visionabile anche su You Tube e un altro scioccante film, prodotto dalla Bbc, e disponibile anch'esso su Internet, 1 945: The Savage Peace , hanno raccontato la «pulizia etnica» operata contro i tedeschi nell'Europa Orientale. Sconsigliabile alle persone impressionabili, il documentario prodotto dalla Bbc mostra del raro materiale d'archivio sulle violenze e torture compiute insieme ad alcune interviste con alcune anziane, sopravvissute a stupri ed abusi inimmaginabili operati sempre dalle «orde sovietiche», la cui brutalità è stata assodata una volta per tutte e consegnata alla nostra memoria collettiva.

Quello che sinora, invece, è rimasto quasi totalmente inesplorato è il destino dei tedeschi finiti nelle mani degli Alleati, anche se un recente blockbuster americano ha, sorprendentemente, sfiorato l'argomento: parliamo di Fury , dove i carristi al comando di Brad Pitt, oltre che pensare a trucidare più tedeschi possibili, considerano del tutto naturale violentare le donne tedesche incontrate durante la loro avanzata. Quello che nel film è solo accennato fu, invece, un crimine di guerra sistematicamente compiuto dalle truppe americane, inglesi e francesi, come dimostra un saggio appena uscito in Germania, che ha già bruciato due edizioni in un mese: Als die Soldaten kamen , scritto da una giovane storica, Miriam Gebhardt, che ha deciso di raccontare la violenza contro le donne tedesche alla fine della Seconda guerra mondiale, come recita il sottotitolo del volume edito da Deutsche Verlags-Anstalt.

Quando arrivarono i soldati, questa la traduzione, che forse riecheggia il celebre best-seller di Paul Carrell, Sie Kommen! (Arrivano!), è un libro veramente disturbante, che smonta una volta per tutte il mito dei «buoni americani». Furono, infatti, almeno 900.000 le vittime tedesche di violenza operata dalle truppe alleate alla fine della Seconda guerra mondiale e negli anni successivi. Subirono violenza sessuale non solo le donne, ma anche uomini e ragazzi, e i soprusi contro la popolazione continuarono fino al 1955, anno in cui venne proclamata la Repubblica federale tedesca. La vergogna, il senso di colpa, la scoperta dei crimini contro gli ebrei - che nessuno intende sminuire o negare - fecero calare il silenzio sul lato oscuro dei liberatori. L'autrice, che insegna storia all'università di Costanza, ha consultato anche i dossier della polizia e gli archivi delle parrocchie, che in Baviera sono ricchi di cosiddetti «rapporti sull'invasione», ovvero elenchi delle violenze subite dai civili, mestamente elencate come una tragica, ineluttabile fatalità.

All'epoca, infatti, le violenze erano risapute: una lettera di un anonimo soldato americano, pubblicata su Time nel 1945, denunciava «la ferocia e il saccheggio del nostro esercito, considerato, ormai, un'armata di violentatori». Col tempo, la memoria degli orrori dei vincitori sbiadì; del resto, settant'anni di kolossal hollywoodiani in cui gli Alleati vengono rappresentati come eroi nobili e generosi, pronti a sacrificarsi per la nostra libertà, pagandola con cioccolata, sigarette e calze di seta, hanno fatto dimenticare le parole di Rex Stout, il celebre creatore di Nero Wolfe che, al pari di tanti altri suoi connazionali, incitava, in un famoso articolo pubblicato sul New York Times Magazine il 17 gennaio 1943, a sterminare senza pietà tutti i tedeschi, che andavano odiati e uccisi senza alcuna remora: il solo tedesco buono è quello morto.

A 150 anni dalla Guerra di Secessione

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Il 22 giugno 1865 vennero sparate le ultime fucilate della Guerra di Secessione americana, scoppiata nell’aprile di quattro anni prima e costata decine di migliaia di morti dall’una e dall’altra parte, per non parlare delle distruzioni materiali e dei danni economici. Si era trattato della prima guerra moderna, con il contributo tecnologico apportato al campo di battaglia in maniera considerevole.

La mitragliatrice Gatling avrebbe sconvolto il concetto di assalto frontale da parte dei reggimenti, l’uso della rete ferroviaria consentì lo spostamento di intere brigate in tempi rapidi, il telegrafo si dimostrò fondamentale nella trasmissione degli ordini. Tali innovazioni sarebbero state recepite dagli eserciti europei a partire dal conflitto franco-prussiano del 1870, per poi subire un percorso di studio e di perfezionamento destinato a culminare nella Prima Guerra Mondiale dopo la sperimentazione delle due Guerre Balcaniche (1912-1913).

Vulgata vuole che la secessione ed il conseguente conflitto tra Washington e separatisti originasse dal problema della schiavismo e dai progetti di emancipazione della comunità afroamericana. Non si vuole qui negare l’importanza del tema, ma si trattò della classica goccia che fece traboccare il vaso. Nel loro percorso di consolidamento e di conseguimento del rango di potenza continentale ma dalle già chiare ambizioni mondiali, gli Stati Uniti d’America avevano complicato enormemente il proprio tessuto sociale ed economico, allontanandosi da quel modello democratico equamente partecipato e condiviso che Alexis de Tocqueville aveva delineato nei suoi lavori sulla democrazia in America.

Mentre la dottrina Monroe aveva già delineato nel 1823 qual era l’ambito di proiezione politica del giovane Stato federale, in ambito economico i nascenti assetti industriali degli stati settentrionali avevano richiesto una politica isolazionista, onde evitare il confronto con le ben più rodate e competitive produzioni europee. L’Europa rappresentava, però, il mercato più importante per il sud agricolo e cotoniero e quindi giungevano richieste di maggiori aperture nei traffici e nei commerci, anche se il lavoro nei campi era essenzialmente manuale e non si era ancora avviato uno sviluppo industriale della raccolta del cotone. Di certo gli afroamericani costretti a questi lavori non godevano di tutele e garanzie, ma d’altro canto la manovalanza di origine europea che veniva sfruttata nelle industrie del nord non godeva di condizioni sociali e sindacali tanto migliori. Nel tessuto economico meridionale la condizione lavorativa doveva collocarsi in un’area compresa fra la società bucolica di “Via col vento” e lo sfruttamento denunciato ne “La capanna dello Zio Tom”, ma paradossalmente il blocco della tratta degli schiavi ed il diminuito afflusso di manodopera di ricambio poteva migliorare le condizioni delle masse di schiavi, non più facilmente reintegrabili, laddove al nord l’esercito industriale di riserva disposto a lavorare nelle condizioni più infime era assiduamente alimentato dal flusso migratorio proveniente dal Vecchio Continente e quindi non si ravvisava la necessita di tutelare quello che oggi viene definito “capitale umano”.

Adoperandosi il governo federale soprattutto a beneficio dello sviluppo industriale e trascurando le istanze degli Stati del sud, Alabama, Arkansas, Carolina del Nord, Carolina del Sud, Florida, Georgia, Kentucky, Louisiana, Mississippi, Missouri, Tennessee, Texas e Virginia dichiararono la propria secessione appellandosi ai passaggi conclusivi della Dichiarazione d’Indipendenza del 4 luglio 1776 che definivano gli Stati membri come soggetti “liberi e indipendenti”, dotati di piena sovranità. Gli Stati separatisti, i quali avevano il controllo anche dell’Arizona, del Nuovo Messico e di parte dell’Oklahoma e si erano alleati con i nativi delle cosiddette Cinque Tribù Civilizzate (Creek, Cherokee, Seminole, Chickasaw e Choctaw), ritenevano insomma che Washington avesse snaturato il dettato della Dichiarazione, trasformando un accordo tra Stati sovrani in una carta costituzionale che tramutava una confederazione in una federazione. La campagna abolizionista promossa dal Presidente Abraham Lincoln contribuì ad esasperare la sensazione di non avere più voce in capitolo nelle scelte politiche ed economiche provenienti dalla capitale.

I successi militari iniziali dell’esercito sudista vennero rapidamente vanificati dal maggior quantitativo di truppe mobilitabili nei ranghi unionisti (l’esercito federale era quasi il doppio di quello confederato, che pur poteva avvalersi di consiglieri militari europei interessati a contrastare l’emergere della potenza economica statunitense) e dal blocco che la marina da guerra pose alle coste atlantiche e del Golfo del Messico. Interrotti i flussi commerciali ed impossibilitato l’afflusso di valuta pregiata dall’estero, lo Stato che si era dato per capitale Richmond implose rapidamente e giunse formalmente a conclusione il 5 maggio 1865.

Negli anni immediatamente successivi il governo federale fece terra bruciata del tessuto economico degli Stati secessionisti, mentre milioni di schiavi affrancati andavano ad ingrossare le fila di quanti erano disposti a lavorare sottopagati nei grandi complessi industriali. Lo iato fra nord e sud rimase a lungo profondo e solamente la proiezione militare globale della potenza talassocratica avrebbe consolidato il paese attorno ad una retorica patriottica molto accentuata. Il “destino manifesto” aveva comunque compiuto un importantissimo passo avanti, che uno dei primi colossal hollywoodiani avrebbe celebrato nel 1915 con la pellicola “Nascita di una nazione”, prodotta proprio in concomitanza con il cinquantenario della fine della guerra civile.

Oggi la bandiera sudista è diventata una sorta di feticcio per i primatisti razziali ed i fautori di abominevoli politiche segregazioniste, il ché contribuisce a gettare ulteriore discredito su un’esperienza statuale che si basava su ben altri presupposti. E non è detto che la storia non debba ripetersi: l’accademico e politologo russo Igor Nikolaiević Panarin, il quale negli anni Ottanta del secolo scorso aveva vaticinato il crollo dell’URSS mentre la maggior parte degli analisti occidentali coglieva soltanto una solida compattezza, ha previsto la disintegrazione degli USA proprio a partire dalla secessione degli Stati meridionali qualora la crisi economica si accentuasse.

Alcuni riferimenti bibliografici, in conclusione, per rileggere la storia della Guerra di secessione americana da una prospettiva complementare a quella del maggior esperto italiano, Massimo Luraghi (“Storia della guerra civile americana”, BUR 2009, e “La guerra civile americana. Le ragioni e i protagonisti del primo conflitto industriale”, BUR 2013): se “Il bianco sole dei vinti. L’epopea sudista e la guerra di secessione 1607-1865” di Dominique Venner (Settimo Sigillo, 2015, fresco di seconda edizione) appare fin troppo romanzato ed edulcorato nel descrivere gli Stati confederati, maggiormente equilibrato appare “Dalla parte di Lee. La vera storia della guerra di secessione americana” (Leonardo Facco, 2006) di Alberto Pasolini Zanelli, storico corrispondente de Il Giornale da Washington. Merita, infine, menzione la nuova uscita di Paolo Poponessi “DIXIE. La storia italiana della Guerra Civile Americana” (Il Cerchio, 2015), in cui si descrive il percorso che condusse italo-americani di più o meno recente immigrazione ma anche volontari provenienti dal neonato Regno d’Italia a combattere nell’uno come nell’altro degli schieramenti.

Lissa, una sconfitta dalle lunghe conseguenze

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Il 20 Luglio 1886 si svolse nell'arco di quella che fu la Terza Guerra di Indipendenza la Battaglia di Lissa, destinata a lasciare strascichi nella cultura del paese e nell'immaginario collettivo.


Navi di legno con uomini d’acciaio che ebbero la meglio su navi d’acciaio con uomini di legno. L’ammiraglio austriaco Wilhelm von Tegetthoff che impartisce ordini ai suoi marinai in dialetto veneto. La morte in battaglia di Luca dei “Malavoglia” di Giovanni Verga. Tanti aneddoti e riferimenti letterari hanno caratterizzato la narrazione della battaglia navale di Lissa (20 luglio 1866), avvenuta durante quella che per l’Italia fu la Terza Guerra d’Indipendenza e per Austria e Prussia restò agli annali come Guerra delle Sette Settimane (14 giugno-23 agosto). Il successo prussiano a Sadowa consentì all’Italia, sconfitta pure sulla terraferma a Custoza e vittoriosa solamente grazie ai volontari di Giuseppe Garibaldi a Bezzecca, di ottenere la retrocessione del Veneto tramite la Francia, ma il trauma di tale disfatta lasciò segni profondi nello sviluppo della Regia Marina.
Sorta solamente cinque anni prima contestualmente al Regno d’Italia e con l’unione dei bastimenti e degli equipaggi delle marine preunitarie, l’Armata Navale aveva tuttavia ricevuto robusti finanziamenti, su precisa indicazione di Camillo Benso Conte di Cavour, all’epoca contemporaneamente Presidente del Consiglio e Ministro della Marina. Lo statista piemontese aveva colto l’importanza della posizione strategica italiana nel cuore del Mediterraneo e la conseguente necessità di allestire una flotta moderna e bene armata. Venne fondato l’arsenale di La Spezia ed i cantieri italiani vararono le corazzate di seconda classe (ancora con lo scafo in legno) Principe di Carignano, Messina, Roma, Venezia e Conte Verde, mentre furono ordinate all’estero le fregate corazzate di prima classe Re d’Italia e Re di Portogallo (negli Stati Uniti), le fregate corazzate Ancona, Castelfidardo, Maria Pia e San Martino nonché le corvette corazzate Formidabile e Terribile in Francia e in Gran Bretagna l’ariete corazzato Affondatore, una delle prime navi munita di torri rotanti di artiglieria. Questa era una fase di transizione nella strategia navale, in cui coesistevano vascelli lignei e corazzati, artiglierie a lunga gittata e rostri di prua con i quali speronare e colare a picco le imbarcazioni nemiche.

Allo scoppio del conflitto, tuttavia, i cospicui investimenti non erano riusciti a forgiare affiatamento e spirito di corpo negli equipaggi, gli ufficiali sardo-piemontesi erano stati privilegiati nell’ascesa gerarchica rispetto ai colleghi provenienti dalle altre marinerie creando litigi e divisioni e le scorte di carbone e munizioni lasciavano alquanto a desiderare. Ciononostante, allo scoppio delle ostilità il comandante in capo ammiraglio Carlo Pellion di Persano concentrò le forze ad Ancona ed effettuò tra l’8 ed il 12 luglio un’infruttuosa esplorazione nelle acque austriache, ricevendo le prime critiche per non aver cercato lo scontro risolutore. Il Ministro della Marina Agostino Depretis esortò pertanto Persano a cannoneggiare ed occupare la base austriaca che si trovava sull’isola di Lissa, nel bel mezzo dell’Adriatico centrale. Durante la Prima Guerra d’Indipendenza le flotte italiche avevano attuato un blocco al largo del porto di Trieste, il più importante scalo commerciale austriaco; nella Seconda la flotta franco-sarda aveva compiuto uno sbarco nelle isole quarnerine di Cherso e Lussino; stavolta si progettava di prendere il controllo dell’Adriatico al fine di consentire uno sbarco garibaldino in Dalmazia, non tanto per annettere il litorale dalmata, in cui era pur presente una significativa comunità italiana, bensì per fomentare slavi e ungheresi ad insorgere contro il governo di Vienna, aprendo così un nuovo fronte.

Il 18 e 19 luglio il grosso della flotta italiana sprecò carbone e munizioni nell’assedio di Lissa, le cui difese costiere dettero ottima prova di sé, sicché il giorno dello scontro lo sbarco non era ancora avvenuto e gli equipaggi erano sfiduciati e stanchi, tanto più che il mare si era fatto mosso. 12 tra fregate, corvette e cannoniere corazzate, 10 pirofregate lignee e 4 cannoniere di legno battenti bandiera italiana videro giungere al mattino del 20 luglio dalla base austriaca di Pola 7 corazzate (fregate o corvette), un vascello a vapore, 5 pirofregate, una pirocorvetta e 12 cannoniere in legno. Incuneatosi in mezzo alla flotta sabauda schierata, Tegetthoff dette ordine a ogni nave di concentrare il fuoco su un unico obiettivo e la catena di comando si dimostrò più efficace di quella italiana. Colarono a picco le corazzate Re d’Italia e Palestro, mentre altre navi scamparono fortunosamente all’accerchiamento delle agili e insidiose unità austriache, il cui equipaggio era in effetti costituito in buona parte da marinai dalmati lealisti e pertanto la lingua franca per comunicare risultava il dialetto veneto. Rientrato ad Ancona annunciando un’improbabile vittoria, Persano sarebbe stato in seguito processato dal Senato del Regno, di cui faceva parte, riunito in Alta Corte di Giustizia e condannato per imperizia, negligenza e disobbedienza, ma la gravità della sconfitta (due navi affondate, 620 morti e 40 feriti) ebbe conseguenze a lungo termine.

Nonostante nuovi robusti investimenti, la Regia Marina denunciò un preoccupante complesso d’inferiorità che le operazioni compiute nella guerra italo-turca per il possesso della Libia non avrebbero fugato: dalle basi conquistate nel Dodecaneso il capitano di vascello Enrico Millo avrebbe portato le torpediniere Spica, Centauro, Climene, Perseo e Astore a violare lo stretto dei Dardanelli, insidiando da vicino il centro vitale della flotta ottomana. Si trattò comunque di un’audace incursione attuata da naviglio leggero, mancarono il massiccio spiegamento di forze e la battaglia decisiva, dopo che nei decenni precedenti la flotta si era impegnata al massimo nella scorta dei corpi di spedizione nel Corno d’Africa a più riprese e in Cina contro la Rivolta dei Boxer (1900).
Analogamente nella Prima Guerra Mondiale, in cui la flotta italiana e quella austro-ungarica si fronteggiavano nell’Adriatico più o meno ad armi pari, mancò il grande confronto risolutore poiché le navi italiane contribuirono essenzialmente ad irrobustire il blocco del Canale di Otranto che francesi e inglesi attuavano dall’agosto del 1914. Imponente sarebbe stato lo spiegamento di mezzi adoperati per trarre in salvo l’esercito serbo nell’inverno 1915-’16 ed assiduo si sarebbe rivelato il pattugliamento da parte di cacciatorpediniere e siluranti, ma di fatto i vertici italiani adottarono la tattica della fleet in being. Adottando il concetto di “flotta in potenza”, infatti, le navi da battaglia ed il grosso della flotta rimanevano ancorate al sicuro, onde evitare perdite e sconfitte che avrebbero danneggiato il morale, ma costringendo il nemico ad una costante vigilanza nel timore di improvvise sortite. D’altro canto il litorale dalmata frastagliato ed articolato in una miriade di isole e canali offriva sicuri approdi all’imperial-regia flotta, laddove la costa adriatica dello stivale era priva di punti di appoggio ed esposta alle incursioni nemiche. Nelle prime ore del 24 maggio 1915, in effetti, le prime incursioni di rilievo furono attuati dalla flotta austro-ungarica al gran completo, che cannoneggiò Ancona (che pur era stata dichiarata città aperta) ed altre località rivierasche, mentre la flottiglia lacustre del Garda colpì sul litorale veneto e lombardo. La Regia Marina dovette poi subire lo smacco di due attentati portati a segno dal servizio segreto asburgico: l’Evidenzbureau distaccato a Zurigo riuscì a infiltrare suoi agenti a Brindisi, ove colò a picco il 27 settembre 1915 la corazzata Benedetto Brin in seguito ad un’esplosione nella santabarbara, e a Taranto, ove analoga sorte toccò il 2 agosto 1916 alla corazzata Leonardo Da Vinci.

Come contromosse, un blitz in territorio elvetico dell’intelligence italiana consentì di scoprire i nomi di chi faceva parte della rete spionistica nemica e l’impegnativa difesa della costa adriatica fu affidata sempre più ai treni blindati, mentre si dimostrò debole la sinergia che la flotta di base a Venezia fornì alle truppe combattenti sul basso Isonzo, limitandosi a schierare alcuni pontoni armati di grossi calibri. L’affondamento della corazzata Vienna in rada a Trieste il 9 dicembre 1917, il siluramento della Santo Stefano nelle acque di Premuda il successivo 10 giugno e l’affondamento a Pola dell’ammiraglia Viribus Unitis il primo novembre 1918 furono prestigiosi successi, ma compiuti da naviglio leggero, cioè MAS e torpediniere capaci di infiltrarsi nelle maglie difensive nemiche e di assestare precisi colpi di siluro, oppure da incursori in grado di minare la chiglia della nave nemica.
Nel corso delle trattative di pace, i vertici della Regia Marina chiesero a più riprese che, coerentemente con il Patto di Londra, tutta la Dalmazia venisse annessa all’Italia, laddove il Regio Esercito preferiva rinunciarvi pur di portare il confine alle Alpi Giulie e fare a meno di impegnare numerose truppe per presidiare il frastagliato litorale adriatico orientale abitato in prevalenza da croati e serbi, i quali avrebbero tramato per l’annessione al neonato Regno dei Serbi, Sloveni e Croati. Quest’ultimo aveva fra l’altro ereditato l’imperial-regia flotta (già pochi giorni prima della fine del conflitto, tanto che l’affondamento della Viribus Unitis fu un danno maggiore per Belgrado che per Vienna) e costituiva pertanto un possibile antagonista italiano nell’Adriatico. Vani si sarebbero rivelati gli sforzi dell’ammiraglio Millo, governatore militare della Dalmazia dopo l’armistizio di Villa Giusti e giunto al limite dell’ammutinamento e dell’insubordinazione rispetto agli ordini provenienti da Roma, pur di annettere la costa dalmata all’Italia (fiancheggiamento dell’operato di Gabriele d’Annunzio a Fiume, favoritismi nei confronti della minoranza connazionale assieme ad un atteggiamento paternalistico nei confronti di croati e serbi per cercare di convincerli della bontà della presenza italiana). Il 12 novembre 1920 il Trattato di Rapallo risolse in maniera bilaterale il contenzioso di confine, assegnando all’Italia l’entroterra della Venezia Giulia (pur abitato a maggioranza da sloveni e croati), solamente l’enclave di Zara in Dalmazia (in effetti l’unica città a maggioranza italiana) ed istituendo lo Stato Libero di Fiume, contiguo al Regno d’Italia che però doveva liquidare la Reggenza del Carnaro. Ne sarebbero conseguiti il Natale di Sangue, l’allontanamento di d’Annunzio e dei suoi Legionari ed il malumore della Regia Marina, la quale non poteva dichiarare l’Adriatico “mare nostrum” e così emendare definitivamente la catastrofe di Lissa.

 

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