Quantcast
Channel: ARIANNA EDITRICE: rassegna stampa
Viewing all 569 articles
Browse latest View live

Evola e Dante. Esoterismo ed Impero

$
0
0


Share on facebookShare on twitterShare on emailShare on pinterest_shareMore Sharing Services2evola-e-danteTra i molti libri dedicati ad Evola nel 2014, in occasione del quarantennale della scomparsa, vale senz’altro la pena ricordare il volume di Sandro Consolato Evola e Dante. Ghibellinismo ed esoterismo, pubblicato dalle edizioni Arya (per ordini: arya@oicl.it, euro 18,00). Il valore di questo lavoro va colto nella organicità della trattazione, nell’uso accorto delle fonti e dei documenti, nell’elaborazione di tesi esegetiche che non risentono né dei limiti della denigrazione preconcetta, né della semplice esaltazione agiografica. Peraltro, il tema trattato, presenta aspetti di grande rilevanza per la contestualizzazione storico-teoretica dell’opera evoliana. Il saggio è strutturato in quattro densi capitoli preceduti da una premessa e seguiti dalle conclusioni dell’autore e da una   postfazione di Renato Del Ponte.

Consolato rileva come l’interesse mostrato da Evola per Dante, fosse assai diversificato: il tradizionalista si occupò, a più riprese, degli aspetti puramente esoterici del Poeta, di quelli esoterico-politici, ed infine della sua teoria dell’Impero. Per quanto attiene al primo, molti giudizi evoliani sono influenzati dalla sagace capacità interpretativa di Luigi Valli. Questi si distinse, sulla scorta del Pascoli esegeta di Beatrice, nel leggere l’espressione Fedeli d’amore che compare nella Vita Nova, riferita a compagni “dello stesso Dante in una fraternità esoterica ghibellina” (p. 14). A parere di Evola, ricorda l’autore, Valli destrutturò i criteri interpretativi dominanti allora la critica dantesca, quello estetico e quello centrato sulla ortodossia cattolica. Il cuore dell’esoterismo dell’Alighieri sarebbe racchiuso nel mistero della “Donna”, operante non solo nell’opera citata, ma anche nella Commedia, come confermato dalla lezione del Marezkovskij. “Donna-Beatrice” sarebbe figura evocante simbolicamente tre significati a lei consustanziali: La “Sapienza santa”, la dottrina segreta, l’organizzazione detentrice e custode della segretezza della dottrina. Tale Sapienza corrisponde a ciò che Aristotele aveva definito intellectus agens, impersonale e di origine extra-umana. Evola ritiene che amore e donna risveglino ciò che nell’uomo di senso comune è solo in potenza, possibile ma non agente, così come avviene nelle pratiche tantriche “l’elemento shivaico che prima dell’unione con la donna è inerte e inane” (p. 22). Per questo, la “donna” genera un essere nuovo, un essere latore di salus.

Rispetto all’interesse evoliano per il dato esoterico-politico nell’Alighieri, è opportuno ricordare che la cerca del Poeta è sintonica, e la cosa è accortamente rilevata da Consolato, a quella che maturò negli ambienti graalici in rapporto al problema dell’Impero. Caratterizzata, in particolare, dal continuo riferirsi al motivo dell’imperatore latente, mai morto e per questo atteso e al Regno isterilito, simbolizzato in modo paradigmatico dall’Albero secco che rinverdirà con il rimanifestarsi nella storia dell’Impero, per l’azione del Veltro-Dux. L’Impero, per esser tale, deve far riferimento ad un re-sacerdote il cui modello è Melchisedec, custode della funzione attiva e di quella contemplativa. L’autore suggerisce che in tema di Veltro e relativamente alla sua esegesi storico-politica, Evola si richiama alla lezione di Alfred Bassermann, grazie alla quale egli coglie come Dante, in tema, si sia fermato a metà strada, “la sua concezione dei rapporti tra Chiesa e Impero rimase imperniata su di un dualismo limitatore…tra vita contemplativa e vita attiva” (p. 39). Lo stesso esoterismo dell’Alighieri era legato ad una sorta di via iniziatica platonizzante, non pienamente giunta a rilevare, come accadrà nel puro templarismo, che l’iniziazione regale risolve in sé i due momenti del Principio, contemplazione ed azione. In questo contesto, suggerisce Consolato, deve essere letta la polemica di Cecco d’Ascoli nei confronti dell’Alighieri, attaccato in quanto “deviazionista” rispetto all’iniziazione propriamente regale. In questi termini, Dante è il simbolo più proprio, per Evola, dell’età in cui visse, il medioevo. Età in cui la Tradizione tornò ad affacciarsi ma nei panni spuri e dimidiati del cattolicesimo.

In merito al tema dell’Impero, nonostante i limiti su ricordati, Evola vede in Dante un predecessore, in quanto “il pensiero di Evola è stato…un pensiero fondamentalmente monarchico, perché…egli trasferì l’ideale della sua giovanile ascesi filosofica…nella figura dell’Adepto…e poi pose questo…al centro e al vertice del suo ideale di Impero e di civiltà” (p. 48). Tale idea di Ordnung, si pone ben oltre i suoi surrogati moderni, in quanto espressione di un Potere dall’alto, con-sacrato e mirato a indurre nella comunità una Pace reale e non meramente fittizia. Capace, pertanto, di far sorgere negli uomini di ogni tempo quella spinta anagogica, verso l’Alto, che la tradizione classica, ha detto essere scopo essenziale del Politico. La Dittatura, sintesi delle prospettive filosofico-politiche della modernità maturate lungo la linea speculativa hobbesiano-schmittiana, può placare solo momentaneamente il conflitto, ma resta semplicemente il luogo della contraddizione eternamente riemergente. Ciò non significa che Evola ci inviti a non operare, a non agire. In quanto filosofo della pratica, nelle drammatiche contingenze dei primi anni Quaranta, e la cosa è riportata ancora una volta da Consolato, richiamò “l’ideale che Dante difese, affermando che l’Impero doveva essere cosa dei Romani” (p. 61). Fu la contingenza storica a dettare in quel frangente il necessario riavvicinamento di Italia e Germania, ed Evola “contrariamente a quanto sostenuto nello stesso Terzo Reich dalle correnti più strettamente nazionaliste, razziste e pangermaniste”(p. 62), era convinto che l’idea imperiale fosse l’unica a poter avvicinare i due popoli.

Probabilmente, per capire appieno le ragioni della prossimità di Evola e Dante, è bene far riferimento a Platone, o meglio a un Platone correttamente interpretato come filosofo politico e non come pensatore sic et simpliciter metafisico e pre-cristiano. A questo Platone assomigliava davvero Dante, la cui vocazione realizzativa fu ben colta da Gian Franco Lami quando scrisse “egli si fece carico d’incarnare, di persona, l’uomo classico, conforme alla realtà politica più antica” (Tra utopia e utopismo. Sommario di un percorso ideologico, Il cerchio, Rimini 2008, p. 139, a cura di G. Casale). Tentò, ma non vi riuscì del tutto, come ricordato da Evola e Consolato.


Andrea Doria sempre leale a Carlo V

$
0
0



Nella storia (in particolare quella della nostra penisola) le alleanze durature che resistono alla sorpresa degli eventi sono talmente rare che quella trentennale tra Andrea Doria e Carlo V è oggetto di meraviglia e di studio. Siamo a tal punto assuefatti al tradimento degli accordi — anche nel giorno per giorno della politica — che l’«eccezione doriana» ci appare come un caso pressoché unico. Ludovico Ariosto, quando, ai primi del Cinquecento, scrisse l’ Orlando Furioso, depositò nel XV canto una considerazione assai particolare nei confronti del principe Andrea Doria (nato a Oneglia nel 1466, morto a Genova, in quella che definiva la sua «patria», nel 1560): «Questo è quel Doria che fa dai pirati/ sicuro il vostro mar per tutti i lati». Avere come alleato Andrea Doria, aveva ben compreso l’Ariosto, significava a quei tempi essere padrone dei mari. Ma non solo. Il poeta (che sarebbe morto nel 1533) aveva dedicato altri versi a descrivere quanto sarebbe stata importante l’alleanza (nata nel 1528 e destinata a durare ininterrotta per trent’anni) tra l’imperatore (dal 1519) Carlo V e il grande navigatore ligure. Ed è sui versi ariosteschi scritti quando quell’alleanza era solo agli inizi che si è soffermata Gabriella Airaldi nell’avvincente biografia Andrea Doria, che sta per essere pubblicata da Salerno.
Ariosto, scrive la Airaldi, individua come Andrea appartenga «a una élite europea che, diversamente dalle altre, non porta in sé solo i caratteri dell’aristocrazia fondiaria, i quali pure — come dimostrano le vicende della casa Doria — restano la radice della sua ragion d’essere». Andrea «appartiene all’aristocrazia consolare che dal Mille è al vertice di un Comune e... combatte per due sistemi politici alternativi ma complementari». Anzi da prima del Mille: la genealogia attesta che i «de Auria» (questo il nome corretto della famiglia, che poi cambierà in «d’Oria» negli annali della Repubblica di Genova citando un documento del 1134) «sono presenti sul palcoscenico della storia più di un secolo prima che nascesse il Comune e cioè fin dal 900, quando Genova, cuore di relazioni internazionali pacifiche e guerresche e città vivace di presenze forestiere, già godeva di riconoscimenti regi». Risale al 1125 il primo segno della potenza della famiglia Doria, che in quell’anno fonda la sua chiesa gentilizia.
La fortuna dei Doria sarà legata a quella dei liguri a Roma dal 1471, quando sarà elevato al soglio pontificio Francesco della Rovere, che prenderà il nome di Sisto IV. Saranno i Papi liguri a dare il via a una grande rivoluzione urbanistica, che cambierà il volto di Roma. Prima il genovese Giovanni Battista Cybo, con il nome di Innocenzo VIII (in carica dal 1484 al 1492), poi Giuliano della Rovere, con il nome Giulio II (1503-1513). Andrea Doria vivrà nella città del Pontefice tra il 1488 e il 1492. Sono anni — questi e quelli che seguiranno — in cui «il nepotismo pontificio, la vendita delle indulgenze e degli uffici provocherà le critiche di Erasmo da Rotterdam e scatenerà Martin Lutero». Ma ora «nello splendore romano si aggirano Mantegna, Pinturicchio, Raffaello, Michelangelo, Benvenuto Cellini».
Andrea «non è un uomo d’affari né uno dei tanti capitani di ventura che girano il mondo con i loro mercenari; è un cavaliere, un “artista della guerra”; risponde perciò in tutto e per tutto all’antico canone europeo». Andrea Doria, prosegue l’autrice, «è uno degli uomini più potenti della sua epoca; come tale deve difendere la sua potenza e conservarne i segni; ma non è ricco; d’altronde lui preferisce la potenza alla ricchezza e recita la sua parte come Carlo recita la propria; per questo il principe (dal 1531 sarà insignito del titolo di principe di Melfi) passa la maggior parte del tempo con le sue armi, sulla sua galera; un mondo particolare, a modo suo solidale, dove però la convivenza obbligata rende la vita grama a tutti».
Nel 1515, Francesco I sale sul trono di Francia. L’anno successivo Andrea è alla guida della spedizione contro i corsari barbareschi voluta dal Papa e da Francesco. Nel gennaio del 1516, a sedici anni, Carlo d’Asburgo diventa re di Spagna. Tre anni dopo, nel giugno del 1519, un consorzio di banchieri, sborsando una cifra astronomica, in quello che è stato definito «il più grande poker politico della storia», gli consente di «superare l’antagonista Francesco I e di assumere su di sé la corona imperiale». Tra i due inizia un grande duello. Carlo V vuole il controllo della penisola italiana. Per conquistarlo ha bisogno di Genova, di Milano e di Roma. Per avere un vantaggio sull’avversario, instaura una politica coerente antiluterana e antiturca. Fa saccheggiare la «francese» Genova. Tenta di spaccare l’asse tra Francesco e Milano. Mette a sacco Roma, nel 1527, per ridurre a ragione l’anti-imperiale Clemente VII (Giulio de’ Medici). Alla fine la sua politica e i suoi eserciti l’avranno vinta; ma ciò non sarebbe avvenuto, sostiene Gabriella Airaldi, «senza l’aiuto del più importante guerriero di mare del tempo, senza le galee e senza i capitali genovesi». È lo spostamento a suo favore di Andrea Doria che decide la partita.
Nel suo Carlo V (Salerno), Alfred Kohler ha scritto che all’epoca «in campo militare Carlo aveva all’inizio poca esperienza». La sua familiarità con le armi si era per lungo tempo «limitata ai tornei». Di fatto, Carlo dovette attendere fino ai 34 anni per sperimentare di persona la guerra, davanti a Tunisi. Fino ad allora era rimasto «un teorico che, guidato dai suoi militari, si occupava di questioni particolari relative alla guerra, come le fortificazioni — un interesse che gli derivava da suo nonno Massimiliano — o il problema dei rifornimenti, soprattutto dopo l’esperienza negativa fatta dal suo esercito in Provenza nel 1524». Nelle questioni militari si affidò da giovane al viceré di Napoli Charles de Lannoy, più tardi a René de Chalon, principe d’Orange e ad Andrea Doria, che risvegliò in lui l’interesse per la guerra navale.
C’è qualcosa di simile nelle vicende di Carlo V e di Andrea Doria, mette in rilievo Gabriella Airaldi sulla scia del fondamentale Carlo V e il suo impero (Einaudi) di Federico Chabod: «Fin dal momento in cui i loro destini si sono incrociati, l’intesa tra i due è stata forte ed è proseguita con un’intensità slegata dalla pura occasionalità». Il loro carteggio è «fitto». L’imperatore e il principe sono due individui che vivono «esperienze estreme». Le loro vite si assomigliano. Tutta la loro esistenza è «tinta dei colori del sangue»; il loro «colloquio con la morte è costante e nessuno dei due la teme». Per Andrea «la solitudine», dice ancora l’Airaldi, «è stata fin dalla gioventù una scelta di vita». Per Carlo «una condizione sine qua non che alla fine ha assunto i contorni di una soluzione esistenziale, quando il suo grande impero ha preso i confini di una piccola casa vicino a un monastero», dove tra il 1556 e il 1558 trascorse i suoi ultimi due anni di vita. Ma «gli spazi sono ristretti anche per il capitano Doria», che all’ultimo trascorre tutto il tempo che gli rimane nel suo bel palazzo. Individui al vertice di situazioni complesse, insiste Airaldi, Carlo e Andrea «sono e restano due uomini soli». La rinuncia a ogni potere terreno, la decisione di vivere con servitù ridotta in una dimora semplice e il testamento politico di Carlo non si possono leggere senza riandare alla stanza in cui Andrea si ritira a pensare «per longo spatio»; alle ultime volontà che il principe detta appena un mese prima della scomparsa dell’imperatore; ai codicilli che le completano; alla genealogia in cui delinea le fondamenta della sua storia familiare; alla cura che, fin dagli anni Quaranta, mette nel predisporre la propria sepoltura nell’antica chiesa gentilizia.
Ma torniamo al 1528, l’anno nel quale Andrea Doria «lascia» Francesco I per unirsi a Carlo V in un rapporto indissolubile che durerà ben tre decenni. Senza l’inaspettato cambiamento della situazione determinato, nel luglio 1528, dal passaggio di Andrea Doria dalla parte di Carlo V, sostiene Kohler, l’Orange non avrebbe probabilmente potuto far fronte al blocco navale imposto fino a quel momento dalle galere del nipote di Doria, Filippino; questi ritirò allora, finalmente, le sue navi. In seguito, la situazione dell’esercito francese davanti a Napoli peggiorò visibilmente e, dopo la morte inaspettata del generale Foix Odet visconte di Lautrec, avvenuta in agosto, i francesi interruppero l’assedio della città. L’allontanamento del Doria dal re di Francia, prosegue Kohler, non avvenne improvvisamente, come perlopiù si afferma, e non era nemmeno motivata esclusivamente dagli attriti con il comando supremo francese per il bottino conquistato in occasione della vittoria navale di Amalfi (28 aprile 1528), ottenuta da Filippino Doria contro la flotta spagnola. Già il 1° luglio di quello stesso 1528, Andrea Doria aveva concordato con l’imperatore una condotta di due anni e quell’accordo venne ratificato il 10 agosto a Madrid.
Nella conquista di Andrea Doria alla causa dell’imperatore svolse probabilmente un ruolo di mediatore il cancelliere di Carlo V, Mercurino Arborio di Gattinara, che nel 1527 aveva soggiornato per un mese a Genova (anche se nell’autobiografia il Gattinara spiegava la propria sosta dicendo di aver avuto un attacco di gotta). La flotta genovese, mette in rilievo Kohler, assicurò all’imperatore per gli anni successivi il controllo del mare in tutto il Mediterraneo occidentale e il sostegno nella lotta contro Chaireddin Barbarossa; Genova poté beneficiare non solo dello scambio di merci fra Italia e Spagna, in particolare del commercio di cereali con la Sicilia, ma ottenne nuovamente l’ancor più importante collegamento con lo spazio economico della Spagna e dei Paesi Bassi e la possibilità di concludere affari finanziari con l’imperatore. In Italia settentrionale la situazione era inizialmente sfavorevole agli imperiali. Il duca Enrico il Giovane di Braunschweig-Wolfenbuettel non riuscì a ottenere con le proprie truppe alcun successo. Da parte francese, invece sotto il comando del Borbone-Vendome Francesco II, conte di Saint-Pol, si presentò un esercito di diecimila soldati che contese ad Antonio de Leyva la Lombardia. In questa situazione fu vantaggioso che, grazie ad Andrea Doria, «il porto di Genova fosse nuovamente aperto all’esercito imperiale, cosa che era di importanza determinante per far giungere in Italia settentrionale i rifornimenti». Progressivamente «migliorarono anche le condizioni per il viaggio in Italia dell’imperatore, anche se la guerra continuava». Punto di forza dell’alleanza tra Carlo V e Andrea Doria, scrive la Airaldi, è che mai l’alleanza di Genova con la Spagna e con l’Impero si sarebbe trasformata in sottomissione». Mai «sarebbe venuto meno il sistema repubblicano su cui essa si basava e di cui si sarebbe gloriata in ogni tempo».
Con il passaggio di Andrea Doria dalla parte dell’imperatore, scrive Kohler, i banchieri genovesi si trovarono al servizio di Carlo: Genova divenne, accanto ad Anversa, la piazza finanziaria più importante dell’impero, e fu lì che Suarez de Figueroa concluse alcune tra le sue più importanti operazioni di credito. Ma — prima ancora dei vantaggi economici — è la personalità di Andrea che segna quell’epoca. «Guerriero di vaglia sulla terra e sul mare», scrive Gabriella Airaldi, «il principe è un uomo colto; ha vissuto nel palazzo paterno di Oneglia, nel castello materno di Dolceacqua, nel quartiere genovese di San Matteo, e fin dalla giovinezza ha soggiornato in molte corti, a Roma, a Urbino, a Parigi, a Madrid». «Amico di principi, cardinali e pontefici, si circonda di intellettuali e artisti; proviene da un milieu le cui origini si perdono nel tempo, un consesso di ammiragli e condottieri, politici, diplomatici, uomini d’affari e uomini di Chiesa che spesso sono anche raffinati intellettuali». La loro influenza gli darà la forza per affrontare numerose congiure. Quella di Cesare Fregoso e degli altri giustiziati nel 1534; quella del prete Valerio Zuccarello, decapitato nel 1539; quella (assai più importante) di Gianluigi Fieschi, stroncata nel 1547. Quest’ultima, con la terribile vendetta che ne seguì, «segna una tappa importante non solo nella storia locale ma anche in quella internazionale». Ciò che accadde, infatti, aprì la via «al definitivo successo spagnolo, ed è forse per questo che la congiura dei Fieschi è una tragedia che, al di là della sua valenza nella storia del principe, si fissò subito nella memoria di tutti diventando fonte di ispirazione per gli intellettuali di ogni tempo, dai contemporanei a Rousseau, a Schiller, al Guerrazzi».
Andrea è uno dei pochi italiani ante litteram che tengono fede alla parola data, alle alleanze stipulate, e ne è compensato con successi talvolta insperati. Vivrà a lungo, più di novant’anni, e vedrà succedersi più generazioni. Avrà 51 anni quando Lutero proporrà le 95 tesi; 63 quando Solimano giungerà sotto le mura di Vienna; 79 quando si aprirà il Concilio di Trento; 93 al momento del trattato di Cateau Cambrésis. «In quasi cent’anni di vita», scrive Airaldi, «il mondo gli è cambiato sotto gli occhi». Parenti e amici sono tutti più giovani e gli è difficile scegliere un successore. «Al suo erede occorre un apprendistato serio e complesso che si può compiere solo con lui... Tra la gente che gli è vicina circolano due nomi importanti, quello di Filippino, che però muore trent’anni prima di lui, e quello di Antonio, più giovane di lui di trent’anni e che morirà diciassette anni dopo di lui, con il quale però le relazioni sono pessime». In altre parole, Andrea Doria non avrà eredi alla sua altezza. E tutto il patrimonio politico che avrà accumulato, dopo la sua morte andrà gradualmente dissolvendosi.
Un ultimo dettaglio: Oneglia, la città dove è nato, resterà nel suo cuore finché vivrà. Il 20 giugno 1538, il principe vi condurrà Carlo V e il papa Paolo III in viaggio da Nizza a Genova. Promuoverà l’istituzione di una gabella «perché vi siano sempre un medico e un maestro di scuola». Nel 1576, sedici anni dopo la sua scomparsa, Oneglia sarà venduta ai Savoia. Segno che l’«eccezione doriana» sparirà con l’uomo che l’aveva impersonata. E i patti torneranno ad essere violati, traditi, ribaltati come da tradizione.
Repubblica 11.5.15
Intervista alla scrittrice Joyce Carol Oates
“Ecco perché io non sarò mai Charlie”
di Antonio Monda


NEW YORK OYCE Carol Oates accetta di intervenire sulla questione del premio a Charlie Hebdo, che ha spaccato il Pen Club in due gruppi di scrittori composti entrambi da autori di alto livello. La Oates non è intervenuta immediatamente nella polemica, e dopo qualche giorno di riflessione ha deciso di manifestare il proprio sostegno a coloro che protestavano per il premio dato al giornale satirico francese vittima dell’attentato terroristico di matrice islamica in cui sono morte 12 persone nel gennaio scorso. La scrittrice non arriva tuttavia invitare al boicottaggio. È appena tornata dalla California, e spiega la sua opinione misurando le parole.
«I media stanno amplificando le polemiche, dando un quadro di lotte intestine che non fa alcun bene al Pen», racconta con amarezza, «è un’istituzione che fa molto, ma molto di più che dare un premio».
Ritiene si tratti di una frattura insanabile?
«No, penso che non sia irreversibile. La mia opinione è che alcuni scrittori abbiano avuto una crisi di coscienza riguardo al possibile razzismo delle vignette di Charlie Hebdo, ritenendo quindi che non si potesse dare un premio ai vignettisti. Penso che ci sia stata poca chiarezza sulla motivazione del premio, dato al “coraggio”».
Salman Rushdie ha avuto una posizione durissima nei confronti di chi ha boicottato il premio, definendo costoro “donnicciole”.
«In un primo momento ha reagito in maniera emotiva nei confronti di scrittori amici che non avevano la sua stessa opinione, poi ha cambiato tono. Quello che danneggia il Pen è soprattutto la reazione di alcuni membri nei confronti di altri riguardo alla “libertà di espressione”. E questo per alcuni rappresenta una sorpresa. Io ho sottoscritto la lettera dei sei dissidenti, che hanno agito secondo coscienza, sperando che il Pen rimanga unito, e che questa vicenda non trascenda da un dibattito tra opinioni diverse, cosa che in realtà è stato, al di là dell’emotività delle prime ore».
Teju Cole, che è in prima fila tra i dissidenti, scrisse pochi giorni dopo la strage che, al di là dell’orrore e la pietà, è impossibile solidarizzare con una rivista come Charlie Hebdo senza di fatto appoggiarne il contenuto.
«Io credo che la tradizione americana — o almeno quella che dovrebbe essere la tradizione americana — dice che invece si può».
Allora perché si è schierata con coloro che hanno preso le distanze dal premio?
«Credo che la posizione corretta sia quella di garantire a riviste come Charlie Hebdo il diritto di esprimersi, anche quando hanno posizioni volgari, vigliacche, blasfeme e stupide. Tuttavia, non ero entusiasta riguardo l’idea di premiarla perché ritengo che mandi un segnale sbagliato a chi con capisce quanto libertario sia il Pen. Molta gente pensa che un premio di questo tipo dia autorevolezza anche al contenuto».
Ma la missione del Pen è proprio celebrare coloro che sono vittime a causa della libertà di espressione: lei cosa avrebbe fatto per ricordare l’atrocità del sette gennaio?
«Non ero in quel comitato, ed esito a giudicare perché spesso questi comitati fanno un grande lavoro che non viene celebrato. Capisco la necessità di affrontare l’orrore di quanto avvenuto negli attacchi: forse mi sarei limitata ad una menzione. E nonostante non siano state vittime di un massacro penso ad esempi come Edward Snowden e Chelsea Manning: anche questi sono casi di coraggio ».
Spesso la satira appare solo un mezzo per un attacco politico.
«Ora è diventato un cliché dire “Sono Charlie Hebdo”, senza sapere bene cosa significhi. La satira probabilmente non è mai apolitica, altrimenti quale sarebbe il suo proposito?».
Esiste un limite tra satira e attacco politico?
«Ogni società ha le proprie tradizioni e aspettative. Esiste un senso comune di comportamenti accettati, e tutto il resto è considerato illegale, immorale o tabù. Io sono pronta ad accettare il fatto che il Pen non abbia commesso un brutto errore dando un premio ad una rivista che si è distinta, tra le altre cose, per razzismo: rivendico tuttavia il diritto di non avere certezze ».
Ogni religione ha i propri estremisti, ma i fondamentalisti islamici massacrano e i leader religiosi arrivano alla fatwa.
«Nel passato anche altre religioni hanno avuto atteggiamenti simili: basta pensare all’Inquisizione o alla repressione da parte degli ortodossi di ogni culto nei confronti di chi era considerato eretico. Penso anche ai Puritani che qui nel nuovo mondo perseguitavano donne che consideravano streghe probabilmente solo perché anticonformiste. Tutti costoro si sono distinti per brutalità, ma si tratta appunto del passato. Ovvio che il terrorismo non è limitato al fondamentalismo islamico, ma oggi lo percepiamo come la minaccia più grande. Ma ci sono anche minacce che provengono da altri governi in forme più ellittiche. Aggiungo che nel nostro paese ci sono persone in carcere, che vivono in condizioni terribili nonostante abbiamo commesso crimini non violenti. Mi chiedo se questo sia da considerare una forma di “terrorismo di Stato”. Ovvio che non sto facendo un parallelo, e so bene che i più temibili sono i terroristi islamici: è per questo che sono anche i più seguiti dai media».
Chi ha voluto dare il premio a Charlie Hebdo ha sottolineato la volontà di mandare un segnale al mondo fondamentalista.
«Il Pen non ha nessun membro che proviene da quel mondo. E dubito che i fondamentalisti siano stati sfiorati da quanto dichiarato: perché questa gente dovrebbe occuparsi di un premio? Aggiungo che anche grande parte degli americani è indifferente al Pen, e hanno visto solo di sfuggita quanto è stato scritto nelle ultime due settimane. La nostra ampia cultura è focalizzata sulla politica, lo sport e le celebrità, non sugli scrittori e i loro premi».
La satira deve ferire sempre?
«L’unica satira che conosco bene è quella inglese del Diciottesimo secolo, in particolare quella di Jonathan Swift che era a favore dei deboli irlandesi contro i potenti inglesi. Specie in una Una modesta proposta la sua satira è indignata, morale e immaginata in maniera brillante. Quella sì che è satira, non c’è alcun paragone con le vignette di Charlie Hebdo ».
Repubblica 11.5.15
Cina
La nuova marcia dell’esercito rosso
di Giampaolo Visetti


Nessuna super-potenza ha incrementato il budget militare quanto Pechino Una corsa al riarmo senza precedenti. E in cinque anni l’export bellico cinese ha superato quello di Germania e Francia fermandosi dietro solo a Usa e Russia. Una crescita che spaventa il mondo

PECHINO LA Cina non acquista solo industrie, terra, infrastrutture e debiti stranieri. Per conquistare il mondo ha bisogno di armi e Pechino non lesina gli investimenti. Nessuna super-potenza, negli ultimi tre anni, ha incrementato il budget militare quanto la Cina, impegnata in una corsa al riarmo senza precedenti. Il confronto è uno shock non solo nel Pacifico: costringe a spese di guerra miliardarie Usa, Russia e Giappone, ma pure Francia, Germania, Gran Bretagna e Paesi arabi. La reazione a catena impone shopping bellici record in tutta l’Asia, dal Vietnam alla Corea del Sud, dalle Filippine all’India e all’Australia. Se c’è un mercato globalmente in espansione, oggi è quello degli armamenti e Pechino ne è l’indiscusso protagonista. Due giorni fa, per la prima volta, soldati dell’armata popolare di Pechino hanno sfilato a Mosca sulla piazza Rossa, per ricordare il decisivo «fattore comunista» e il «ruolo asiatico» nella lotta contro il nazismo hitleriano che sconvolse l’Europa del Novecento.
La rinnovata esibizione di forza ha però adesso anche una data e una passerella in Oriente: 3 settembre, piazza Tiananmen. Per celebrare la fine della seconda guerra mondiale, con la vittoria sul Giappone, il presidente Xi Jinping ha invitato nella capitale i capi di Stato e di governo del pianeta, a partire proprio dal russo Vladimir Putin e dal dittatore nordcoreano Kim Jong-un, che in extremis ha disertato la parata russa. Davanti a loro sfileranno, per la prima volta dall’ascesa al potere del “nuovo Mao”, i gioielli segreti del sempre più sofisticato arsenale cinese. L’imbarazzo diplomatico è ogni giorno più evidente. Il presidente americano Barack Obama e il premier giapponese Shinzo Abe, come la cancelliera germanica Angela Merkel e gli altri leader della Ue, si troverebbero a passare in rassegna le armi cinesi al fianco di despoti asiatici e africani, mentre Pechino lancia la volata verso il riarmo atomico del pianeta e nemmeno un mese dopo il ricordo dell’olocausto nucleare di Hiroshima e Nagasaki, consumato 70 anni fa.
La scelta di festeggiare la fine dei conflitti del Novecento con uno show di missili, droni, sommergibili e carrarmati, invece che con uno spettacolo dedicato alla pace e alla riconciliazione, per gli analisti conferma il nuovo approccio di Pechino alla politica internazionale. Consumata la fase dell’espansione economica e culturale, per Xi Jinping è giunta l’ora di mostrare i muscoli, sia in patria che all’estero. Ai primi di marzo il silenzio sulla corsa alle armi cinese, mantenuto per dieci anni da Hu Jintao, è stato rotto dalla portavoce dell’Assemblea nazionale del popolo, Fu Jing. «La Cina ormai è un grande Paese — ha detto — e ha bisogno di una forza militare capace di proteggere la sua sicurezza nazionale e il suo popolo». Ha aggiunto che la leadership rossa non ha dimenticato la lezione della storia: «Quando siamo rimasti indietro sull’esercito, siamo stati attaccati e invasi ».
Nessuno oggi può permettersi di minacciare la Cina, ma per l’apparato che governa la Città Proibita un arsenale da incubo è necessario anche per conservare il potere e mantenere la stabilità interna. Le purghe “anti-corruzione” di Xi Jinping decimano i generali e decapitano i vertici delle forze armate. A Pechino da mesi si rincorrono voci sul rischio di tentativi di colpo di Stato e sul conto alla rovesciata scattato per l’implosione del comunismo, come in Unione sovietica nel 1989. Ai successori di Mao investire montagne di yuan in armamenti serve, oltre che a spaventare vicini di casa e Occidente, a blandire i militari fedeli e a confermare che l’apparato della sicurezza rimane la spina dorsale dell’autoritarismo post-rivoluzionario.
L’intelligence straniera è convinta che la spesa in armi cinese, rispetto alle cifre ufficiali, ammonti ad oltre il doppio. L’incremento degli stanziamenti giustifica in ogni caso l’allarme. Questa settimana Cina e Russia svolgeranno le loro prime esercitazioni navali congiunte nel Mediterraneo. La Cina lo scorso anno è diventata il primo importatore mondiale di armi e il terzo esportatore. In cinque anni l’export bellico di Pechino è cresciuto del 143%, superando quello di Germania e Francia e fermandosi dietro solo a Usa e Russia. I media di Mosca ieri hanno rivelato che la Cina ha ordinato all’ex Urss il sistema di missili terra-aria S-400, stanziando oltre 3 miliardi di dollari. Le nuove armi anti-aeree possono distruggere qualsiasi bersaglio anche a lungo raggio, dai caccia ai razzi cruise. In Asia l’investimento certifica l’alleanza bellica Cina-Russia, in risposta a quella Usa-Giappone: rivela però in particolare la necessità di tecnologia dell’industria delle armi di Pechino.
Il caso simbolo è quello della prima portaerei atomica, la “Liaoning”, acquistata quattro anni fa dall’Ucraina: terminato il restauro, tecnici e scienziati cinesi sono stati in grado di avviare il varo della seconda, ormai imminente. Il boom delle importazioni di armi è la via scelta dalla Cina per bruciare le tappe nell’accumulo di conoscenza, sia per modernizzare l’Esercito popolare di liberazione che per irrompere nel mercato mondiale dell’export. A confermarlo, anche le cifre ufficiali. Nel 2014 Pechino ha investito in armi 132 miliardi di dollari, che quest’anno saliranno a 148. Sempre nel 2014 l’incremento annuo della spesa bellica è stato del 12,2%, ridotto al 10,1% nel 2015. La crescita del riarmo resta però sempre superiore a quella del Pil, oscillante tra il 7,4 e il 7%. Pechino impegna in armi il 2,2% del prodotto interno lordo: entro dicembre aumenterà di 50 navi la propria flotta costiera, passerà da 66 a 78 sottomarini di profondità, varerà più imbarcazioni e aerei da guerra di ogni altro Paese. Questo sarà il quinto anno consecutivo di incremento a doppia cifra del budget di difesa, impegnato per un terzo negli stipendi dei 2,3 milioni di soldati.
I dirigenti comunisti rispondono all’accusa di «corsa al riarmo atomico» ricordando che, nello sprint, gli Stati Uniti restano per ora irraggiungibili: 585 miliardi di dollari spesi nel 2014, pari al 3,7% del Pil. Il problema è che il confronto con Usa e Russia è storico, mentre il boom bellico dell’Asia minaccia di preparare i conflitti dei prossimi decenni. A metà gennaio Tokyo ha annunciato che quest’anno riserverà al riarmo 36 miliardi di euro, terzo aumento annuo consecutivo nonostante nel Paese sia ancora in vigore la Costituzione pacifista imposta da Washington nel 1945. Se alle spese belliche di Cina, Giappone e Russia (88 miliardi di dollari) si aggiungono quelle di India (48 miliardi), Corea del Sud (34 miliardi) e delle nazioni emergenti del Sudest, si scopre che la regione Asia-Pacifico dopo secoli è già il più micidiale arsenale del pianeta, anche escludendo quello misterioso della Corea del Nord. Lo spostamento del dominio bellico, dall’Occidente all’Oriente, spaventa Europa e America, ma costituisce il primo allarme proprio in Asia.
Da due anni Cina e Giappone sono ogni giorno ad un passo dal conflitto armato per il controllo dell’arcipelago conteso delle Diaoyu-Senkaku e degli spazi aerei rivendicati sia da Tokyo che da Pechino. Xi Jinping non ha avuto problemi ad entrare in rotta di collisione con Vietnam, Cambogia, Filippine, Malesia, Indonesia e Taiwan per il possesso di centinaia di atolli e scogli corallini nel Mar Cinese meridionale. Tra le isole Spratly, Pechino sta alzando una “grande muraglia di sabbia”, costruendo isole artificiali e allungando la barriera corallifera, aprendo porti militari, piste d’atterraggio ed edifici utilizzabili come caserme. Il governo assicura che si tratta di una «bonifica impeccabile che rispecchia la sovranità nazionale», ma le cancellerie straniere temono che la Cina stia in realtà preparando le «condizioni per un nuovo ordine mondiale » e per un «nuovo tipo di relazioni tra grandi potenze». I servizi Usa, dopo le critiche di Barack Obama al riarmo di Pechino, parlano esplicitamente di «prove di guerra». Per la Cina costituirebbe un esordio assoluto: affari d’oro per i mercanti di morte, l’ultima tragedia per l’umanità.

Archivio

Lo zollverein come strumento economico di unificazione della Germania

$
0
0
Il dibattito storiografico degli ultimi secoli sul ruolo dello Zollverein, ovvero dell’Unione doganale tedesca portata a termine su impulso dello Stato prussiano, è stato orientato a due filoni interpretativi. Un primo, espresso sul finire dell’Ottocento da Heinrich von Treitschke, ha visto nell’Unione doganale il primo passo verso l’unificazione tedesca (tesi sostanzialmente sostenuta anche da John Murphy ai giorni nostri), mentre un secondo, in contrasto con questa ipotesi, risalente alle interpretazioni di Alan John Percival Taylor e Martin Kitchen, ha rinvenuto nelle mosse della Prussia delle motivazioni inizialmente economiche e solo in un secondo tempo politiche, esaltando i risvolti economici. Oggi il dibattito storico-economico sembra enfatizzare piuttosto «i vantaggi fiscali derivanti dalle economie di scala all’interno dell’amministrazione doganale».

La creazione dello Zollverein trova i suoi antecedenti nelle riforme ultimate nel 1818 quando la Prussia stabilì un nuovo regime tariffario, armonizzando la struttura doganale interna ai propri territori che includevano enclave e altri piccoli Stati. Per dieci anni queste riforme avevano garantito benefici finanziari, avevano favorito una più libera circolazione delle merci e consentito di raggiungere l’unione doganale del paese. Portate a termine dal Ministro delle Finanze prussiano Friedrich Von Motz (1825-1830), le riforme di liberalizzazione condotte dal governo prussiano furono alla base della successiva creazione dello Zollverein. Tra gli ispiratori dell’Unione doganale vi fu l’economista Freidrich List. Già nel 1819, intervenuto in qualità di capo dell’Unione dei mercanti al Bundestag tedesco (il parlamento della Confederazione con sede a Francoforte), così si pronunciava:

«Le numerose barriere doganali bloccano il commercio interno e producono gli stessi effetti degli ostacoli che impediscono la libera circolazione del sangue. I mercanti che commerciano tra Amburgo e l’Austria, o Berlino o la Svizzera devono attraversare dieci Stati, devono apprendere dieci tariffe doganali, devono pagare dieci successive quote di transito. Chiunque viva al confine tra tre o quattro Stati è ancora più sfortunato, spendendo i suoi giorni tra ostili esattori fiscali e ufficiali della dogana. È un uomo senza

patria».

Dopo la liberalizzazione del mercato prussiano, l’Unione doganale tedesca avrebbe conseguito, stavolta su scala regionale, l’abolizione delle tariffe di transito tra un Paese e l’altro (con una consistente riduzione dei costi di trasporto delle merci) e l’implementazione di una sola tariffa esterna per i non membri. Oltre a consentire una uniformazione progressiva di pesi e misure tra i Paesi che ne sarebbero entrati a far parte e una liberalizzazione dei commerci, avrebbe garantito la riscossione dei dazi esterni e la condivisione delle entrate doganali (in base alla popolazione degli Stati), creando le condizioni per un mercato integrato. Ma la conseguenza più importante doveva essere un impatto evidente e forte sulla crescita economica, sulla convergenza dei prezzi e sull’industrializzazione della Germania (“precondizioni” e successivo take-off o big spurt industriale). Quest’ultima è collocabile cronologicamente in coincidenza con l’implementazione dell’Unione doganale, tra gli anni Trenta e Quaranta e l’inizio della grande depressione del 1873 o al più tardi avvertibile secondo W.W. Rostow dal 1850, processo alla fine del quale il Paese poteva affacciarsi come potenza economica sullo scenario mondiale. David Landes ha così efficacemente sintetizzato l’impatto della creazione dello Zollverein sul commercio in Germania:

«Riguardo alla domanda, l’unificazione interna dei mercati nazionali fu sostanzialmente completata nell’Europa occidentale con la formazione dello Zollverein tedesco: le lunghe file di carri che nel gelo della notte di Capodanno del 1834 aspettavano l’apertura delle barriere doganali erano una prova eloquente delle nuove possibilità che si aprivano insieme ad

esse».

L’allargamento
dello
Zollverein

L’allargamento dell’Unione doganale procedette per assimilazione dei singoli Stati a partire da un embrione di Paesi costituenti un ristretto mercato allargato. Quando nel 1827, senza che si fosse giunti ancora all’inizio formale dell’Unione doganale, l’Assia-Durmstadt strinse accordi tariffari con la Prussia, l’influenza economica di quest’ultima era già una realtà di fatto. L’intesa, poi concretizzatasi nell’unione tariffaria nel 1828, costituì il primo accordo doganale della Prussia con un vasto Stato della Confederazione tedesca, andando a costituire la “zona core” all’interno del futuro Zollverein.

Questo primo nucleo doganale iniziava a minare la stessa filosofia della Confederazione germanica, che era concepita come perpetuazione dello status quo in Germania, mentre una unione doganale condotta da un Paese egemone contribuiva a stravolgere l’ordine uscito dal Congresso di Vienna. Il peso politico, più che commerciale o economico, di questo accordo fu chiaro in quanto non comportava vantaggi sul lato prussiano, quanto su quello dell’Arciducato d’Assia. Tale accordo, tuttavia, rappresentava una sorta di ingresso dell’antico Langraviato nel “sistema politico” della Prussia.

L’anno dell’intesa con l’Assia-Darmstadt fu anche l’anno della reazione alle manovre prussiane di un congruo numero Stati della Germania centrale, che nel settembre 1828 addivennero ad un accordo formale per un’area di commercio alternativa, nata con finalità difensive rispetto a quella messa in atto dalla Prussia. Più che un’area di libero scambio, la Mittledeutcher Handelsverein (siglata inizialmente tra Hannover, Sassonia, Assia-Kassel e le città libere di Brema e Francoforte sul Meno) nasceva come un trattato che impegnava gli Stati aderenti a non prendere parte ad altre unioni doganali prima della fine del 1834, data nella quale l’accordo tra Prussia, Assia e Darmstadt si sarebbe concluso e, inoltre, a non innalzare barriere doganali contro gli Stati membri. Essa era animata sostanzialmente dall’obiettivo di forzare il regno prussiano ad avviare trattative multilaterali con i potenziali Paesi aderenti al proprio blocco.

Egemonie
contese

Gli statisti prussiani sospettarono l’Austria di essere dietro i tentativi di sovvertire la propria unione doganale per tramite della Mittledeutcher Handelsverein. Nelle parole rivolte al Ministro degli Affari Esteri dal ministro delle Finanze prussiano Friederich Von Maltzen, l’unione di Stati centrali tedeschi appariva «favorita e promossa dall’Austria». Veniva agitato il sospetto delle macchinazioni del rivale asburgico finalizzate a far deflagrare il progetto di unione doganale allargata. Tale convinzione si fece strada presso le alte sfere dell’amministrazione prussiana e subito ne fu informata la corte: «l’Austria era dietro l’unione doganale della Germania centrale».

Per quanto dietro le iniziative prussiane non vi fosse l’esplicita intenzione di scalzare l’egemonia austriaca all’interno della Confederazione, l’unificazione economica fatta a spese dell’Austria avrebbe consentito alla Prussia di conseguire proprio questo obiettivo. D’altra parte non minore peso avevano i timori, ancora vivi al tempo, di un’invasione francese. La Prussia coltivava l’intenzione di compattare gli Stati minori della Confederazione attorno a sé contro un’eventuale minaccia francese, ma per far questo, doveva ridurre il peso politico dell’Austria, quindi i condizionamenti e le influenze austriache su questi Paesi (specie quelli vicini della Germania meridionale). I Prussiani, dal canto loro, affermavano che la loro politica si esprimeva in conformità alla Legge federale della Confederazione Tedesca (art. 19), che invitava gli Stati tedeschi ad avviare contatti intorno ad una armonizzazione doganale finalizzata a comuni interessi commerciali. L’Austria non poteva che nutrire invece ostilità verso il trattato prussiano con l’Assia-Darmstadt. In un certo senso la Prussia era ricambiata nella propria ostilità verso l’impero austriaco.

Per quanto riguarda la minaccia rappresentata dalla Francia, ben prima della rivoluzione di luglio del 1830, che sembrò riproporre scenari vecchi di almeno trent’anni, i timori per le ambizioni francesi sul Reno erano abbastanza diffusi. Gli uomini di Stato che gettarono le basi per la successiva unione della Germania per mezzo dello Zollverein, apparivano ossessionati dalla paura di una Germania debole e divisa contro un potere monoblocco francese. Friedrich List guardava proprio alla Francia come modello di coesione doganale e unità politica. I burocrati prussiani dell’epoca della Germania post-napoleonica, che lavorarono alacremente per creare l’Unione doganale prussiana, animati da una profonda francofobia, provenivano per la maggior parte dal servizio nell’amministrazione svolta ai tempi dell’impero napoleonico (Motz aveva servito in Vestfalia sotto Girolamo Bonaparte). Gli eventi di luglio avrebbero spinto a mettere da parte le acrimonie con gli Asburgo e a un temporaneo riavvicinamento con l’Austria, al quale appariva disposta la monarchia Hohenzollern (nel 1830, come nel 1866, quando Guglielmo I tentò di evitare la guerra con l’Austria).

L’eversione
dell’unione
doganale
centrale

Riguardo la sfida rappresentata dall’unione doganale centrale, i burocrati prussiani meditarono, al fine di contrastarla, financo la guerra economica e la riconsiderazione dei rapporti con alcuni Stati facenti parte di essa, in particolare l’Hannover (dietro il quale v’era il sostegno inglese) e l’Assia-Kassel. La Prussia considerava tale unione, per citare le parole del diplomatico e uomo di Stato prussiano d’origine danese Albrecht von Bernstorff, alla stregua di un “aggregato di interessi” ostile.

Nel tentativo di sfilare membri importanti dall’unione rivale, la Prussia perseguiva una strategia di contatti bilaterali, stabilendo trattative esclusive con il Paese candidato a entrare nella propria area commerciale. Era la stessa strategia di contatti seguita con l’Assia Darmstadt nel 1828. Facendo ciò essa rifiutava di avviare negoziazioni multilaterali, esercitando tutto il proprio peso politico ed economico e la propria superiorità in termini di persuasione diplomatica nei riguardi di ogni singolo Stato potenziale aderente. Questa metodologia fu utilizzata per spingere l’Assia-Kassel, incastonata tra i possedimenti prussiani occidentali e orientali, ad abbandonare l’Unione centrale e aderire al blocco prussiano, passaggio che si concretizzò nel 1831, consentendo ai Prussiani di realizzare la saldatura tra province divise territorialmente.

Il Ministro delle Finanze prussiano, del resto, era ben consapevole del forte legame che univa l’integrazione economica ad una possibile futura unità politica della Germania. Nelle sue memorie Motz sottolineava:

«È una verità politica che importazioni, esportazioni, strumenti di transito sono il risultato delle divisioni politiche (tra gli Stati tedeschi, ndt), e ciò è vero, perciò anche l’inverso è altrettanto vero, cioè che l’unificazione di questi Stati in una unione tariffaria e commerciale può condurre ad una unificazione in un unico e medesimo sistema

politico».

Al fine di concretizzare queste aspirazioni, Motz, Bernstorff (che espresse le medesime posizioni in un memorandum, Denkschrift, del 1831) e gli altri statisti prussiani si adoperano per l’ingresso nello Zollverein della Baviera-Wurttemberg, costituitasi unione doganale propria nel 1827-1828, che fu avviato sin dopo il primo ingresso dell’Assia-Durmstadt. Al 1828 risalgono i primi negoziati segreti e nel 1829 avvenne la firma di un importante accordo commerciale che includeva la creazione di una rete di strade. Nel 1833, l’anno prima dell’entrata in funzione dello Zollverein, Baviera, Wurttemberg, Assia-Hesse entrano a far parte dell’Unione doganale prussiana. Le prime due aderirono grazie a laute concessioni, tra cui la possibilità di stringere accordi con Stati stranieri. La Prussia, benché conseguisse l’adesione formale di questi Stati fondamentali sul piano geopolitico, tuttavia incorporava un rischio concreto di futura scissione e di cambio di fronte, soprattutto con riferimento alla Baviera e al Wurttemberg (e che rimarrà vivo fino alla vigilia della guerra franco-prussiana).

L’ingresso della Baviera infatti è importante non tanto per ragioni economiche, quanto politiche e militari. Solo «in alleanza con la Baviera il fianco della Prussia renana dalla bocca della Saar di Bingen può essere adeguatamente difeso contro la Francia», scrive Motz nelle sue memorie. Complici i sommovimenti rivoluzionari del 1830 in Francia e Paesi Bassi, il rischio infatti di un intervento francese a sostegno dei focolai in Sassonia e Assia-Kassel appariva reale dopo le dichiarazioni pronunciate dal diplomatico Hector Mortier in merito al fatto che la Francia non avrebbe potuto ignorare le attività rivoluzionarie lungo il Reno.

L’istituzione
formale
dello
Zollverein

Gli eventi della rivoluzione di luglio spinsero la Prussia ad accelerare il processo di consolidamento dell’Unione doganale, ferma a un formale trattato commerciale con gli Stati meridionali. Dopo due anni di pausa nelle trattative, nel 1831 le negoziazioni furono riaperte dal nuovo Ministro delle Finanze Karl Georg von Maassen (1830-1834). Nel 1833 infine (22 marzo) fu firmato il trattato con cui nasceva lo Zollverein, che sarebbe entrato in vigore il 1° gennaio dell’anno dopo. L’atto successivo dell’allargamento dello Zollverein fu l’intesa raggiunta due mesi dopo con la Sassonia e i principati della Turingia, con i quali furono stipulati trattati che mettevano un punto decisivo alla entrata in funzione dell’Unione doganale. L’adesione della Baviera-Wurttemberg svincolava la Sassonia dalla partecipazione alla Mittledeutcher Handelsverein, che infatti abbandonava in favore dell’altra unione.

Dopo l’istituzione formale, il coinvolgimento del Baden fu il passaggio immediatamente successivo del suo consolidamento. Posto all’intersezione tra Francia, Svizzera e il resto degli Stati tedeschi, il Granducato costituiva una porta d’accesso fondamentale per i commerci, rimasta isolata dopo l’adesione di Baviera e Wuerttemberg. Lo stesso accadde ad altri due importanti Stati assiani, Nassau e la libera città di Francoforte, i cui timori per un completo isolamento dai mercati tedeschi avevano portato a sottoscrivere un accordo commerciale con la Francia nel 1835, però poi annullato a beneficio della partecipazione allo Zollverein nel dicembre dello stesso anno.

In particolare la città di Francoforte subiva esternalità negative dalla adesione di Nassau, perdendo lo sbocco alla regione renana. Il fattore dell’economia esterna riveste una importanza fondamentale nel processo di smottamento degli Stati tedeschi verso l’unificazione commerciale con la Prussia. La Prussia e gli Stati settentrionali detenevano un altro vantaggio competitivo rispetto alle controparti meridionali. Essi, potendo contare sui porti di sblocco aperti ai mercati internazionali, subivano esternalità inferiori rispetto ai mercati meridionali resi asfittici dalla chiusura loro contrapposta dal blocco dello Zollverein. Ciò consentiva agli Stati tedeschi settentrionali (riuniti nella Confederazione tedesca del Nord nel 1866) di ridurre le tariffe di importazione e potenziare le rotte verso il Baltico e il Mare del Nord.

Come reazione allo Zollverein, Hannover e Brunswick, dopo la fine dell’Unione doganale centrale, conclusero una propria unione doganale nel 1834-1835, denominata Steuerverein (Unione fiscale), alla quale prese parte l’Oldenburg nel 1836. Essa ebbe fine quando il Brunswick, per rompere anch’esso l’isolamento, optò per l’adesione allo Zollverein (1842), seguito dall’Hannover (legato in unione personale con l’Inghilterra) e dall’Oldemburg nel 1851 e nel 1852, che contribuirono alla saldatura ulteriore delle province prussiane scollegate. I rimanenti Stati tedeschi non ancora inglobati furono annessi dopo la guerra austro-prussiana del 1866 (Meclemburgo e Lubecca) o cedettero infine alle pressioni della nuova entità imperiale costituita a Versailles nel 1871, come nel caso di Amburgo e Brema (1888).

Il
ruolo
degli
Stati
circonvicini

Austria e Francia operarono scarso impegno, dovuto anche a fattori geografici, economici e a blanda volontà politica, nel contrastare la politica di espansione doganale prussiana. La Francia mantenne sempre alte le tariffe doganali impedendo l’ingresso di merci tedesche, ma così facendo contribuiva ad accrescere diseconomie in quegli Stati rimasti esclusi dallo Zollverein e che avrebbero avuto bisogno di mercati di sbocco. Anche l’Austria, sebbene supportasse l’Unione degli Stati centrali, perseguì sempre una politica accomodante verso la Prussia che finì per agevolarne i disegni. Sebbene avesse stabilito un accordo commerciale con lo Zollverein nel 1853, e il Ministro delle Finanze austriaco Karl Ludwig von Bruck (1855-1860), avesse proposto l’adesione dell’impero asburgico nella sua interezza nello Zollverein, tale iniziativa incontrò l’opposizione di alcuni gruppi di interesse nell’impero (produttori di ghisa e cotone), timorosi della politica di basse tariffe praticata dai Prussiani. Un nuovo tentativo di ingresso nel 1865 fu infine anch’esso respinto, ma l’Austria riuscì comunque a ritagliarsi un ruolo di nazione privilegiata negli scambi con l’Unione.

L’Austria, un Paese dalla crescita economica debole alla metà del secolo se paragonata a quella prussiana, aveva già tuttavia conseguito una sorta di unione doganale interna, armonizzando le tariffe tra Austria e Ungheria. Essa però non era pronta ad essere accettata dagli Stati di media grandezza dello Zollverein, che avevano attuato politiche di condivisione delle entrate con la Prussia. Essi erano disposti ad accettare una primazia dell’Austria nel Bundestag, non nello Zollverein.

La Danimarca, soccombente nella guerra con la Prussia nel 1864, il Belgio (separatosi dai Paesi Bassi nel 1830) che non impedì il passaggio del Lussemburgo (sotto la sovranità olandese) nello Zollverein nel 1842, dopo aver tentato esso stesso un’associazione dopo il 1840 (fallita per l’opposizione francese) e la Svizzera, la cui neutralità assoluta era stata sancita a Vienna nel 1815, non compirono alcuno sforzo per contrastare i piani prussiani, se non altro per il loro scarso peso economico e politico.

Conclusioni

L’Unione doganale tedesca servì dunque, immediatamente dopo il conseguimento dell’indipendenza dalla Francia, come strumento della Prussia per affrancarsi dal suo dominio e per legare a sé gli Stati disposti a Nord del Meno, al fine di inibire la minaccia dell’egemonia francese (obiettivo che si pose lo stesso “sistema bismarckiano” di alleanze europeo). L’impatto della politica economica di armonizzazione tra i regimi tariffari, incentivata dalla spinta ad aprirsi a mercati nuovi (o a vie rimaste precluse dalla barriera dello Zollverein) ebbe ricadute inevitabilmente politiche, pesando sull’assetto degli Stati confederali e spingendo a una loro sempre più forte coesione. Infine, una volta estromessa definitivamente l’Austria come potenza gravitante attorno alla Confederazione, formalmente abolita, lo Zollverein esaurì il suo ruolo, venendo inglobato nella neonata struttura federale imperiale.


NOTE:
Domenico Caldaralo è laureando in Scienze storiche e della documentazione storica presso l’Università degli Studi di Bari “Aldo Moro”.

Patria e matria

$
0
0


Nel  precedente  articolo abbiamo trattato la figura di Gualtiero Ciola (1925-2000), padre dell’identitarismo padano-alpino e sulla base di una riflessione sulla sua opera (libri,articoli, testimonianze di chi l’ha conosciuto) abbiamo ritenuto che in essa sussistono insegnamenti di interesse comunitarista.

Uno di questi è senza dubbio lo spirito di appartenenza. Quest’ultimo non va inteso come un rifugio di falliti che cercano un etichetta per “sentirsi importanti” nella vuota società dell’immagine, ma al contrario una concezione della realtà che parte dal presupposto che la persona, in senso cristiano, e non l’individuo è parte del territorio che ci ospita e come tale, per reciprocità e responsabilità, noi dobbiamo prenderci cura di esso. Sotto questo presupposto la Patria è sia terra dei padri luogo della nostra origine e delle nostre radici, ma anche, per usare un termine del leader econazionalista insubrista  Lorenzo Banfi, la nostra “Madre Terra” che ci accoglie e sostiene, includendo con essa anche tutto l’ambiente naturale. Si tratta della ripresa di una concezione olistica, che, guardando oltre l’orizzonte individualistico antropocentrico, guarda ad un orizzonte tradizionale e coniuga a una antropologia che rivaluta l’homo religiosus di eliadiana memoria un paradigma culturale che reinserisce l’essere umano nel suo contesto ambientale opponendosi alla disgregazione individualistica.Sotto questo aspetto il comunitarismo può considerare il concetto di Patria non solo in relazione alla nostra origine biologica che ha nella famiglia la sua cellula (da qui terra dei padri), ma anche in relazione alla sua dimensione  per così dire femminile di ciò che ci accoglie e ci sostiene.

La Patria è anche Matria, per usare un termine di Sergio Salvi. Questo duplice aspetto attivo e passivo sono due parti inscindibili di una medesimo aspetto. Come diceva in un precedente articolo, trattasi di concezioni che hanno un origine molto antica, molto più antica della concezione moderna di nazione. Infatti nel mondo indoeuropeo, quello della “cristianità” e nel mondo tradizionale in generale abbondano esempi in tal genere.

Arrivando ai nostri giorni e riprendendo il discorso sul pensiero di Gualtiero Ciola, in una sua intervista il nostro consigliava ai giovani identitari di prendere come modello il movimento dei Wandervogel, che nella Germania guglielmina, auspicava in reazione dialettica all’urbanesimo industrialista un ritorno alla terra con connotazioni non prive di risvolti ambientalisti e identitari, che guardavano ad una antica cosmogonia naturale indoeuropea. Questo tipo di influenza si trova nel mondo insubrista ( Terra Insubre,Doma Nunch movimento econazionalista), ma ha trovato interessanti affinità con la galassia intorno all’Arianna editrice di Eduardo Zarelli, alcuni confronti tra mondo ambientalista ecologista e Nuova destra e radici nella letteratura della Crisi e nell’opera di Julius Evola ed ovviamente nel  suo “maestro senza pari” Renè Guenon.  Volendo sintetizzare i punti secondo noi da valorizzare per una elaborazione comunitarista essi sono:

  1. superamento dell’individualismo antropocentrico versus una concezione eliadiana di homo religiosus
  2. paradigma olistico fatto di responsabilità,reciprocità,condivisione,partecipazione
  3. sovranità collegata ad una visione federalista ed una correlata visione di un grande spazi shmittianamente parlando euroasiatico ed euroasista
  4. creazione di un fronte identitario politico,sociale e culturale.

Riguardo a quest’ultimo aspetto, l’intento è raccogliere vari filoni e spunti e svilupparne una nuova sintesi comunitarista oltre le vecchie categorie ideologiche otto-novecentesche


La Politica di Aristotele

$
0
0


La Politica di Aristotele, inserita nel tipico panorama logico-strutturale di Aristotele, é uno tra i più originali e acuti tentativi di analisi del reale, delle strutture del politico e del sociale, e, soprattuto, della natura universale del genere umano.

   

Aristotele, oltre ad essere stato il genio filosofico per eccellenza, nell’ambito della logica, della metafisica e della gnoseologia, e, insieme a Platone, il nucleo di riferimento dell’intera storia del pensiero occidentale (ed anche medio-orientale) successivo, fu, indubbiamente, un abile teorico della politica e della società. Le sue riflessioni in ambito socio-politico (strettamente connesse, anche, alle sue considerazioni profonde di antropologia filosofica), rappresentano alcuni tra i maggiori spunti d’approfondimento per il discorso filosofico-dialettico in generale. La Politica (scritto fondamentale per il pensiero aristotelico), altro non è che un trattato di filosofia politica costituito di otto libri, strutturati secondo la solita perizia organica del filosofo, nella forma dei seguenti titoli concettuali di riferimento: “Organizzazione della famiglia ed economia domestica” (Libro I); “Analisi critica delle costituzioni in vigore e di quelle proposte dai filosofi precedenti” (Libro II); “Definizione di cittadino, classificazione delle costituzioni ed analisi del regno” (Libro III); “Analisi di oligarchia e democrazia” (Libro IV-V) ed, infine, “La costituzione migliore” (Libro VII-VIII). Alla base dell’idea socio-antropologica di Aristotele, v’é una forte propensione al ritenere l’uomo, sostanzialmente, un essere sociale (a differenza di quanto dirà, in seguito Hobbes, secondo il quale lo stato di leggi non sorgerebbe a partire da una disposizione sociale degli uomini, ma da un senso di timore reciproco tra gli uomini), ritenendo l’uomo quasi incapace di vivere al di fuori di un contesto socializzato di relazioni con altri uomini, poiché chi non vive in società o é talmente autosufficiente da poterlo fare (ed in questo caso si tratterebbe di un essere divino e non umano) o non potrebbe che essere una belva selvaggia (non dotata dei bisogni tipici della specie umana).

Quindi, la socialità, nell’uomo, è quasi un fatto naturale e spontaneo. Aristotele incomincia l’opera interrogandosi, specialmente (come fece anche il suo maestro Platone nella celebre Repubblica), su quale sia l’origine dello Stato e quale sia il suo nucleo fondante costitutivo, iniziando dalla riflessioni sui nuclei sociali primari (riflessioni che verranno riprese anche da Hegel, successivamente, in riferimento alla sua teoria della lotta sociale per il riconoscimento), ovvero la famiglia, la quale costituisce l’insieme delle relazioni primitive affettive tra gli uomini, la cui unione con altri ordini famigliari determina la nascita dei primi villaggi e l’unione dei primi villaggi la nascita delle prime forme di Stato. Lo Stato nascerebbe, secondo Aristotele, soprattutto, per soddisfare i bisogni degli individui, i quali, in quanto esseri sociali, hanno bisogno del supporto altrui. Aristotele, nel Libro I, fornisce anche alcune riflessioni in merito al rapporto tra parti sociali, come tra servo e padrone -Aristotele legittimava la schiavitù, ritenendo che esistessero soggetto predisposti al comando ed altri soggetti predisposti ad essere comandati- ed il rapporto tra uomo e donna o tra genitore è figlio. Nel seguito dell’opera, Aristotele sottopone a critica anche la grande teoria politica del maestro Platone, ritenendola inapplicabile e poco preferibile; infatti egli nega (a differenza di Platone) la possibilità di rendere la famiglia un corpo dissolto (Platone era per la soppressione del concetto di famiglia e la condivisione dei figli e delle donne tra la collettività), ed anche la proprietà privata (che nelle logiche comunitarie platoniche doveva essere soppressa, tranne che per la classe degli agricoltori) diviene, invece, un diritto fondamentale dell’individuo.

Nel prosieguo Aristotele definisce anche il concetto di cittadino, di virtù etica, e le strutture principali degli ordini politici possibili: Regno (governo di un solo uomo); Aristocrazia (esercizio di governo di pochi uomini) e Politeia (governo dei tanti). Queste forme di governo possibili, a loro volta, possono, in alcune circostanze, subire delle deviazioni, quando non condotte in modo retto: il Regno può divenire tirannide, l’aristocrazia oligarchia ed, infine, la Politeia o democrazia può trasformarsi in oclocrazia. Ma la tematica sulla quale Aristotele si sofferma maggiormente, sul finire dell’opera (dopo aver descritto nello specifico le forme politiche possibilmente applicabili e le costituzioni o leggi possibili) é quella del comportamento del cittadino in ambito pubblico. Infatti, ognuno deve essere educato alla virtù, ovvero all’esercizio retto delle proprie funzioni, all’esercizio del coraggio, ma, soprattutto, dell’intelligenza, della ragione. Il cittadino e, soprattutto, il governante, dev’essere un uomo virtuoso. Nell’ultimo libro Aristotele  si sofferma in particolare modo sul tema dell’educazione, ovvero il percorso formativo che, in società, ogni individuo deve seguire, conferendo una valenza quasi decisiva all’insegnamento di discipline come la ginnastica, la musica è la scrittura. Della musica, Aristotele, ne parla anche all’interno della Poetica (opera di filosofia e critica letteraria nella quale viene presa in esame specialmente la forma letteraria della tragedia), considerandola come disciplina essenziale alla cosiddetta catarsi, ovvero la liberazione dell’anima dalle passioni e dalle emozioni interiori. La Politica, pur presentando alcuni elementi criticabili e rivedibili (primo fra tutti il concetto di schiavitù) rimane, comunque sia, un ottimo tentativo organico ed ordinato (in misura maggiore, forse, rispetto alla Repubblica) di analisi del reale e delle strutture del politico e del sociale, e, per alcuni aspetti, anche, se vogliamo, un continuum con la filosofia politica platonica.

La Francia elimina le croci e fa seccare le sue radici

$
0
0


Perseguitare per legge la tradizione religiosa è peggio di un delitto: dietro ai presepi e alle statue c'è la fede

   

A Rennes, nei giorni scorsi, una statua di San Giovanni Paolo II è stata rimossa per ordine tribunalizio: troppa ostentazione nel segno della croce, par di capire… Non si comprende bene che cosa un santo, per di più papa, debba avere come simbolo: caramelle per le bambine, forse, pistole ad acqua per i maschietti, magari, di certo né croci e nemmeno santini, che, a ben guardare, altro non sono se non una propaganda religiosa mascherata.Secondo un dossier dell’Osservatorio sull’intolleranza e la discriminazione contro i cristiani in Europa, la Francia è in testa nella classifica dell’oltraggio e, come ha riportato Il Foglio commentando la notizia, c’è ancora chi, un candidato comunista a Bordeaux, chiede la chiusura delle parrocchie e delle scuole cattoliche in quanto «fortini di fondamentalismo religioso». La Francia, si sa, è un Paese laico, ma essere laici non ha mai impedito di restare cretini. A inizio Ottocento un giovane autore che si chiamava Chateaubriand scrisse Le Génie du Christianisme e, in una nazione dove la Dea Ragione aveva combinato disastri durante la Rivoluzione dell’89, sancì di nuovo e con più forza il rapporto che c’è fra un popolo e la sua storia, le tradizioni, il culto delle tombe e della memoria. Prima della Francia dei Lumi, insomma, c’era stata la Francia di San Dionigi, di San Luigi re e di Giovanna d’Arco, delle cattedrali gotiche e delle trappe, delle orazioni funebri intorno al defunto e, naturalmente, i dipinti, le musiche, i libri, le architetture che disegnavano un panorama composito che aveva saputo inglobare il mondo pagano precedente e dar luogo a una religione che si era inserita, innervandola, nella storia nazionale.

Dimenticarsene, era peggio di un delitto: era un errore sociale, politico, culturale. Due secoli dopo, siamo come due secoli prima, ma non staremo qui a scomodare lo «scontro di civiltà», la difesa delle libertà minacciate e, va da sé, quel «siamo tutti Charlie» echeggiato prepotentemente a ridosso del sanguinoso raid nella sede del giornale satirico parigino, culminato nella marcia pubblica dell’11 gennaio e poi più o meno frettolosamente archiviato. Una marcia, sia detto per inciso, dove i volti compunti degli Hollande e dei Sarkozy di turno, quel loro calarsi nella parte per rubarsi l’un l’altro la parte, sarebbero stati per noi motivo sufficiente per starsene a casa. E ancora, sempre per inciso, qualcuno avrebbe anche dovuto ricordare che i primi a «non essere Charlie» erano stati proprio quegli stessi redattori e vignettisti del settimanale Charlie Hebdo , specializzatisi negli anni precedenti in raccolte di firme e petizioni contro il Front National, ovvero, semplicemente, contro il diritto di pensarla diversamente da loro… No, la questione è un’altra ed è che tutte le civiltà cominciano a morire quando non credono più in se stesse, quando si vergognano dei propri simboli identitari, quando cavillano e si affidano a giudici, avvocati, tribunali per sancire la liceità di questo e di quello. Dietro alle statue delle Madonne rimosse, ai presepi considerati focolai di discriminazione, ai crocifissi nelle scuole «bastonati» come fossero armi improprie, c’è una babele ideologica che è la prima e la più forte avvisaglia di un’incapacità a vedersi come comunità nazionale, come coesione interna, come sistema di valori. Laicismo e religiosità si sono sempre contrapposti, anche aspramente, in Francia, e la legge che sancisce la separazione fra Stato e Chiesa arrivò lì ai primi del Novecento e fu fonte di lacerazioni, contrasti, scomuniche. Ma nel corso del XX secolo la secolarizzazione è andata avanti a passo di carica, aiutata da una modernità che tanto più distruggeva il passato, tanto più dissolveva legami e consuetudini, favoriva l’anonimia, spostava il baricentro dalla famiglia all’individuo. È anche per questo che in Francia, come altrove, del resto, il processo di sgretolamento è inizialmente apparso come l’ulteriore, definitiva vittoria dei diritti sui doveri, fino a raggiungere la stupefacente realtà della politica contemporanea in cui non esiste più una nazione a cui dover rendere conto, ma dei clienti-elettori a cui dare qualcosa in cambio del voto. L’aziendalismo politico attuale è la maschera con cui l’economia esercita il suo dominio facendo finta che ci siano ancora presidenti, capi di governo, deputati, senatori… Non sarà certo una statua o una croce in più o in meno a cambiare la situazione, perché l’errore sta proprio nell’isteria legalitaria con cui si pensa di guidare e/o formare i meccanismi che stanno alla base del vivere sociale. Un’orgia di rispetto costituzionale che fa a pugni con il buon senso, con la pratica consolidata, con la stessa libertà di dissentire e di non essere d’accordo, un feticismo delle regole e della correttezza politica che maschera il vuoto di ciò che c’è sotto, l’assoluta incapacità di essere in sintonia con i bisogni profondi di un Paese. Non è necessario svuotare le cattedrali dei loro fedeli, è sufficiente svuotare i fedeli nella fede, non religiosa, in un destino comune. Il resto viene da sé, ma senza radici non sono solo le piante a marcire al sole. Dell’avvenire, naturalmente.

Andare per l'Italia araba

$
0
0

ALESSANDRO VANOLI, ANDARE PER L’ITALIA ARABA, IL MULINO, BOLOGNA 2014

Quando visitiamo un Paese o studiamo un periodo storico è sempre bene ricordarsi che noi possiamo o riusciamo a vedere solo quello che i nostri occhi sono in grado di vedere.

Alessandro Vanoli, autore di Andar per l’Italia araba (Il Mulino, Bologna 2014), ciò lo mette in chiaro fin dalle prime battute di questo suo agile e stimolante volumetto, che in 140 pagine, lungi dal pretendere di esaurire l’argomento della presenza araba e islamica in Italia, stimola il lettore ad approfondire una traccia sotterranea della nostra identità.

Che cosa intende esprimere il Vanoli con quell’opportuna avvertenza che riaffiora qua e là nel testo? Che non è affatto scontato che gli uomini che hanno vissuto nella Penisola nei secoli passati abbiano saputo “vedere” quello che per noi, oggi, può risultare di una certa evidenza.
Perché l’interesse per questo o quel “momento” della nostra storia, per esaltarlo o denigrarlo, deriva essenzialmente dal “clima” di un’epoca.

Durante il Fascismo, per esempio, venne incoraggiata al massimo grado la riscoperta delle vestigia romane (e non solo). Poi, col crollo del regime, vi fu un certo ripensamento al riguardo dell’unilateralità di quella prospettiva (per giungere, purtroppo, anche ad eccessi di segno opposto). Insomma, gli uomini di ogni epoca risentono delle idee che circolano, le quali ‘aprono’ loro gli occhi in una direzione o un’altra.

E così, attraverso rapidi e sintetici ‘affreschi regionali’ – dalla Sicilia alla Puglia, dalla Campania alla Toscana, dal Veneto al Piemonte – l’esperto medievista già autore de La Reconquista (2009) e La Sicilia musulmana (2012) ci conduce lungo le tappe a suo parere più significative, storiche ed artistiche, di quella che potremmo definire “l’Italia arabo-islamica”.

Che altri, producendo volumi davvero pregevoli per quantità e qualità d’informazione, hanno indagato con maggior dovizia di particolari(1).
Ma questo libro, come scrivevamo, è un invito. Un invito a scoprire – o riscoprire – quel passato.

Che convive in noi, anche se spesso non lo vogliamo ammettere o riconoscere, succubi come siamo di una propaganda che vorrebbe tracciare una linea di demarcazione netta tra “noi” e “loro”.
Invece le cose sono fortunatamente un attimo più complesse. E di questa complessità della storia (un elemento sul quale Romolo Gobbi ha invitato a riflettere) Vanoli dà perfettamente conto ricordandoci, per esempio, che mentre “il turco” metteva una gran paura c’era chi, senza tanti sotterfugi, ci faceva lauti guadagni, in nome di quel commercio che, assieme alla cultura, non ha mai sopportato troppe barriere.

I limiti e le differenze tuttavia esistono, essendo probabilmente un dono della Provvidenza (il Corano stesso invita a meditare su questo, proponendo l’immagine di una “misericordia” per gli uomini, affinché nel confronto – e, perché no, nello scontro – si migliorino e si avvicinino alla Perfezione). Altrimenti non potremmo neppure parlare di “Italia araba”, bensì, in assenza di qualsiasi “differenza”, di un tutto indistinto dalle sembianze decisamente inquietanti e disperanti.

Per questo, accogliendo con entusiasmo l’invito dell’autore a mettersi in viaggio alla ricerca di questa “altra storia”, vorremmo ricordare a chi ha in orrore le “identità” che più ve ne sono, in una stessa persona o comunità, e meglio è. Mentre la tragedia è quando non ve n’è più alcuna o, variante sul tema, se ne proclama solo e sempre una, in maniera interessata e sclerotica, per bassi fini che non hanno a che vedere in alcun modo con la tanto sbandierata “cultura” e, tanto meno, con la ricerca della Verità.

E allora mettiamoci in cammino, lungo le vestigia e le storie di questa “Italia araba” che Alessandro Vanoli è stato in grado di “vedere”(2).

NOTE
1) Tra i vari titoli che si possono citare da un’oramai corposa bibliografia: F. Gabrieli, U. Scerrato, Gli arabi in Italia. Cultura, contatti e tradizioni, Garzanti/Scheiwiller, Milano 1985 (2a ed.); G. Curatola (a cura di), Eredità dell’Islam. Arte islamica in Italia [Venezia, Palazzo Ducale, 30.10.1993/30.4.1994], Silvana Editoriale, Milano 1993; S. Allievi, Islam italiano. Viaggio nella seconda religione del paese, Einaudi, Torino 2003; L. Scarlini, La paura preferita. Islam: fascino e minaccia nella cultura italiana, Bruno Mondadori, Milano 2005; Venezia e l’Islam. 828-1797 [Venezia, Palazzo Ducale, 28.7./25.11.2007], Marsilio, Venezia 2007; A. Feniello, Sotto il segno del leone. Storia dell’Italia musulmana, Laterza, Roma-Bari 2011.
2) Il libro si conclude significativamente con una tappa a Torino, forse la città d’Italia più “araba” dei nostri giorni. A riprova che “l’Italia araba” non è solo questione di testimonianze architettoniche, d’immaginario ispirato all’“Oriente” e di pagine di storia più o meno significative. A testimonianza di un rapporto ed un interesse duraturi che si dipanano tra fasi alterne, luci ed ombre, possiamo annoverare anche la recente rinnovata diffusione dell’editoria specializzata nell’insegnamento della Lingua araba, dopo le prime pionieristiche e per certi versi insuperate grammatiche d’epoca coloniale.

Nakba, la “Catastrofe” rimasta impunita

$
0
0





Al-Nakba (la Catastrofe) è un termine palestinese che ricorda il dramma umano associato con la cacciata avvenuta nel 1948 di centinaia di migliaia di palestinesi dalle loro terre, al fine di stabilire lo “Stato di occupazione di Israele”. Gli eventi di Al-Nakba includono l’occupazione da parte del regime sionista della maggior parte della terra di Palestina, costringendo più di 900mila palestinesi alla fuga e trasformandoli in rifugiati. Attualmente sono più di 5milioni i rifugiati che vivono nei campi profughi in Cisgiordania, Striscia di Gaza, Giordania, Libano, Siria e Iraq.

Questo tragico evento include anche decine di massacri, saccheggi e atrocità contro i palestinesi, trasformando le principali città palestinesi in città israeliane. Si è cercato di distruggere l’identità palestinese sostituendo i nomi arabi geografici con quelli ebraici, e distruggendo gli autentici punti di riferimento arabi attraverso i loro tentativi di giudaizzazione. Anche se i politici hanno scelto il 15 maggio 1948 per commemorare la Nakba palestinese, questa tragedia ha avuto inizio prima, quando le bande terroristiche hanno attaccato città e villaggi palestinesi al fine di annientarli e diffondere il terrore tra i civili.

L’esercito israeliano ha sempre cercato di nascondere i fatti relativi ai crimini di guerra e ai massacri commessi dalle milizie ebraiche nel 1948, in particolare nel periodo compreso tra maggio 1948 e marzo 1948. Tuttavia, i ricercatori e gli storici affermano che i palestinesi hanno condotto quattro rivolte, tutte finalizzate a prevenire il sorgere dello “Lo Stato di Israele”. I palestinesi hanno offerto centinaia di martiri per la loro causa, ma anche i coloni ebrei hanno subito gravi perdite, rinviando – secondo gli storici – la dichiarazione del loro “Stato” di almeno 20 anni. Sulla base di dati storici sono stati oltre 40mila i palestinesi massacrati nel corso della pulizia etnica attuata dai terroristi sionisti nei 50 massacri documentati.

I villaggi palestinesi distrutti sono stati più di 500, spazzati via con le loro caratteristiche culturali e storiche, l’area dei terreni confiscati inizialmente dall’Ente israeliano è stata di circa 17mila chilometri quadrati (il 63% delle dimensioni dell’area della Palestina). Due anni dopo la Nakba il numero dei rifugiati palestinesi era di circa 957mila, circa il 66% dei palestinesi in quel momento. Il numero di rifugiati palestinesi, secondo le ultime statistiche, ha raggiunto 5.400mila, ciò significa che il 75% del totale dei palestinesi sono rifugiati e sfollati.

Attualmente i palestinesi della “Catastrofe” sono sparsi in 36 campi profughi nella Striscia di Gaza, Cisgiordania, Giordania, Libano e Siria. Le Nazioni Unite hanno creato l’ente di soccorso per i profughi palestinesi nel Vicino Oriente, l’Unrwa, che è responsabile per i profughi palestinesi del 1948. Da 67 anni nessun atto di giustizia è stato intrapreso dalla comunità internazionale a favore del popolo palestinese, lasciando impunito uno dei peggiori crimini di guerra attuati contro una popolazione civile.


Seymour Hersh soccombe alla disinformazione

$
0
0


Le agenzie di disinformazione di Washington sono finalmente riuscite a ingannare Seymour Hersh con una "storia dall'interno" inventata che salva l'affermazione di Washington di aver ucciso bin Laden attraverso la dimostrazione che il governo USA è un bugiardo straordinario e un violatore del diritto.

   

Seymour Hersh ha pubblicato un lungo resoconto dell’omicidio di Osama bin Laden: http://www.lrb.co.uk/v37/n10/seymour-m-hersh/the-killing-of-osama-bin-laden. Hersh stabilisce che la narrazione del regime di Obama in merito all’uccisione di Bin Laden sia una totale invenzione tranne per il fatto che bin Laden sia stato ucciso. Non credo alla storia di Hersh per tre diverse ragioni.

Una ragione è che Bin Laden era affetto da una malattia cui nessuno può sopravvivere per un decennio. La sua morte fu largamente riferita nel 2001. Un’altra ragione è che anche l’«autentico» racconto di Hersh su «ciò che è realmente accaduto» è contraddetto da testimoni oculari e dalle iniziali interviste televisive pakistane a dei testimoni oculari. Un’altra ragione ancora è che la storia di Hersh è troppo complicata per un raid volto a un assassinio, un evento di routine. Espone bugie dentro altre bugie, indecisioni dentro decisioni, tangenti dentro tangenti, e riferisce di un numero di persone che avevano conoscenza anticipata del raid talmente enorme che esso non avrebbe assolutamente potuto essere mantenuto segreto.

Potrei aggiungere una quarta ragione: la mancanza di credibilità del governo USA. Washington mente su tutto. Per esempio: le armi di distruzione di massa di Saddam Hussein, l’uso di armi chimiche da parte di Assad, le armi nucleari iraniane, l’invasione russa dell’Ucraina. Se, come riporta Hersh, le menzogne costituiscono il 99% della storiella di Washington sul raid di Abbottabad, perché mai credere che l’1% della storia sia vera e che bin Laden sia stato ucciso? È difficile avere un omicidio senza un corpo. L’unica prova che bin Laden sia stato ucciso è l’affermazione del governo. A mio parere, le agenzie di disinformazione di Washington sono finalmente riuscite a ingannare Seymour Hersh con una “storia dall’interno” inventata che salva l’affermazione di Washington di aver ucciso bin Laden attraverso la dimostrazione che il governo USA è un bugiardo straordinario e un violatore del diritto.
La storia di Hersh dimostra che il governo degli Stati Uniti è bugiardo, ma non prova affatto che una squadra SEAL abbia ucciso Osama bin Laden.

L’ombra del potere finanziario scende sull’Europa dal tempo di Carlo V e Jakob Fugger

$
0
0

usurai_quentin_metsysL’antica lotta dell’oro contro il sangue, dell’”usura” (per dirla con Ezra Pound) contro il lavoro umano, non è sempre appartenuta alla storia d’Europa: non vi era nel Medioevo, perché in quell’epoca, che alcuni si ostinano a chiamare “oscura”, c’era abbastanza buon senso da mettere a punto tutti gli strumenti utili a contenere i nascenti appetiti degli strozzini e dei banchieri a danno della società e dei lavoratori.

In pratica, essa si accende con la nascita dello Stato moderno: stato che, per definizione, ha bisogno di molto, moltissimo denaro: per tenere in armi un grosso esercito nazionale (dotato di un cospicuo parco d’artiglieria), per pagare uno stuolo di funzionari e amministratori, redigere un catasto, riscuotere le tasse, far funzionare la macchina della giustizia, sostenere la politica estera, nonché per tenere in rispetto l’inquieta nobiltà feudale. In confronto, lo stato feudale viveva di poco: chiedeva poco e spendeva ancora meno. Ma lo stato moderno nasce contestualmente alla borghesia cittadina, alla quale i monarchi si appoggiano contro la nobiltà; e la borghesia imprenditoriale e commerciale non tarda a svilupparsi anche mediante l’impiego disinvolto del capitale finanziario: in pratica, prendendo il posto della vecchia figura dell’usuraio e facendo assai in grande ciò che questi aveva fatto su scala alquanto modesta.

Il sovrano del XIV e del XV secolo, dunque, ha bisogno di denaro: di moltissimo denaro. Deve pagare i soldati, i giudici, gli impiegati; deve condurre una grande politica, che lo mette in relazioni, ora pacifiche, ora bellicose, con altre grandi monarchie; e, d’altra parte, non può seguitare indefinitamente a caricare di tasse la borghesia, perché ha bisogno del suo sostegno contro la grande nobiltà. Certo, può coniare nuova moneta, ma sa bene che la moneta, di per sé, non è sufficiente; può confiscare le ricche proprietà ecclesiastiche, ora con pretesti politici (come nel caso di Filippo il Bello contro i Templari), ora religiosi (come farà Enrico VIII Tudor con la Chiesa cattolica inglese): ma anche la politica di rapina non è una soluzione strutturale. Ha bisogno, dunque, di qualcuno che gli presti, o meglio, che gli anticipi, le grandi somme di cui ha bisogno, magari già per farsi eleggere (e sarà il caso del re di Spagna, Carlo I d’Asburgo, che riesce a farsi eleggere imperatore de Sacro Romano Impero tedesco, in concorrenza con Francesco I di Francia, assumendo il nome di Carlo V): e gli unici a possedere somme del genere sono i grandi banchieri tedeschi, i Fugger e i Welser di Augusta, e i grandi banchieri italiani, fiorentini e genovesi, dapprima i Medici, indi gli Spinola, i Doria, i Grimaldi, i Cattaneo, i Centurione.

Bildnis Jakob Fugger der ReicheAnche la vecchia condanna ecclesiastica contro il prestito di denaro a interesse è, di fatto, caduta; gli stessi papi ricorrono ai servigi dei banchieri; a maggior ragione vi ricorrono i principi laici, i sovrani nazionali, gli imperatori. E così, il capitale finanziario si intreccia con quello industriale e commerciale: i Fugger, per esempio, già al tempo di Jakob (detto “il ricco”: 1459-1525), sono impegnati massicciamente su almeno tre fronti: l’estrazione e la vendita di metalli nell’Europa centrale (dall’argento al mercurio); il commercio delle spezie provenienti dalle Indie; i proficui affari con le case regnanti: prestiti per somme inaudite, che sono come altrettante – ma illusorie – boccate di ossigeno, in cambio di appalti sull’esazione delle imposte. Il tutto sulle spalle della società, degli imprenditori, dei lavoratori: la finanza incomincia a crescere succhiando il sangue dei sudditi: simile a una grande pianta parassita, la rete della finanza si stende sull’Europa e drena risorse da ogni parte, anche sui metalli preziosi in arrivo dal Nuovo Mondo.

Si crea, così, una situazione paradossale, ma che diverrà sempre più frequente, fino a diventare, ai nostri giorni, pressoché normale (anche se “normale”, a ben considerare la cosa, non lo è per niente): i banchieri anticipano somme enormi ai sovrani, i quali, con esse, intraprendono guerre e ogni genere di grande politica, lasciando, in cambio, la riscossione delle imposte a quegli stessi banchieri; da quel momento, i sudditi lavorano per consentire al sovrano di pagare i debiti con i banchieri, e ai banchieri, di emettere nuovi prestiti al sovrano.

Ogni tanto un sovrano non riesce a far fronte al debito, dichiara la bancarotta, e i suoi finanziatori falliscono; oppure succede che le truppe, stanche di aspettare una paga che non arriva mai, si ammutinano e, di fatto, esautorano i loro ufficiali e si scagliano selvaggiamente contro la popolazione civile (è quanto avviene con il sacco di Roma, il 6 maggio 1527). Sono effetti collaterali di un sistema socio-economico ormai malato, nel quale le forze vive della produzione sono messe al guinzaglio dalle forze parassitarie della finanza, le quali, anticipando i capitali, ma servendosi sempre più esosamente dello strumento degli interessi, agiscono in maniera parassitaria proprio grazie a ciò che la Chiesa, per secoli, aveva condannato: trasformare in denaro il fattore tempo (perché il tempo appartiene a Dio, e non all’uomo).

L’economia e la politica sono drogate: hanno bisogno di sempre più denaro, e sempre più in anticipo: i cardinali per farsi eleggere papi; i principi per farsi eleggere re o imperatori (dove la monarchia è elettiva); i nobili per farsi nominare giudici, o governatori di qualche provincia o di qualche lontana colonia d’oltremare; gli stessi commercianti per disporre dei capitali necessari ad impiantare un traffico su grande scala, o un’attività industriale costosa e tecnicamente impegnativa, come l’attività estrattiva o la siderurgia; e, così facendo, il credito dei banchieri cresce a dismisura, e crescono gli interessi sui prestiti effettuati, che i debitori non riescono mai a estinguere nei tempi stabiliti, per quanti sforzi facciano: vale a dire, per quanto i sovrani aumentino le imposte e per quanto i privati sottoscrivano nuove quote d’interesse.

Il meccanismo infernale si è messo in movimento: la società ha infilato la testa nel cappio e le banche, con lentezza calcolata, incominciano a stringere il nodo scorsoio; esse non mirano a strangolare i debitori (finirebbe, con ciò, anche la loro convenienza), ma ad esercitare una pressione sufficiente per tenerli sempre saldamente in pugno, eternamente sottomessi, eternamente ricattabili. La guerra tra chi lavora e produce ricchezza e chi, invece, si limita a sfruttare il lavoro altrui, prestando del denaro “virtuale”, che in pratica non esiste, ossia dei semplici pezzi di carta, ma facendosi pagare in denaro contante, spremuto dal sudore e dal sangue delle popolazioni, è incominciata: e, da allora in poi, sono stati sempre i banchieri all’attacco, con il coltello dalla parte del manico, e tutto il resto della società costretto sulla difensiva, proprio come lo è oggi il popolo greco, caduto nelle grinfie della Banca Centrale europea, del Fondo monetario internazionale e della Commissione europea.

Riassumiamo i punti salienti di questo aspetto del regno di Carlo V attraverso una pagina del saggista Guido Gerosa (“Carlo V, un sovrano per due mondi”, Milano, Mondadori, 1989, pp. 236-239):

gerosa_carloV«Carlo V ricorse ai Fugger non solo per la colossale vicenda della sua elezione nel 1519, quando i famosi banchieri lo finanziarono contro Francesco I, ma anche per innumerevoli contrattazioni importanti del suo regno.[…]

La storia di Carlo è sempre stata straordinariamente legata a quella dei Fugger. Jakob Fugger, il patriarca della casa di Augusta, si era fortemente impegnato per sostenere la candidatura di Carlo nella elezione imperiale. Aveva fatto anticipi di persona e aveva concesso la sua garanzia ai prestiti di altri banchieri. Dopo la vittoria passarono molti anni prima che Carlo riuscisse a restituirgli il dovuto.

Ai debiti accumulatisi nel 1519 si aggiunsero gli interessi dei prestiti che Jakob continuò a concedere fino al 1521. A partire dal 1522 Carlo si appoggiò ai banchieri italiani, forse perché lo imbarazzava chiedere ancora ai Fugger. Stava liquidando con rapidità il suo debito, ma si trattava di somme immense e la partita non veniva mai chiusa. Jakob, il suo vero protettore, morì il 30 gennaio 1526. Aveva portato all’apogeo il casato dei Fugger e la morte gli risparmiò il cruccio di vedere Carlo rivolgesi per prestiti ad altri banchieri.

Infatti in questo periodo all’orizzonte finanziario dell’imperatore appaiono i Welser di Augusta. Condottiero Bartholomaus Welser, un finanziario d’assalto come si direbbe oggi. E poi arrivano i banchieri genovesi: Mafeo de Tarsis, Stefano Rizzi e soprattutto Giovan Battista Grimaldi.

Questi espellono i Fugger dalla scena e realizzano un colpo grosso. Riescono a farsi assegnare l'”arrendamento” (riscossione delle imposte) dei “maestrazgos”: beni appartenenti al sovrano di Castiglia in quanto Gran Maestro degli Ordini militari di Santiago, Calatrava e Alcantara. Le terre amministrate da questi Ordini erano le cosiddette “mesas maestrales”. Per i Welser il loro “arrendamento” rappresentò un affare colossale.

Nel 1542 i Fugger si sentono esclusi dal precedente trattamento di favore e per protesta disertano le aste per la riscossione delle imposte in Spagna. E rivolgono un’accesa rimostranza con un memoriale all’imperatore, che il suo consigliere Francisco de los Cobos trasmette al consiglio “de la hacienda”, l’organo che coadiuva il sovrano nella direzione della politica finanziaria.

In un primo tempo i consiglieri – il vescovo di Badajoz, Cristobal Suarez e Sancho de Paz – si sforzano di dare soddisfazione ai famosi banchieri tedeschi. Ma subito dopo decidono di arrivare alla rottura definitiva. Perché i Fugger, ben lontani dal superare le offerte dei banchieri genovesi e dello spagnolo Ganzàlez de Leon, speravano di assicurarsi per altri cinque anni l’appalto di riscossione al prezzo di affezione fissato per la loro precedente gestione.

Al che i consiglieri della “hacienda”, confrontata l’offerta Fugger con le altre, ascoltano la voce della coscienza e non danno ascolto alle pressioni del de los Cobos. Con grande coraggio essi riconoscono pubblicamente che se si desse l’appalto ai Fugger la corona perderebbe 20.000 ducati, se non più, ogni anno: vale a dire 80.000 nei quattro anni previsti dal contratto. I “maestrazgos” furono così assegnati, per la riscossione, allo spagnolo Pedro Gonzàlez de Leon…. […].

Nel 1546 Carlo, dovendo affrontare in Germania i principi tedeschi, ha bisogno di grandi mezzi. La guerra non può essere rimandata ed egli cerca ingenti somme di danaro per finanziarla.  Si rivolge allora ai Fugger, che nonostante le passate delusioni lo aiutano. Ma insistono per dargli direttamente il denaro e non passare attraverso alcun tipo di asta o di gara con altri banchieri. Stavolta l’imperatore li compiace. […] Perciò il principe ereditario Filippo il 22 maggio 1546 a Madrid firmò l’impegno. I Fugger tornavano a essere i banchieri prediletti dell’impero.

Mantennero il controllo dei “maestrazgos” per il quadriennio del contratto, fino al 1550. Ma poi lo persero. Per quale mai motivo? In quel periodo i rapporti tra Carlo V e Anton Fugger erano molto stretti e cordialissimi. Nonostante ciò, i finanzieri tedeschi dovettero gareggiare in un’asta incerta e furono battuti. Le ragioni profonde di questo cambiamento sono poco chiare: riflettono forse la volubilità di Carlo e la facilità con cui l’imperatore nei suoi ultimi anni di regno cambiava capricciosamente amici e alleanze».

impero_carloVIl quadro è chiarissimo; quello che, forse, non è ben chiaro a tutti, compresi certi storici, è quale sia il reale rapporto gerarchico fra gli stati e le banche. Ora, per chiarirlo meglio, prendiamo, appunto, il caso di Carlo V (ma potremmo pensare benissimo anche ai governi degli stati odierni, con i loro parlamenti e le altre istituzioni “democratiche” al posto delle monarchie d’un tempo). Da una parte abbiamo un sovrano ambizioso e potentissimo, che regna sopra un impero «ove non tramonta mai il sole» e che conduce una grandiosa politica mondiale, su innumerevoli fronti: la rivale monarchia francese, i principi italiani e il papa, i principi protestanti tedeschi, l’Impero ottomano, i pirati barbareschi nel Mediterraneo (Tunisi e Algeri), quasi una riedizione delle glorie di Roma antica; dall’altra parte, alcune famiglie di ricchissimi banchieri, che gli anticipano le somme necessarie. Ebbene, chi è il vero protagonista della scena politica europea: il sovrano o le banche? È Carlo V che si serve dei banchieri, utilizzandoli come semplici strumenti della sua politica, o è egli stesso, forse inconsapevolmente, ad essere divenuto uno strumento della loro indispensabile, illimitata, incontrastata potenza finanziaria? Chi comanda e chi è comandato, in realtà, fra i due, al di là delle mere apparenze, che possono anche ingannare l’occhio inesperto o l’osservatore poco perspicace?

Fonte: “Il Corriere delle regioni”, 24 apr. 2015 (per gentile concessione dell’Autore)

Riaperto il caso bin Ladin

$
0
0
article-2217185-157DB1DC000005DC-754_634x331Il racconto agghiacciante del giornalista investigativo statunitense Seymour Hersh, nel suo ben curato saggio nell’ultimo numero della London Review of Books, intitolato ‘L’assassinio di Usama bin Ladin’, sull’assassinio a sangue freddo di quattro anni fa del capo latitante di al-Qaida nella città pakistana di Abbottabad, dovrebbe far trarre alle élite indiane certe cupe conclusioni sulla “definizione di partnership del XXI secolo” tra India e Stati Uniti.

Hersh afferma:
Usama bin Ladin era sotto la custodia dell’Inter-Services Intelligence (ISI) del Pakistan dal 2006 all’assassinio nel 2011. L’Arabia Saudita era l’unico Paese interessato. I sauditi compensarono finanziariamente il Pakistan per tenere bin Ladin, cittadino saudita, vivo e al sicuro.
L’operazione di Abbottabad fu attuata congiuntamente da Stati Uniti e Pakistan, con l’esercito pakistano e ISI che diedero supporto logistico. Il capo dell’esercito Generale Ashfaq Kayani insisteva che bin Ladin fosse sommariamente ucciso.
Così bin Ladin fu deliberatamente ucciso a sangue freddo anche se era disarmato, gravemente malato, non era più coinvolto nelle attività di al-Qaida e avrebbe potuto essere catturato vivo.
Il suo corpo a pezzi fu gettato dagli elicotteri statunitensi di ritorno alla base in Afghanistan, non ebbe esattamente un “funerale musulmano” in mare, come affermò la Casa Bianca.
Un elaborato cover-up fu poi inscenato dalla Casa Bianca e un falso resoconto dato ai media e al Congresso degli Stati Uniti.
Il saggio di Hersh dà un quadro misero del presidente Barack Obama. A meno che Obama non chiarisca ciò che successe realmente, e perché e come successe, l’assassinio a sangue freddo di bin Ladin peserà sul suo lascito, anche se sarà un politico ben protetto e non vivrà il resto della vita nella paura della vendetta da parte di al-Qaida, a differenza di Kayani o dell’ex-capo dell’ISI Generale Shuja Pasha, uomini condannati d’ora in poi. Il punto è che infine Obama raggiunse un accordo con Kayani, l’assassinio di bin Ladin in cambio di una borsa d’oro e mano libera all’esercito pakistano in Afghanistan. Senza dubbio, l’ex-presidente afgano Hamid Karzai aveva ragione quando insisteva che gli Stati Uniti non combattevano seriamente i taliban, ma si creavano solo l’alibi per mantenere la presenza militare a lungo termine in Afghanistan, servendo la propria agenda geopolitica. Come potremmo dimenticare che gli Stati Uniti sono l'”impero del male” che non rispetta diritto internazionale, sovranità di altre nazioni e utilizza l’omicidio a sangue freddo come arma politica? Per lo meno bin Ladin avrebbe dovuto essere catturato e processato. Ma poi, forse, avrebbe gravemente compromesso la reputazione di Arabia Saudita e Pakistan e reso difficile ad Obama condurvi affari normali.
Ironia della sorte, Obama doveva ospitare Salman bin Abdulaziz, re dell’Arabia Saudita, alla Casa Bianca e a Camp David, con principale argomento di discussione la guerra al terrore che i due alleati combattono insieme. Il cordone ombelicale che lega l’ISI alla CIA è ben noto. Tuttavia sorprende che Obama e Kayani abbiano cospirato in segreto per pianificare ed eseguire un omicidio. E come ogni complice di un “delitto perfetto”, CIA e ISI sono legati per tutta la vita. Tra l’altro, Kayani dirigeva l’ISI nel periodo precedente gli attentati di Mumbai del 26 novembre 2008, in cui un ruolo fondamentale ebbe David Headley, che lavorava per l’intelligence degli Stati Uniti. Cosa suscita tutto ciò sulla tanto declamata cooperazione per la sicurezza tra India e Stati Uniti?Dobbiamo riflettere seriamente se il Pentagono potrà mai essere un partner affidabile per le forze armate indiane. Basti dire del braccio di ferro dagli Stati Uniti per costringere la Francia ad affossare il contratto da 1,5 miliardi di dollari per la portaelicotteri Mistral con la Russia, un dramma allegorico anche per noi. Hersh ci ha fatto un favore pubblicando questo saggio, alla vigilia della visita di un alto procacciatore statunitense a Delhi, il segretario della Difesa Ashton Carter.article-1382859-0BDFDE7A00000578-216_964x604Traduzione di Alessandro Lattanzio – SitoAurora

Menzogne americane

$
0
0
Osama_bin_Laden_portrait

Le bugie di alto profilo, tuttavia, restano il modus operandi della politica degli Stati Uniti, insieme alle prigioni segrete, agli attacchi dei droni, agli attacchi notturni dei Corpi Speciali, scavalcando ogni catena di comando, e all’eliminazione di chi potrebbe ostacolarli. (S.M. HERSH)

La spettacolare uccisione di bin Laden non fu altro che uno show messo in atto dagli statunitensi per garantire la rielezione di Obama. In soldoni, questa è la tesi di Seymour M. Hersh, il quale ha firmato una inchiesta sull’operazione dei Navy Seals, di quattro anni fa, che sta mettendo in imbarazzo l’Amministrazione Usa. Stiamo parlando di un premio Pulitzer molto rispettato  che se non fosse stato sicuro delle sue fonti non avrebbe mai rischiato la sua reputazione “per così poco”. Quando, all’epoca, si seppe della notizia, rilanciata dai media di tutto il mondo con titoloni di giubilo, come se ad essere  cancellato dalla faccia della terra fosse stato il demonio in persona, il nostro maestro, Gianfranco La Grassa, scrisse, prontamente, che lo “sceicco del terrore” era stato venduto dai servizi segreti pachistani (l’ISI) agli americani. Su questo non potevano esserci dubbi.

Bin Laden viveva ormai segregato in una località pachistana, protetto dall’intelligence di Islamabad, ma era diventato un peso morto per tutti. Non serviva più a nessuno. Per questo fu sacrificato “nell’urna” da chi lo aveva trasformato in un simbolo del terrorismo islamico internazionale. Il cosiddetto capo di Al Qaeda passava i suoi giorni in un compound di Abbottabad circondato da pochi famigliari e altrettante persone fidate. Il leader di Al Qaeda era un uomo solo e senza più seguito, protetto eslusivamente dai segreti scottanti che custodiva. Quando i militari statunitensi hanno fatto irruzione nel luogo in cui si nascondeva non c’era più nessuno a difenderlo, l’ISI aveva già “bonificato” la “location” affinché le cose si svolgessero il più rapidamente possibile ed in massima sicurezza per i reparti speciali di Washington. I “coraggiosissimi” Navy Seals “gli hanno fatto il culo” pur sapendo che stavano stanando una persona ormai inoffensiva, disarmata ed incapace di resistere. Sarebbe stato più interessante catturarlo vivo ma, evidentemente, questo “interesse” non rientrava negli scopi della casa Bianca. Troppo scomodo bin Laden per lasciarlo in giro, anche se in una galera yankee. Persino il suo corpo senza vita poteva diventare un ingombro fastidioso ed, infatti, qualcuno pensò bene di farlo sparire, non in mare come ci è stato raccontato, ma altrove (secondo l’informatore di Hersh sarebbe stato fatto a pezzi e lanciato dall’elicottero dei Seals).

Ci domandiamo quale grandezza possa esserci nell’omicidio efferato e a sangue freddo di un uomo, ormai invalido, che era diventato lo spettro di se stesso: “Osama bin Laden si rannicchiò in un angolo della sua stanza da letto. Due tiratori lo seguirono e fecero fuoco. Molto semplice, tutto molto semplice e professionale”. Questo rivela il funzionario Usa in pensione che ha aiutato Hersh a fare luce sulla vicenda. Perché i pachistani decisero, dopo aver garantito anni di “latitanza” a bin Laden, di consegnarlo agli americani? Perché “volevano assicurarsi la continuità degli aiuti militari americani, buona parte dei quali erano finanziamenti anti-terrorismo destinati alla sicurezza personale, come ad esempio limousine a prova di proiettile, guardie di sicurezza e abitazioni per i leader di ISI, ha detto il funzionario in pensione…La comunità di intelligence sapeva quello di cui avevano bisogno i pachistani e quello per cui avrebbero accettato: in altri termini, c’era la carota. E hanno scelto la carota. E’ stato reciprocamente vantaggioso. E gli abbiamo fatto anche un piccolo ricatto. Gli abbiamo detto che avremmo tenuto la bocca chiusa sul fatto che avessero bin Laden nel loro territorio. Sapevamo bene chi erano i loro nemici e amici: ai talebani e ai gruppi jihadisti in Pakistan e Afghanistan ‘non sarebbe piaciuto’… I sauditi non volevano che fosse rivelata la presenza di bin Laden perché era un saudita, e così hanno detto ai pachistani di cucirsi la bocca. I sauditi temevano che, se noi ne fossimo stati a conoscenza, avremmo fatto pressione sui pachistani perché bin Laden iniziasse a dirci qualcosa su quello che i sauditi avevano fatto con al-Qaeda. E ne avevano spesi di soldi – tanti, ma tanti soldi. I pachistani, a loro volta, si preoccupavano che i sauditi potessero vuotare il sacco sul loro controllo di bin Laden. Il timore era che se gli Stati Uniti avessero scoperto qualcosa su bin Laden da Riyadh, sarebbe scoppiato l’inferno. Gli americani che venivano a sapere di bin Laden da un informatore volontario? In fondo non era la cosa peggiore”.
Fin qui quello che rivela la fonte dell’intelligence sentita da Hersh. Poi, come riporta lo stesso giornalista cicaghese, gli americani avevano ancora della merce di scambio da offrire ai pachistani, avrebbero cioè favorito i loro interessi in Afghanistan: “Washington sapeva bene che gli elementi dell’ ISI ritenevano essenziale per la sicurezza nazionale il mantenimento di un rapporto con la leadership talebana in Afghanistan. Obiettivo strategico dell’ ISI è quello di bilanciare l’influenza indiana a Kabul; i talebani in Pakistan sono visti anche come utili fornitori per le truppe d’assalto jihadiste che sarebbero al fianco del Pakistan contro l’India in un confronto sul Kashmir”.
Questi elementi di sicurezza interna e di geopolitica esterna hanno convinto Islamabad a fornire un sovrappiù di copertura all’azione statunitense. In sostanza, l’eliminazione di bin Laden, è stata una passeggiata. Tutto ciò scredita le scene di esultanza ed il presunto eroismo dei corpi addestrati americani che non hanno rischiato quasi nulla durante tutta l’operazione: “Dopo aver ucciso bin Laden, i Seal erano lì, alcuni con ferite dalla caduta precedente, in attesa dell’elicottero di soccorso. Venti minuti di tensione, il Black Hawk stava ancora bruciando. La città era buia, non c’era elettricità, non c’era polizia. Nessun camion dei pompieri. Non avevano prigionieri. Mogli e figli di Bin Laden furono lasciati all’ISI perché fossero interrogati e rilocati’. ‘Nonostante tutti i discorsi non ci sono stati i soliti sacchi della spazzatura pieni di computer e dispositivi di archiviazione da portare via. I ragazzi hanno solo preso dei libri e giornali qua e là nella stanza e se li sono messi negli zaini. I Seal non erano lì perché sapevano che bin Laden comandava da quel posto le operazioni di al Qaeda – come avrebbe detto dopo la Casa Bianca ai mezzi d’informazione. E non erano esperti d’intelligence in grado di raccogliere le informazioni da quella casa’. In una normale missione di assalto, ha detto il funzionario in pensione, non si sarebbe atteso un altro elicottero se l’altro si fosse schiantato giù. ‘ I Seal avrebbero terminato la missione, buttato fuori le loro armi e gli attrezzi, e si sarebbero stretti nel restante Black Hawk e di-di-maued’ – lo slang vietnamita per ‘fuggire via di corsa’. Via, via di lì, magari con alcuni dei ragazzi appesi fuori dall’elicottero. – ‘Fuori di lì, con i ragazzi appesi fuori dalle porte dell’elicottero. Nessuna attrezzatura poteva mai valere più di una vita umana – a meno che non sapessero di essere già al sicuro. E invece erano lì, tranquilli, fuori dal complesso, in attesa della ‘corriera’ che li riportava a casa… ‘Pasha e Kayani avevano mantenuto tutte le loro promesse”.

Concludo con le durissime parole di Gianfranco La Grassa che però ci denudano al cospetto delle menzogne e delle brutalità di cui siamo capaci noi civilissimi occidentali, i protagonisti di questo film storico che si sentono investiti, immancabilmente, della parte dei buoni  direttamente, in God we trust, dal grande regista divino, il quale, evidentemente, ha una predilizione per i peccatori indefessi: “E’ ora di fare paragoni precisi tra gli sgozzatori dell’Isis e questi “premi Nobel per la pace” (in quanto rappresentanti di una nazione che massacra popoli dalla sua nascita, con accelerazione dalla fine della seconda guerra mondiale). Ed è ora che si cominci a dire chi ha ammazzato più gente tra i nazisti e questi “liberatori” selvaggi e veri alieni. Siamo alla mercé dei peggiori assassini che la storia abbia conosciuto. Riconosciamo che poi c’è anche gente meritevole che racconta e rivela queste gesta. D’accordo, ammettiamo questo punto di vantaggio. Ma le rivelazioni fermano gli assassini? No, tutto si ripete ogni volta; viene rivelato e si aspetta, certissimi, il prossimo misfatto di questi esseri di una specie sconosciuta e non studiata”.

 

L'uccisione di Osama Bin Laden (parte seconda)

$
0
0

Cinque giorni dopo il raid all’ufficio stampa del Pentagono fu fornita una serie di videocassette che i funzionari USA dissero che i Seal avevano trovato e preso sul posto, insieme a 15 computer. Frammenti di uno dei video mostrava un solitario bin Laden, avvolto da una coperta, che guardava un video di se stesso in televisione. Un anonimo funzionario avrebbe detto ai giornalisti che il raid aveva fruttato un vero ‘tesoro’….’la più grande raccolta di materiali terroristici di sempre ", che ha dato spunti importanti sui piani di al Qaeda. Il funzionario ha detto che il materiale fornito indicava che bin Laden 'era un leader attivo di al-Qaeda, che dava istruzioni strategiche, operative e tattiche al gruppo’…Era tutt'altro che una figura secondaria e continuava a impartire istruzioni tattiche per la gestione del gruppo e a promuovere nuove azioni dal suo centro di comando di Abbottabad. ‘Era una figura attiva, cosa che confermava l’assoluta necessità della missione che appena compiuta per la sicurezza della nostra nazione', ha detto il funzionario. Quelle informazioni erano così importanti, ha aggiunto, che l'amministrazione stava allestendo per la loro elaborazione una task force inter-agenzie. 'Non era solo qualcuno che scriveva la strategia di al-Qaeda, ma progettava le nuove operazioni e dirigeva anche altri membri di al-Qaeda '.



Queste dichiarazioni erano inventate: bin Laden non stava esercitando un grande comando e controllo in al Qaeda. Il funzionario d’intelligence in pensione ha detto che alcuni rapporti interni della CIA indicano che bin Laden era ad Abbottabad dal 2006. E’ probabile che solo una piccola manciata di atti terroristici sia collegata a quel che restava di bin Laden uomo di al Qaeda. ‘Ci fu detto in un primo momento, ha detto il funzionario in pensione, che i Seal hanno fornito sacchi di spazzature e computer e che l’agenzia sta producendo quotidiani rapporti di intelligence quotidiane su questa roba. Poi ci hanno detto che la comunità d’intelligence ha messo insieme la roba e ora ha bisogno di tradurla. In realtà non e’ venuto fuori niente di niente. Tutto quello che hanno detto non era vero. Era un’enorme bufala, come l’uomo di Piltdown’. Il funzionario in pensione ha riferito che la maggior parte del materiale di Abbottabad è arrivato negli Stati Uniti grazie ai pachistani, che dopo rasero al suolo il complesso. L’ISI si assunse la responsabilità delle mogli e dei figli di bin Laden e nessuno di loro è stato reso disponibile per interrogatori.

 

Perché inventarsi la storia del ‘tesoro trovato’? Secondo il funzionario in pensione ‘La Casa Bianca ha dovuto dare l'impressione che bin Laden era ancora un elemento operativo importante. In caso contrario, perché ucciderlo? E’ stata quindi creata una storia di copertura, con dei corrieri che andavano e venivano lasciando e prendendo post-it con istruzioni operative. Tutto questo per dimostrare che bin Laden era ancora un elemento importante nell’organizzazione terroristica’.

 

Nel luglio 2011, il Washington Post ha pubblicato quello che voleva essere una sintesi di questo materiale rinvenuto. La storia era palesemente contraddittoria. Si diceva che i documenti rinvenuti avevano prodotto più di quattrocento rapporti d’ intelligence in sole sei settimane; metteva in guardia su non specificati nuovi complotti di al Qaeda e citava arresti di sospetti con nomi di persone ‘contenute in email scritte e ricevute da bin Laden’. Il Post non ha identificato i sospetti o confermato quel dettaglio poiché in evidente contraddizione con le precedenti affermazioni dell'amministrazione secondo le quali il complesso era privo di connessioni internet.   Nonostante le affermazioni che i documenti avevano prodotto centinaia di rapporti, il Post ha citato dei funzionari secondo i quali il valore principale non era tanto l’intelligence, ma il fatto che hanno molto ‘aiutato gli analisti a costruire un quadro più preciso di al Qaeda’.

 

Nel mese di maggio 2012, il Centro per la lotta al Terrorismo di West Point, un gruppo di ricerca privato, rilasciò le traduzioni che gli erano state commissionate dal governo federale, producendo 175 pagine di documenti relativi a bin Laden. Gli analisti non vi hanno trovato niente di tutto quello che era stato detto dopo il raid. Patrick Cockburn ha scritto sull’evidente contrasto tra le affermazioni iniziali dell'amministrazione che bin Laden era il 'ragno al centro di un rete di complotti' e quello che le traduzioni dimostravano: cioè che bin Laden era 'un delirante' con 'un contatto limitato con il mondo esterno al complesso dove viveva’.

 

Il funzionario in pensione ha contestato l’autenticità del materiale di West Point: 'Non vi è alcun collegamento tra questi documenti e il centro antiterrorismo presso l'agenzia. Nessuna analisi da parte della comunità dell'intelligence. Quando è stata l'ultima volta che la CIA: 1) ha annunciato che aveva scoperto informazioni d’intelligence importanti? 2) ha rivelato la fonte; 3) ha descritto il metodo di elaborazione dei materiali; 4) ha rivelato la linea del tempo nella produzione dei documenti; 5) ha descritto da chi e dove era stata effettuata l’analisi, e 6) ha pubblicato i risultati sensibili prima di completare l’elaborazione di tutti i documenti? Nessuna agenzia seria avallerebbe una simile fandonia’.

*

Nel mese di giugno 2011, New York Times, Washington Post e tutta la stampa pachistana riportò che Amir Aziz era stato trattenuto per un interrogatorio in Pakistan; era, si disse, un informatore della CIA che spiava l'andirivieni presso il complesso dov’era bin Laden. Aziz era poi stato rilasciato, ma il funzionario in pensione ha detto che l'intelligence americana non era in grado di stabilire chi avesse diffuso le notizie altamente riservate sul suo coinvolgimento nella missione. I funzionari di Washington decisero che ‘non si poteva correre il rischio di rendere ancora più noto il ruolo di Aziz nell’ottenimento del DNA di bin Laden'. Era necessario un agnello sacrificale e il prescelto fu Shakil Afridi, un medico pachistano di 48 anni che aveva lavorato per breve tempo anche per la CIA, che era stato arrestato dai pachistani a fine maggio con l’accusa di collaborazione con la CIA. 'Siamo andati dai pachistani e gli abbiamo detto di seguire Afridi,' ha detto il funzionario in pensione. 'Abbiamo dovuto coprire l'intera vicenda di come eravamo arrivati al DNA’. Presto fu reso noto che la CIA aveva organizzato un falso programma di vaccinazioni ad Abbottabad con l'aiuto di Afridi, nel tentativo – fallito - di ottenere il DNA di bin Laden. Afridi eseguì normalmente l’operazione medica in modo indipendente dalle autorità sanitarie locali, ben finanziato e offrendo gratuitamente vaccinazioni contro l’epatite B. I manifesti del programma furono affissi in tutta l’area. Afridi fu successivamente accusato di tradimento e condannato a 33 anni di prigione a causa dei suoi legami con un estremista. Le notizie del programma sponsorizzato dalla CIA provocò molta rabbia in Pakistan, con il risultato che furono cancellati diversi altri programmi internazionali di vaccinazioni, ormai visti come copertura per operazioni di spionaggio americano.

 

Il funzionario in pensione ci ha detto che Afridi era stato reclutato molto prima della missione di bin Laden, come parte di un’operazione isolata d’intelligence per ottenere informazioni su presunti terroristi ad Abbottabad e nella zona circostante. 'Il piano era quello di usare le vaccinazioni come un pretesto per ottenere il sangue di sospetti terroristi nei villaggi.' Ma Afridi non fece alcun tentativo di ottenere il DNA dai residenti del complesso dove viveva bin Laden. Il rapporto che dice che lo abbia fatto fu inventato di sana pianta: una storia di copertura CIA con invenzione di fatti nel goffo tentativo di proteggere Aziz e la vera missione. ‘Ora assistiamo alle conseguenze’ ha detto il funzionario. 'Un grande progetto umanitario mirato a realizzare qualcosa di significativo per la gente dei villaggi è stato compromesso da una cinica bufala di quel genere’. La condanna di Afridi fu sollevata, tuttavia resta in carcere con l'accusa di omicidio.

*

Nel suo discorso che annunciava il raid, Obama disse che dopo aver ucciso bin Laden i Seal ne presero in custodia il cadavere. L’affermazione ha sollevato dei problemi. Il piano iniziale prevedeva che dopo circa una settimana si sarebbe annunciato che bin Laden era stato ucciso in un attacco drone da qualche parte nelle montagne al confine tra Pakistan e Afghanistan e che i suoi resti erano stati identificati con il test del DNA. Ma con l'annuncio di Obama del raid dei Seal, tutti si aspettavano di veder prodotto un cadavere. Invece, i giornalisti hanno detto che il corpo di Bin Laden era stato condotto dai Seal a un aeroporto militare americano a Jalalabad, in Afghanistan, e poi messo sulla USS Carl Vinson, un supercarrier di pattuglia abituale nel Mar Arabico settentrionale. Bin Laden era stato poi sepolto in mare, poche ore dopo la sua morte. Gli unici punti scettici sollevati dalla stampa nel corso del briefing di John Brennan del 2 maggio ebbero a che fare più che altro con il metodo di sepoltura. Le domande furono brevi e concise, e raramente ottennero una risposta. “Quando e’ stata presa la decisione di seppellire il cadavere in mare? Era questo parte del piano fin dall’inizio? Ci può dire semplicemente perché si è pensato che quella era una buona idea? John, ha consultato un esperto del mondo islamico su questo? Esiste una ripresa video della sepoltura?”. Quando fu posta questa domanda, venne in soccorso di Brennan Jay Carney, l’ addetto stampa di Obama. “Per favore diamo anche ad altri l’opportunità di fare domande?’

 

'Abbiamo pensato che il modo migliore per garantire che il suo corpo ricevesse un giusto funerale islamico’ ha detto Brennan, 'era quello di fare in modo che potesse essere sepolto in mare’. Ha anche detto che furono consultati ‘adeguati specialisti ed esperti', e che ‘l'esercito americano era pienamente in grado di eseguire una sepoltura nel pieno rispetto della legge islamica’. Brennan non ha però menzionato che la legge islamica prevede che il rito di sepoltura sia eseguito in presenza di un imam, e non ci sembra ce ne fossero a bordo della Carl Vinson.

 

In una ricostruzione dell’operazione bin Laden per Vanity Fair, Mark Bowden, che ha parlato con diversi funzionari veterani dell’amministrazione, ha scritto che il corpo di bin Laden è stato lavato e fotografato a Jalalabad. Altre procedure funerarie previste dalla regola Islamica furono eseguite a bordo della nave. ‘Il corpo fu ancora lavato e avvolto in un panno bianco. Un fotografo della Marina ha registrato la sepoltura in piena luce del sole, era la mattina di Lunedì 2 Maggio.

Bowden diede una descrizione delle immagini: una foto mostrava il corpo avvolto in un panno dotato di pesi. Un’altra immagine mostra il corpo obliquo mentre scivola, con la parte dei piedi già fuori della nave; un’altra immagine mostrava il corpo che cade nell’acqua. Un’altra foto ancora mostrava il corpo appena sotto l’acqua e tutto intorno le onde concentriche che vanno verso l’esterno. Nell’ultima immagine appaiono solo i cerchi concentrici nell’acqua.

 

Bowden fu attento nel non dire che aveva visto con i suoi occhi quelle foto, e recentemente mi ha detto che non le aveva viste. ‘Resto sempre deluso quando non riesco a vedere una cosa che mi riguarda, tuttavia ho parlato con persone di cui ho grande fiducia che mi hanno detto di aver visto con i loro occhi e mi hanno dato tutti i dettagli.' Le dichiarazioni di Bowden hanno sollevato ulteriori dubbi circa la presunta sepoltura in mare, che hanno prodotto una marea di istanze appellate al Freedom Of Information Act a cui non è stato dato alcun seguito. Qualcuno ha tentato di avere l’accesso alle fotografie. Il Pentagono ha risposto che da un’approfondita ricerca dei reperti fotografici disponibili, non appariva niente in relazione alla sepoltura. Anche le altre richieste su questioni relative al raid sono rimaste insoddisfatte. Il motivo per la mancanza di risposte è apparso chiaro dopo che il Pentagono ha condotto un’inchiesta sulle accuse rivolte all’amministrazione Obama di aver dato accesso ai documenti classificati ai creatori del film Zero Dark Thirty.   Il rapporto del Pentagono, on-line dal giugno del 2013, mise in chiaro che l'ammiraglio McRaven aveva ordinato la cancellazione di tutti i file relativi al raid da tutti i computer militari e il loro trasferimento alla CIA, dove sarebbero stati criptati e resi indisponibili per qualsiasi istanza del F.O.I.A con l 'eccezione operativa dell’Agenzia’.

 

L'azione di McRaven ha reso impossibile agli esterni avere accesso alle registrazioni non classificate del Carl Vinson. Le registrazioni di bordo sono oggetti sacri nella Marina; sono ben separate e classificate quelle delle operazioni di volo, del ponte, del dipartimento di ingegneria, dell'ufficio medico e delle informazioni di comando e controllo. Esse indicano la sequenza quotidiana degli eventi a bordo della nave; se ci fosse stata una sepoltura in mare a bordo della Carl Vinson, sarebbe nelle registrazioni.

 

Tra i marinai del Carl Vinson non è girata alcuna voce o pettegolezzo circa una sepoltura in mare. La nave ha concluso i suoi sei mesi di missione nel giugno del 2011. Dopo l’ancoraggio della nave nella sua base di Coronado, in California, il contrammiraglio Samuel Perez, comandante del gruppo d'attacco della portaerei Carl Vinson, disse ai giornalisti che all'equipaggio era stato vietato di parlare della sepoltura. Il capitano Bruce Lindsey, comandante della Carl Vinson, disse ai giornalisti che non era in grado di parlarne. Cameron Short, un membro dell'equipaggio, intervistato dal Commercial-News di Danville, Illinois, disse che all’equipaggio non era stato detto niente circa la sepoltura. ‘Tutto quello che sapevo era scritto sui giornali’ riportò il quotidiano.

 

Il Pentagono rilasciò all’Associated Press alcune comunicazioni via mail. In una di esse, il Contrammiraglio Carlo Gaouette riferiva che il servizio di sepoltura era stato eseguito secondo le tradizionali procedure islamiche, e ha detto che a nessuno dei marinai è stato permesso di assistere. Nessuna indicazione tuttavia è stata data su chi gli avesse lavato e avvolto il corpo e su chi avesse ufficiato il rito in arabo.

 

Poche settimane dopo il raid, mi fu detto da due consulenti veterani dello Special Operations Command che avevano accesso a questi dati d’intelligence, che il funerale a bordo non è affatto avvenuto. Uno dei consulenti mi disse i resti del corpo di bin Laden sono stati fotografati e identificati dopo del trasporto in Afghanistan. E ha aggiunto: “A quel punto la CIA prese in carico il corpo”. La ’storia di copertura’ invece diceva che il corpo era stato portato sulla Carl Vinson. 'Anche il secondo consulente disse che a bordo non c’era stata alcuna sepoltura in mare’. E ha aggiunto che 'l'uccisione di Bin Laden non fu che una sceneggiata politica per dare punti a Obama agli occhi dei militari.’

 

I Seal se lo dovevano aspettare quel protagonismo politico. I politici non sanno resistere: bin Laden era diventato uno ‘bene strumentale’. All'inizio di quest'anno, parlando di nuovo con il secondo consulente, ritornai sull’argomento ‘sepoltura in mare’. Il consulente rise e disse: 'Nel senso…se ce l’ha fatta a raggiungere il mare?”

 

Il funzionario in pensione ha detto che c'era stata un'altra complicazione: alcuni membri del team dei Seal si erano vantati con altri colleghi di essere stati proprio loro a fare a pezzi con i mitra il corpo di bin Laden. I resti, tra cui la testa che aveva solo due fori di proiettile, furono messi in un sacco per cadaveri e durante il volo verso Jalalabad alcune di quelle parti del corpo furono gettate sopra le montagne dell'Hindu Kush - o almeno così avrebbero detto i Seal. In quel momento, ha detto il funzionario in pensione, i Seal non pensavano che la loro missione stesse per essere resa pubblica da Obama nel giro di poche ore: 'Se il presidente non se ne fosse uscito con quella storia di copertura, non ci sarebbe stato alcun bisogno di un funerale poche ore dopo l’uccisione’. Una volta raccontata quella storia e una volta resa pubblica la morte di bin Laden, la Casa Bianca ebbe un grosso problema: “Sì, ma il corpo dov’è?” Bel problema. Il mondo ora sa che dei militari americani hanno ucciso bin Laden ad Abbottabad. Il panico. Che fare? Abbiamo bisogno di un "corpo”, dobbiamo essere in grado di dire che abbiamo identificato Bin Laden con l’ analisi del DNA. Sono stati degli ufficiali di Marina a suggerire la storia della sepoltura in mare, un’idea perfetta. Nessun corpo. Sepoltura onorevole secondo la sharia. Tale sepoltura venne resa pubblica in gran dettaglio, ma i documenti informativi che attestavano la sepoltura, che avrebbero dovuto essere disponibili secondo il F.O.I.A., furono negati per motivi di “sicurezza nazionale". E’ il classico dipanamento di una storia di copertura mal costruita, si risolve un problema contingente ma senza un back-up a supporto. Non c’e’ mai stato un piano di sepoltura in mare, e non è avvenuta alcuna sepoltura in mare.   Il funzionario in pensione ha detto che se dobbiamo credere ai primi racconti dei Seal, non rimase molto del corpo di bin Laden da seppellire in mare.

*

Era inevitabile che le bugie, gli errori e le false dichiarazioni da parte dell'amministrazione Obama avrebbero avuto una reazione. 'La nostra fu una collaborazione di quattro anni’, ha detto il funzionario in pensione. 'Ci volle molto tempo prima che i pachistani riacquistassero fiducia in noi per le operazioni di antiterrorismo militare congiunto – e questo proprio mentre il terrorismo stava avendo una nuova escalation in tutto il mondo. Si sono sentiti come se Obama li avesse abbandonati lungo il percorso. Solo ora la stanno recuperando pienamente con la nuova minaccia dell’ISI, che per il Pakistan è ancora più grave; l’evento di bin Laden è troppo lontano nel tempo da spingere un uomo come il Generale Durrani a venir fuori e parlarne’. I Generali Pasha e Kayani ora sono in pensione e su di loro pende un’accusa di corruzione per tutto il tempo in cui sono stati in servizio’.

 

La relazione – fin troppo rimandata - della Commissione del Senato per l’Intelligence sulle torture eseguite dalla CIA nel corso di interrogatori, pubblicata lo scorso dicembre, ha documentato casi di ripetute menzogne ​​ufficiali, indicando anche che la conoscenza da parte della CIA del corriere di bin Laden era, a dir poco, poco chiara; e l’agenzia aveva utilizzato il waterboarding ed altre forme di tortura per interrogarlo. La relazione, pubblicata su tutte le testate internazionali, ha rivelato al mondo in particolare la brutalità del waterboarding, con dettagli raccapriccianti su tubi di alimentazione rettali, bagni di ghiaccio e minacce per stupro o uccisione di familiari di quei detenuti che si riteneva fossero in possesso di informazioni importanti. Nonostante la cattiva pubblicità, la relazione è stata una vittoria per la CIA. Il risultato principale, cioè che l’utilizzo della tortura non conduce necessariamente a scoprire la verità - era già stato oggetto di un dibattito pubblico nei dieci anni precedenti. Un'altra chiave di lettura della relazione, cioè che le torture eseguite sono state ancora più brutali di quanto si sapesse – non fu neanche considerata, data la mole già esistente di accuse e denunce sull’ argomento da parte di ex-agenti in pensione. La relazione ha descritto torture che erano ovviamente contrarie al diritto internazionale come violazioni delle regole o "attività inappropriate" o, in alcuni casi, "carenze gestionali”. Se le azioni descritte costituissero dei crimini di guerra, la cosa non fu discussa, e la relazione non faceva alcun cenno a una possibile incriminazione degli agenti o dei loro superiori in tal senso. La relazione, dunque, non ha rappresentato un gran problema per l’agenzia.

 

Il funzionario in pensione mi ha detto che i vertici della CIA erano divenuti esperti nell’evitare le minacce del Congresso: “Dicono qualcosa di tremendo, ma non poi così tremendo come sembra. Tipo: “Oh, mio Dio, pompavamo il cibo sul per il culo dei detenuti!!! ” Nel frattempo, tacciono sugli omicidi, su altri crimini di guerra, sulle prigioni segrete, come quella che abbiamo ancora a Diego Garcia. Lo scopo era quello di tirarla per le lunghe il più possibile, cosa che hanno fatto.’

 

Il tema principale delle 499 pagine di riepilogo della commissione era che la CIA aveva mentito sistematicamente sull’efficacia del suo programma di interrogatori sotto tortura nell’ottenimento di informazioni d’intelligence utili per scongiurare futuri attacchi terroristici negli Stati Uniti. Le bugie comprendevano anche dettagli sensibili sulla scoperta di un elemento operativo di al Qaeda, tale Abu Ahmed al-Kuwaiti, che si diceva essere il corriere-chiave di al Qaeda, e sul suo successivo monitoraggio ad Abbottabad nel 2011. L’intelligence, la pazienza e l’abilità dell’agenzia nella ricerca e nel monitoraggio di al Kuwaity sono diventati poi un mito con l’uscita del film “Zero Dark Thirty”.

 

Il rapporto del Senato ha sollevato più volte questioni sulla qualità e l'affidabilità dei servizi segreti della CIA circa al-Kuwaiti. Nel 2005 un rapporto interno della CIA relativo alla ricerca di bin Laden osservava che 'i detenuti fornivano piste possibili, e dobbiamo considerare la possibilità che stanno creando personaggi fittizi per distrarci o per escludere una loro conoscenza diretta di bin Laden’. ‘Un cablo della CIA un anno più tardi disse che non avevamo avuto successo nel far emergere elementi certi sul luogo dov’era bin Laden da alcuno dei detenuti’. Il rapporto mise anche in evidenza diversi casi di false dichiarazionI al Congresso e al pubblico da parte di agenti della CIA, tra cui Panetta, circa le modalità delle "tecniche di interrogatorio" adottate nella ricerca dei corrieri di Bin Laden.

 Obama oggi non affronta la rielezione come nella primavera del 2011. La sua posizione di principio nel previsto accordo nucleare con l'Iran dice molto, così come la sua decisione di operare senza il sostegno dei conservatori repubblicani conservatori al Congresso. Le bugie di alto profilo, tuttavia, restano il modus operandi della politica degli Stati Uniti, insieme alle prigioni segrete, agli attacchi dei droni, agli attacchi notturni dei Corpi Speciali, scavalcando ogni catena di comando, e all’eliminazione di chi potrebbe ostacolarli.

Seymour M. Hersh

Vol. 37 No. 10 · 21 Maggio 2015 » Seymour M. Hersh » The Killing of Osama bin Laden

Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di SKONCERTATA63

L'uccisione di Osama Bin Laden (parte prima)

$
0
0

Sono passati quattro anni da quando un gruppo di Navy Seals statunitensi uccise Osama bin Laden in un raid notturno in un edificio di Abbottabad, in Pakistan. L'uccisione fu il momento più importante del primo mandato di Obama e un fattore importante per la sua rielezione. La Casa Bianca oggi continua a sostenere che la missione fu una questione tutta americana e che gli alti generali dell'esercito pachistano e l'agenzia Inter-Services Intelligence (ISI), non furono informati in anticipo del raid. Questo è falso, come lo sono molti altri elementi dell'amministrazione Obama. La storia della Casa Bianca potrebbe essere stata scritta da Lewis Carroll: bin Laden, obiettivo di una massiccia caccia all'uomo internazionale, davvero aveva deciso che una località turistica a 40 miglia da Islamabad sarebbe stata il posto più sicuro dove vivere e da cui coordinare le operazioni di al-Qaeda? Si nascondeva in campagna, ha detto l’America.

Nella foto: festeggiamenti in USA per la morte Bin Laden



La bugia più eclatante è stata che due tra i più importanti leader militari pachistani – il Generale Ashfaq Parvez Kayani, capo del personale dell'esercito, e il generale Ahmed Shuja Pasha, direttore generale dell'ISI - non sono mai stati informati della missione statunitense. Questa rimane la posizione della Casa Bianca, nonostante una serie di rapporti che hanno sollevato diversi dubbi, tra cui uno di Carlotta Gall nel New York Times Magazine del 19 marzo del 2014. Gall, che è stata per dodici anni corrispondente del Times in Afghanistan, scrisse che le era stato detto da un 'funzionario pachistano' che Pasha era già a conoscenza del raid prima che bin Laden andasse ad Abbottabad. La cosa fu negata dai funzionari USA e pachistani, e si andò avanti. Nel suo libro Pakistan: Prima e dopo Osama (2012), Imtiaz Gul, direttore esecutivo del Centro per le ricerche e gli studi sulla sicurezza, un think tank di Islamabad, scrisse che aveva parlato con quattro agenti dei servizi segreti sotto copertura che - confermando un’opinione piuttosto condivisa – sostenevano che l'esercito pachistano era già a conoscenza dell’operazione. La questione fu nuovamente sollevata nel mese di febbraio, quando un generale in pensione, Asad Durrani, che era a capo dell'ISI nei primi anni ’90, disse a un intervistatore di al-Jazeera che era 'molto probabile' che gli alti ufficiali dell’ ISI non sapessero dove era nascosto bin Laden, ‘ma era ancora più probabile invece che lo sapessero’. E l'idea è che, al momento opportuno, la sua posizione sarebbe stata rivelata. E il momento giusto sarebbe stato quando fosse stato possibile avere un’adeguata contropartita – se hai per le mani uno come Osama bin Laden, non lo consegni così su due piedi agli Stati Uniti.

Questa primavera ho contattato Durrani e l’ho informato in dettaglio di quello che avevo saputo sul raid di bin Laden da fonti statunitensi: che bin Laden era stato prigioniero dell’ ISI nel complesso di Abbottabad fin dal 2006; che Kayani e Pasha sapevano in anticipo del raid e avevano fatto in modo che i due elicotteri che trasportavano i Seals ad Abbottabad potessero attraversare lo spazio aereo pachistano senza far scattare alcun allarme; che la CIA non era a conoscenza di dove fosse bin Laden spiando i suoi corrieri, come ha dichiarato la Casa Bianca nel maggio 2011, ma lo seppe da un ex alto funzionario dell'intelligence pachistana che tradì il segreto in cambio di una ricompensa di una grossa parte dei 25 milioni dollari offerti dagli Stati Uniti, e che, mentre fu Obama a ordinare l’attacco e i Seals ad effettuarlo, molti altri dettagli della vicenda sono risultati falsi.

 

'Quando verrà alla luce questa nuova versione dei fatti – quando accadrà - la gente in Pakistan ve ne sarà tremendamente grata,' mi ha detto Durrani. 'Per molto tempo la gente ha smesso di fidarsi di quello che gli raccontano le fonti ufficiali su bin Laden.   Ci sarà anche qualche commento politico negativo e un pò'di rabbia, ma la gente ama che gli si dica la verità, e quello che lei mi dice è proprio quello che ho sentito da ex colleghi che sono stati in missioni di verifica dei fatti relativi a questa vicenda.' in qualità di ex capo dell'ISI, ha detto, poco dopo il raid, gli fu detto da persone nella "comunità strategica" che un informatore aveva avvertito gli Stati Uniti della presenza di bin Laden ad Abbottabad, e che dopo la sua uccisione Kayani e Pasha si sono ritrovati esposti a causa delle promesse non mantenute dagli USA.

 

La fonte americana principale per il racconto che segue è un ex alto funzionario dell'intelligence ben informato sulle operazioni d’intelligence iniziali riguardo alla presenza di bin Laden ad Abbottabad. Era anche a conoscenza di molti aspetti della formazione dei Seals per il raid in questione e dei vari rapporti che avrebbero seguito l’attacco. Altre due fonti statunitensi che avevano accesso alle informazioni di supporto, sono stati per lungo tempo consulenti dello Special Operations Command. Ho anche avuto informazioni dall'interno del Pakistan circa il diffuso sgomento tra i vertici ISI e la leadership militare – come mi disse più avanti Durrani - circa la decisione di Obama di rendere subito pubblica la notizia della morte di bin Laden. La Casa Bianca non rispose alle richieste di commenti.

*

Tutto iniziò nell’ agosto 2010 con un’informatore volontario: un ex alto funzionario dell'intelligence pachistana avvicinò Jonathan Bank, allora capo dell’ unità della CIA presso l'ambasciata degli Stati Uniti a Islamabad. Si offrì di informare la CIA del luogo dove si trovava bin Laden in cambio di quella ricompensa che Washington aveva offerto nel 2001. Gli informatori volontari la CIA di solito non li considera molto affidabili, e la risposta dalla sede dell'agenzia fu quella di usare il test con il poligrafo. Il test fu superato. ‘Ora abbiamo un vantaggio su bin Laden: vive in un complesso ad Abbottabad: ma come facciamo a identificarlo con precisione?’ In quel momento era quella la principale preoccupazione della CIA, mi ha detto il funzionario dell’intelligence statunitense in pensione.

 

Inizialmente gli Stati Uniti tennero per buono quello che avevano saputo dai pachistani. 'Il timore era che se fosse stata rivelata l'esistenza di una fonte informata, gli stessi pachistani avrebbero fatto trasferire bin Laden in un'altra località. Quindi solo un piccolo numero di persone fu portato a conoscenza della fonte e dei fatti’. ‘Primo obiettivo della CIA fu quello di verificare la qualità delle informazioni dell'informatore.' Il complesso fu messo sotto sorveglianza satellitare. La CIA affittò una casa ad Abbottabad da utilizzare come base di osservazione facendola occupare da suoi impiegati pachistani e stranieri. Più tardi, la base sarebbe stata utilizzata come punto di contatto con l'ISI; attirò poca attenzione perché Abbottabad è un luogo di vacanza ricco di case per affitti stagionali. Il profilo psicologico dell’ informatore era pronto. (L'informatore e la sua famiglia erano stati fatti uscire dal Pakistan e trasferiti nella zona di Washington. Ora è consulente della CIA).

 

Ad ottobre, la comunità militare e l’ intelligence stavano discutendo le possibili opzioni militari. ‘Dobbiamo sganciare una bomba sul complesso o portarlo fuori con un attacco drone? O mandare lì qualcuno ad ucciderlo, in stile ‘assassino misterioso isolato’? Ma in questo modo non avremmo avuto alcuna prova di chi fosse ', ha detto il funzionario in pensione. 'Abbiamo visto qualcuno che di notte camminava nel complesso, ma non abbiamo alcuna intercettazione perché il complesso era isolato dalle comunicazioni’.'

 

Nel mese di ottobre, Obama fu informato dell’intelligence in corso. La sua risposta fu cauta, mi ha detto il funzionario in pensione. 'Semplicemente non aveva senso che bin Laden fosse ad Abbottabad. Sarebbe stata una follia. La posizione del presidente fu enfatica: “Non parlatemene più se non avete la prova che sia davvero Bin Laden" 'L'obiettivo immediato dei vertici CIA e del Joint Special Operations Command fu quello di ottenere il sostegno di Obama. Credevano di poterlo ottenere con una prova del DNA, e se gli avessero garantito che un assalto notturno non avrebbe comportato alcun rischio. L’unico modo per ottenere entrambe le cose’ mi ha detto il funzionario in pensione ‘era quello di far entrare in gioco i pachistani’.

 

Nel tardo autunno del 2010, gli USA continuavano a tacere sull’informatore, e Kayani e Pasha continuavano a insistere con le loro controparti americane che sapevano bene dove si trovasse bin Laden. 'Il passo successivo fu quello di capire come facilitare Kayani e Pasha – se dirgli, cioè, che avevamo i mezzi per poter dimostrare che nel complesso c’era un bersaglio di alto livello e farci dire da loro cosa sapevano di lui’.Il complesso non era un presidio armato: non c’erano mitragliatrici intorno perché era sotto il controllo ISI.' L’informatore aveva detto negli Stati Uniti che bin Laden era vissuto inosservato dal 2001 al 2006 con alcune delle sue mogli e dei suoi figli sulle montagne dell’Indu Kush, e che l’ISI seppe di lui pagando alcuni indigeni locali inducendoli a tradirlo. (Un rapporto posteriore al raid diceva che in quel periodo si trovava altrove in Pakistan.) L’informatore disse a Bank che Bin Laden era molto malato, e che all'inizio della sua prigionia a Abbottabad, l'ISI aveva ordinato ad Amir Aziz, maggiore e medico dell'esercito pachistano, di recarsi lì sul posto e fornire le adeguate cure. ‘La verità è che bin Laden era un invalido, ma non si può dire’ ha detto il funzionario in pensione. “E che vuoi dire ai ragazzi che vanno a sparare a uno storpio? Chi stavano andando a prendere quelli del suo AK-47?”

 

'Non ci volle molto per ottenere la collaborazione di cui avevamo bisogno, perché i pachistani volevano assicurarsi la continuità degli aiuti militari americani, buona parte dei quali erano finanziamenti anti-terrorismo destinati alla sicurezza personale, come ad esempio limousine a prova di proiettile, guardie di sicurezza e abitazioni per i leader di ISI’, ha detto il funzionario in pensione. Ha aggiunto anche che ci sono stati anche incentivi personali ‘sottobanco’ finanziati con i fondi di emergenza del Pentagono. 'La comunità di intelligence sapeva quello di cui avevano bisogno i pachistani e quello per cui avrebbero accettato: in altri termini, c’era la carota. E hanno scelto la carota. E’ stato reciprocamente vantaggioso. E gli abbiamo fatto anche un piccolo ricatto. Gli abbiamo detto che avremmo tenuto la bocca chiusa sul fatto che avessero bin Laden nel loro territorio. Sapevamo bene chi erano i loro nemici e amici: ai talebani e e ai gruppi jihadisti in Pakistan e Afghanistan 'non sarebbe piaciuto'.

 

Un elemento preoccupante in questa fase iniziale, secondo il funzionario in pensione, era l'Arabia Saudita, che aveva finanziato il trattenimento di bin Laden dopo il suo sequestro dai pachistani. 'I sauditi non volevano che fosse rivelata la presenza di bin Laden perché era un saudita, e così hanno detto ai pachistani di cucirsi la bocca. I sauditi temevano che, se noi ne fossimo stati a conoscenza, avremmo fatto pressione sui pachistani perchè bin Laden iniziasse a dirci qualcosa su quello che i sauditi avevano fatto con al-Qaeda. E ne avevano spesi di soldi – tanti, ma tanti soldi. I pachistani, a loro volta, si preoccupavano che i sauditi potessero vuotare il sacco sul loro controllo di bin Laden. Il timore era che se gli Stati Uniti avessero scoperto qualcosa su bin Laden da Riyadh, sarebbe scoppiato l'inferno. Gli americani che venivano a sapere di bin Laden da un informatore volontario? In fondo non era la cosa peggiore’.

 

Nonostante le loro continue faide pubbliche, i servizi militari e di intelligence americani e pachistani hanno lavorato per decenni a stretto contatto per l’anti-terrorismo nell’Asia meridionale. Entrambi i servizi trovano spesso utile impegnarsi in faide pubbliche 'per salvare la faccia’, come ha detto il funzionario in pensione, pur condividendo costantemente le loro intelligence per gli attacchi droni e le operazioni segrete. Allo stesso tempo, Washington sapeva bene che gli elementi dell’ ISI ritenevano essenziale per la sicurezza nazionale il mantenimento di un rapporto con la leadership talebana in Afghanistan.   Obiettivo strategico dell’ ISI è quello di bilanciare l'influenza indiana a Kabul; i talebani in Pakistan sono visti anche come utili fornitori per le truppe d'assalto jihadiste che sarebbero al fianco del Pakistan contro l'India in un confronto sul Kashmir.

 

A far salire la tensione c’era l'arsenale nucleare pachistano, spesso raffigurato dalla stampa occidentale come una 'bomba islamica' che poteva essere trasferita dal Pakistan ad un paese del Medio Oriente in caso di crisi con Israele. Gli Stati Uniti hanno chiuso un occhio quando il Pakistan nel 1970 iniziò a costruire il suo sistema di armi, e oggi si ritiene possa avere più di un centinaio di testate nucleari. Washington sa che la sicurezza degli Stati Uniti dipende dal mantenimento di forti legami militari e di intelligence con il Pakistan. E anche il Pakistan sa la stessa cosa.

 

'L'esercito pachistano si considera come una famiglia’ ha detto il funzionario in pensione. 'Gli ufficiali chiamano soldati i loro figli e tutti i funzionari "fratelli". L'atteggiamento è diverso nel campo militare americano. Gli alti ufficiali pachistani credono di essere l'elite e sentono di dover proteggere tutti gli altri, come se fossero i custodi della sacra fiamma che combatte il fondamentalismo islamico. I pachistani sanno anche che la loro carta vincente in caso di aggressione da parte dell’India è un forte rapporto con gli Stati Uniti. Non taglieranno mai i loro legami con noi’.

 

Come tutti i capi della CIA, Bank stava lavorando sotto copertura, ma ciò si concluse all'inizio di dicembre 2010, quando fu pubblicamente accusato di omicidio con una denuncia penale presentata a Islamabad da Karim Khan, un giornalista pachistano il cui figlio e fratello, secondo le notizie locali, erano stati uccisi da un drone statunitense. Rivelare pubblicamente il nome di Bank fu una violazione del protocollo diplomatico da parte delle autorità pachistane, e portò a un’ ondata di pubblicità indesiderata. La CIA ordinò a Bank di lasciare il Pakistan; successivamente funzionari CIA dissero all’ Associated Press che era stato trasferito perché si temeva molto per la sua sicurezza. Il New York Times riferì che c'erano ‘forti sospetti’ che c’era lo zampino dell’ISI nella rivelazione del nome di Bank a Khan. C’erano speculazioni che si trattasse di una ‘vendetta’ per la pubblicazione, in una vertenza giuridica di un mese prima a New York, dei nomi dei leader dell’ISI in connessione con gli attentati di Mumbai del 2008. Ma la CIA aveva anche un altro motivo per voler richiamare Bank in America: la necessità per i pachistani di avere una copertura nel caso fosse stata resa nota la loro collaborazione con gli Stati Uniti nel tentativo di sbarazzarsi di bin Laden. I pachistani potrebbero dire: “Parlate di noi? Ma se abbiamo appena cacciato il vostro capo di zona!”

*

Il complesso dov’era bin Laden era a meno di due miglia dalla Pakistan Military Academy, e a un altro miglio circa da un battaglione da combattimento dell'esercito pachistano. Abbottabad è a meno di 15 minuti in elicottero da Tarbela Ghazi, un’importante base per le operazioni segrete ISI e per l’addestramento delle unità che custodiscono l’arsenale di armi nucleari del Pakistan. 'Ghazi è il principale motivo per cui l'ISI ha mandato bin Laden ad Abbottabad’ ha detto il funzionario in pensione, ‘per tenerlo costantemente sotto controllo’.

 

In questa fase iniziale i rischi per Obama erano elevati, soprattutto perché c'era un precedente preoccupante: il tentativo fallito nel 1980 di salvare gli ostaggi americani a Teheran. Questo fallimento contribuì alla perdita di J. Carter contro Reagan. Le preoccupazioni di Obama erano realistiche, ha detto il funzionario in pensione. 'Era sempre lì bin Laden? O si trattava solo di un inganno prodotto dai pachistani? E in caso di fallimento, quale sarebbe stata la risposta politica?’. ‘Dopo tutto, se la missione fallisce, Obama non sarà che un Jimmy Carter nero e addio rielezione.’

 

Obama era in ansia per la conferma che quell’uomo fosse davvero bin Laden. La prova doveva essere il DNA di bin Laden. I responsabili chiesero aiuto a Kayani e Pasha, che a loro volta chiesero aiuto ad Aziz per ottenere i campioni necessari. Subito dopo il raid la stampa scoprì che Aziz aveva abitato in una casa vicina al complesso di bin Laden: i giornalisti locali videro il suo nome in Urdu su una targa appesa alla sua porta. I funzionari pachistani negarono che Aziz avesse avuto alcun legame con bin Laden, ma il funzionario in pensione mi ha detto che Aziz aveva ricevuto una parte del ‘premio’ di 25 milioni di dollari offerto dagli Stati Uniti, perché un campione di DNA dimostrasse in modo inconfutabile che quello ad Abbottabad fosse davvero bin Laden. (In una sua successiva testimonianza ad una commissione pachistana che indagava sul raid di bin Laden, Aziz disse di aver assistito al raid di Abbottabad, ma di non sapere precisamente chi abitasse nel complesso; inoltre un suo ufficiale superiore gli aveva dato ordine di tenersi a distanza dalla scena).

 

Seguirono contrattazioni sul modo in cui doveva svolgersi la missione. 'Kayani finalmente diede il suo assenso, ma disse anche che non doveva esserci una grande forza d'attacco. Doveva essere con poche unità. E bisognava ucciderlo, altrimenti niente accordo’, ha detto il funzionario in pensione. L'accordo fu raggiunto alla fine di gennaio 2011, e il Joint Special Operations Command preparò un elenco di domande a cui i pachistani dovevano rispondere: 'Come possiamo essere certi che non ci sarà alcun intervento esterno? Quali sono le difese all'interno del complesso e le sue esatte dimensioni? Dove sono le camere di bin Laden e quanto sono grandi esattamente? Quanti gradini di scale ci sono? Dove sono le porte delle sue stanze, sono blindate? Di che spessore sono?’. I pachistani decisero di consentire un’unità americana di quattro uomini – un Navy Seal, un agente della CIA e due specialisti di comunicazioni - e di istituire un ufficio di collegamento per l’attacco a Tarbela Ghazi. I militari, nel frattempo, avevano costruito un plastico del complesso di Abbottabad in un sito dismesso di test nucleari nel Nevada, e una squadra d'elite Seal aveva iniziato le prove del raid.

 

Gli Stati Uniti avevano cominciato a tagliare gli aiuti al Pakistan - a 'stringere i rubinetti’, secondo le parole del funzionario in pensione. La fornitura di 18 nuovi aerei caccia F-16 era in ritardo, e i pagamenti sottobanco ai capi maggiori erano stati sospesi. Nell'aprile del 2011, Pasha incontrò il direttore della CIA, Leon Panetta, presso la sede dell'agenzia. 'Pasha ottenne l’impegno che gli Stati Uniti avrebbero fatto ripartire il denaro e noi ottenemmo la garanzia che non ci sarebbe stata alcuna opposizione pachistana durante la missione,' ha detto il funzionario in pensione. 'Pasha insistette anche sul fatto che Washington smettesse di lamentarsi per la scarsa cooperazione pachistana nella guerra americana al terrorismo.’ A un certo punto, in quella primavera, Pasha diede agli americani una spiegazione un po’ ammorbidita del motivo per cui il Pakistan continuava a tenere segreta la cattura di bin Laden, e sul perché fosse fondamentale che il ruolo di ISI che restasse un segreto: ‘Avevamo bisogno di un ostaggio per tenere sotto controllo al-Qaeda e i Talebani,' disse Pasha’, racconta il funzionario in pensione. 'L'ISI stava usando bin Laden come leva contro le attività dei talebani e di al Qaeda in Afghanistan e Pakistan. Fecero sapere ai talebani e ai leader di al Qaeda che se avessero condotto delle operazioni in contrasto con gli interessi della ISI, ci avrebbero consegnato bin Laden. Quindi, se fosse stato rivelato che i pachistani avevano collaborato con noi per mettere le mani su bin Laden ad Abbottabad, si sarebbe scatenato l’inferno’.

 

In uno dei suoi incontri con Panetta, secondo il funzionario in pensione e una fonte interna della CIA, un alto funzionario CIA chiese a Pasha se lui si considerasse un agente di al Qaeda o dei Talebani. Rispose di no, ma disse che l'ISI aveva bisogno di un certo controllo.' Il messaggio, secondo la CIA, era che Kayani e Pasha vedevano bin Laden 'come una risorsa, ed erano più interessati alla propria sopravvivenza che agli Stati Uniti '.

 

Un pachistano con stretti legami con i dirigenti di ISI mi disse che c'era un affare in corso con i vostri pezzi grossi’. Eravamo molto riluttanti, ma andava fatto, non per arricchimento personale, ma perché tutti i programmi di aiuti americani sarebbero stati tagliati. I vostri ci dissero che se non lo facevamo saremmo morti di fame, e l’ok fu dato quando Pasha era a Washington. L'accordo non era solo per tenere aperti i ‘rubinetti’, ma a Pasha fu detto che c’erano anche altri ‘premi’ per noi.’   'Il pachistano disse che la visita di Pasha portò anche a un impegno da parte degli Stati Uniti di dare al Pakistan più mano libera in Afghanistan mentre iniziava il ritiro delle truppe’. ‘E così i nostri pezzi grossi hanno giustificato l’accordo dicendo che…era per il bene del nostro paese.'

*

Pasha e Kayani erano incaricati di assicurare che il comando dell’esercito e dell’aviazione pachistani non intercettassero/ostacolassero gli elicotteri americani impegnati nella missione. La cellula americana a Tarbela Ghazi avrebbe coordinato le comunicazioni tra ISI, gli alti ufficiali degli Stati Uniti dal loro posto di comando in Afghanistan e i due elicotteri Black Hawk; l'obiettivo era quello di garantire che nessun aereo da caccia di ricognizione sul confine intercettasse l’intrusione e l’arrestasse. Il piano iniziale stabilì che la notizia del raid non doveva essere data subito. Tutte le unità del Joint Special Operations Command operano in grande segreto e i leader del JSOC pensava, come anche Kayani e Pasha, che l’uccisione di Bin Laden non sarebbe stata resa pubblica se non dopo sette giorni, forse anche più. In seguito sarebbe stata resa pubblica una storia di copertura: Obama avrebbe annunciato che un’ analisi del DNA confermava che bin Laden era stato ucciso in un raid drone nella zona dell’ Hindu Kush, in territorio afgano. Gli americani che avevano progettato la missione assicurarono Kayani e Pasha che la loro collaborazione non sarebbe mai stata resa pubblica.  Tutti erano d’accordo che se si fosse scoperto il ruolo del Pakistan nella vicenda, ci sarebbero state violente proteste – bin Laden per molti pachistani era un eroe -, Pasha e Kayani e le loro famiglie sarebbero stati in pericolo e l'esercito pachistano si sarebbe pubblicamente disonorato.

 

A questo punto era chiaro a tutti, ha detto il funzionario in pensione, che bin Laden non sarebbe sopravvissuto: 'In una riunione nel mese di aprile Pasha ci disse che non poteva rischiare di lasciare bin Laden nel complesso, e che ora sapevamo che era lì. Troppe persone nella catena di comando pachistano erano a conoscenza della missione. Lui e Kayani dovettero raccontare la storia per filo e per segno ai capi del comando di difesa aerea e ad alcuni altri ufficiali locali.’

 

'Naturalmente i ragazzi sapevano che il bersaglio era bin Laden e che lui era sotto il controllo del Pakistan,’ ha detto il funzionario in pensione. 'In caso contrario, non avrebbero svolto la missione senza copertura aerea. Era chiaramente ed assolutamente un omicidio premeditato. Un ex ufficiale dei Seal, che nel corso degli ultimi dieci anni ha guidato e partecipato a dozzine di missioni simili, mi ha assicurato che non c’era alcuna intenzione di tenere in vita bin Laden – di consentire cioè a quel terrorista di vivere. Secondo la legge pachistana, quello che stavamo per fare era un omicidio. Ne eravamo coscienti: quando facciamo queste missioni, ognuno di noi dice a se stesso ‘ok, accettiamolo, stiamo per commettere un omicidio’. Il racconto iniziale della Casa Bianca disse che bin Laden era stato ucciso mentre brandiva un’arma; questa versione era intesa a far svanire ogni dubbio sulla legalità della missione. Gli Stati Uniti hanno sempre sostenuto, nonostante le osservazioni segnalate da persone coinvolte nella missione, che bin Laden sarebbe stato preso vivo se si fosse subito arreso.

*

Intorno al complesso di Abbottabad furono piazzate 24 ore al giorno delle guardie ISI per sorvegliare bin Laden, le sue mogli e i suoi figli.   Avevano l’ordine di lasciare il posto non appena avessero sentito il rumore degli elicotteri americani. La città era buia: la fornitura di energia elettrica era stata tagliata dall’ISI qualche ora prima che avvenisse il raid. Uno dei Black Hawk si schiantò all'interno delle mura del complesso, ferendo molti a bordo. “I ragazzi sapevano che il TAT (TempoAlBersaglio) doveva essere stretto perché altrimenti avrebbero svegliato tutta la città’ “ ha detto il funzionario in pensione. La cabina di guida del Black Hawk che si era schiantato ha dovuto essere distrutto con granate assordanti, e questo causò una serie di esplosioni e un fuoco visibile per miglia. Due elicotteri Chinook erano in volo dall'Afghanistan verso una vicina base segreta pachistana per fornire supporto logistico, e uno di loro fu subito mandato ad Abbottabad. Ma poiché l'elicottero era stato dotato di un serbatoio supplementare di carburante per i due Black Hawk, in primo luogo il mezzo doveva essere riconfigurato come trasporto truppe. Lo schianto del Black Hawk e la necessità di volare con un mezzo sostitutivo fu snervante e causò diverse battute d’arresto. Ma i Seal continuarono nella loro missione. Non ci fu scontro a fuoco mentre si muovevano nel complesso; le guardie ISI erano andate via. 'Tutti in Pakistan hanno una pistola e la gente più ricca e di più alto profilo ad Abbottabad ha sempre delle guardie del corpo armate, tuttavia nel complesso non c’erano armi,’ ha sottolineato il funzionario in pensione. Se ci fosse stata opposizione, la squadra sarebbe stata altamente vulnerabile. Invece, ha detto sempre il funzionario in pensione, un ufficiale di collegamento ISI che volava con i Seal li guidò nella casa buia e su per una scala fino alle stanze di bin Laden. I Seal erano stati avvertiti dai pachistani che avrebbero trovato delle grosse porte d'acciaio che bloccavano l’accesso alle scale che portavano ai pianerottoli del primo e secondo piano; le stanze di bin Laden erano al terzo piano. La squadra Seal utilizzò degli esplosivi per far saltare le porte, senza ferire nessuno. Una delle mogli di bin Laden iniziò a urlare istericamente e una pallottola – forse vagante – le colpì il ginocchio. Oltre ai colpi sparati a bin Laden, non fu sparato alcun altro colpo. (La versione resa dall’amministrazione Obama avrebbe detto diversamente).

 

'Sapevano dov’era l'obiettivo - terzo piano, seconda porta a destra,' ha detto il funzionario in pensione. 'Proseguirono dritti. Osama bin Laden si rannicchiò in un angolo della sua stanza da letto. Due tiratori lo seguirono e fecero fuoco. Molto semplice, tutto molto semplice e professionale.’ Alcuni dei Seal rimasero sconvolti quando la Casa Bianca insistette perché si dicesse che avevano sparato a bin Laden per legittima difesa, ha detto il funzionario in pensione. 'Sei Seal, tra i più esperti, che devono difendersi da un uomo anziano disarmato??’ La casa era squallida e bin Laden viveva in una vera e propria cella, con le sbarre alle finestre e il filo spinato sul tetto. Le regole d'ingaggio erano che se Bin Laden avesse fatto qualsiasi opposizione erano autorizzati ad azioni letali. Ma se avessero sospettato che avesse addosso qualche mezzo di difesa, come un giubbotto esplosivo sotto il mantello, dovevano ucciderlo. Quindi, ecco questo tizio coperto da un mantello sospetto...e gli sparano, e non perché stava per brandire un’arma. Le regole davano loro il potere assoluto di uccidere l’uomo. 'La dichiarazione successiva della Casa Bianca che solo uno o due colpi sono stati sparati alla testa erano tutte stronzate’ ha detto il funzionario in pensione. 'La squadra ha aperto la porta, è entrata e lo ha cancellato’. Come dicono i Seal: “Gli abbiamo fatto il culo”.

 

Dopo aver ucciso bin Laden, i Seal erano lì, alcuni con ferite dalla caduta precedente, in attesa dell’elicottero di soccorso. ‘Venti minuti di tensione, il Black Hawk stava ancora bruciando. La città era buia, non c’era elettricità, non c’era polizia. Nessun camion dei pompieri. Non avevano prigionieri. Mogli e figli di Bin Laden furono lasciati all’ISI perché fossero interrogati e rilocati’. 'Nonostante tutti i discorsi,' ha continuato il funzionario in pensione, ‘non ci sono stati i soliti sacchi della spazzatura pieni di computer e dispositivi di archiviazione da portare via. I ragazzi hanno solo preso dei libri e giornali qua e là nella stanza e se li sono messi negli zaini. I Seal non erano lì perché sapevano che bin Laden comandava da quel posto le operazioni di al Qaeda - come avrebbe detto dopo la Casa Bianca ai mezzi d’informazione. E non erano esperti d’intelligence in grado di raccogliere le informazioni da quella casa’.

 

In una normale missione di assalto, ha detto il funzionario in pensione, non si sarebbe atteso un altro elicottero se l’altro si fosse schiantato giù. ‘ I Seal avrebbero terminato la missione, buttato fuori le loro armi e gli attrezzi, e si sarebbero stretti nel restante Black Hawk e di-di-maued' - lo slang vietnamita per ‘fuggire via di corsa’. Via, via di lì, magari con alcuni dei ragazzi appesi fuori dall’elicottero. – ‘Fuori di lì, con i ragazzi appesi fuori dalle porte dell’elicottero. Nessuna attrezzatura poteva mai valere più di una vita umana – a meno che non sapessero di essere già al sicuro. E invece erano lì, tranquilli, fuori dal complesso, in attesa della ‘corriera’ che li riportava a casa… ‘Pasha e Kayani avevano mantenuto tutte le loro promesse’.

*

Non è appena è stato chiaro che la missione era riuscita, sono iniziate le discussioni all’ interno della Casa Bianca. Il cadavere di bin Laden doveva essere già in viaggio per l’Afghanistan. Obama doveva mantenere l’accordo preso con Kayani e Pasha e rivelare, solo dopo una settimana, che bin Laden era stato ucciso da un attacco drone in montagnia, o doveva dichiararlo subito? L'elicottero abbattuto ha reso più facile ai consiglieri politici di Obama di optare per la seconda ipotesi. Sarebbe stato impossibile nascondere un’esplosione a palla di fuoco, e prima o poi la cosa sarebbe venuta fuori. Obama ha dovuto far uscire la storia prima che lo facesse qualcun altro dal Pentagono. Aspettare avrebbe diminuito l’impatto politico della dichiarazione.

 

Non tutti erano d'accordo. Robert Gates, il segretario alla Difesa, è stato molto più esplicito di chi insisteva sul fatto che gli accordi con il Pakistan andavano mantenuti. Nel suo libro di memorie, ‘Dovere’, Gates non nasconde la sua rabbia: prima di separarci e prima che il presidente si dirigesse verso il primo piano per dare l’annuncio al popolo americano di quello che era appena accaduto, ho ricordato a tutti che le tecniche, le tattiche e le procedure che i Seal avevano seguito nella missione bin Laden, erano utilizzate ogni notte in Afganistan. Era quindi essenziale che fossimo d’accordo di non rilasciare alcun dettaglio operativo del raid. Dovevamo solo dire che l’avevamo ucciso, punto e basta. Nella stanza tutti si mostrarono d’accordo di tenere la bocca chiusa sui dettagli dell’azione. Questo accordo e’ durato cinque ore. Le prime fuoriuscite di notizie partirono dalla Casa Bianca e dalla CIA. Evidentemente, non vedevano l’ora di vantarsene e di rivendicarne il merito. Alcuni dettagli erano anche sbagliati, ma le notizie iniziarono a diffondersi. Ero furioso e a un certo punto ho detto al consigliere per la sicurezza nazionale, Tom Donilon, “Perché tutti non chiudono quella cazzo di bocca???” Ma fu inutile.

 

Il discorso di Obama fu arrangiato in fretta e furia, ha detto il funzionario in pensione, e i suoi consiglieri lo hanno considerato un documento politico, non un messaggio che doveva essere prima sottoposto al vaglio della burocrazia della sicurezza nazionale. Quelle dichiarazioni opportunistiche e poco precise avrebbero creato il caos nelle settimane successive. Obama disse che la sua amministrazione aveva scoperto che bin Laden era in Pakistan lo scorso agosto, seguendo 'una buona pista’. Molti nella CIA lo interpretarono come un evento preciso, ad esempio un informatore. Tale osservazione condusse ad una nuova storia di copertura, secondo cui i brillanti analisti della CIA avevano smascherato una rete di corrieri che trasportavano i continui flussi di ordini operativi di al Qaeda. Obama fece anche un elogio a quella 'piccola squadra di americani' per la loro cura nell'evitare morti civili, e disse: 'Dopo uno scontro a fuoco, hanno ucciso Osama bin Laden e hanno preso in custodia il suo corpo', altri due dettagli importanti che andavano ad arricchire la storia di copertura: la descrizione di uno scontro a fuoco che non era mai avvenuto e la storia di quello che ne era stato del cadavere. Obama continuò a lodare i pachistani: ‘E' importante sottolineare che la nostra collaborazione di antiterrorismo con il Pakistan ha molto contribuito a portarci fino a bin Laden e al complesso dove viveva’. Tale dichiarazione ha rischiato di esporre Kayani e Pasha. La soluzione della Casa Bianca è stata quella di ignorare quello che Obama aveva detto, senza insistere o approfondire il fatto che i pachistani avevano avuto un qualche ruolo nell’uccisione di bin Laden. Obama ha dato l’impressione che lui e i suoi consiglieri non sapessero con certezza che bin Laden era ad Abbottabad, ma di avere solo informazioni su ‘una buona probabilità’ dei fatti. Questo ha portato prima alla storia che i Seal avevano determinato che si trattasse dell’uomo giusto dalla sua altezza (circa sei piedi, e si sapeva che bin Laden fosse alto sei piedi e 4 pollici). E poi all’ affermazione che sul cadavere era stato eseguito il test del DNA, dimostrando in modo certo che i Seal avevano ucciso proprio bin Laden. Ma, secondo il funzionario in pensione, dai primi resoconti non era chiaro se proprio tutto il corpo di bin Laden (oppure niente di esso) fosse in viaggio di ritorno in Afghanistan.

 

Gates non fu l’unico a lamentarsi del fatto che Obama aveva parlato senza verificare in anticipo con chi di dovere il contenuto delle sue dichiarazioni, ma fu l’unico a protestare apertamente. Obama non ha scavalcato solo Gates, ha scavalcato tutti. E non era la classica incertezza del tempo di guerra: il fatto è che c’era un accordo con i pachistani e nessuna analisi contingente di quello che doveva o non doveva essere divulgato se qualcosa fosse andato storto. Niente di tutto questo era stato discusso in precedenza. E una volta andato storto, hanno dovuto inventarsi una storia in fretta e furia. ‘C’era un motivo legittimo per un po’ d’inganno: il ruolo del Pakistan doveva essere protetto’.

All’ufficio stampa della Casa Bianca fu detto in un briefing successivo all’annuncio di Obama che ‘la morte di bin Laden era il culmine di anni di un attento e sofisticato lavoro d’intelligence, concentrato sul monitoraggio di un gruppo di corrieri, tra cui uno che era noto essere vicino a bin Laden’. Ai giornalisti fu detto che una squadra di esperti analisti CIA e della NSA avevano rintracciato il corriere presso il lussuoso complesso di Abbottabad. Dopo mesi di osservazione, la comunità d’intelligence americana era giunta a 'forti convinzioni’ che in quel complesso doveva vivere un elemento di alto profilo, e fu ritenuto che c’erano buone probabilità che si trattasse proprio di Osama bin Laden; che la truppa d’assalto degli Stati Uniti ha avuto uno scontro a fuoco entrando nel complesso, e tre individui maschi adulti – di cui due probabilmente corrieri – sono rimasti uccisi, insieme a bin Laden. Alla domanda se bin Laden si era difeso, uno degli speaker ha detto di sì: “Ha cercato di resistere, è stato ucciso in uno scontro a fuoco’.

 

Il giorno dopo, John Brennan, allora consigliere di Obama per l'antiterrorismo, ebbe il compito di risollevare l’immagine di Obama tentando di appianare le inesattezze contenute nel discorso. Brennan ci ha fornito un resoconto più dettagliato del raid e della sua pianificazione, tuttavia ugualmente fuorviante. Parlando a verbale, cosa che fa raramente, Brennan ha detto che la missione è stata effettuata da un gruppo di Navy Seals incaricato di prendere bin Laden vivo, se possibile. Ha detto che gli Stati Uniti avevano informazioni che suggerivano che tutti nel governo e tra i militari pachistani sapessero dove era bin Laden. ‘Non abbiamo preso contatto con i pachistani finché non siamo stati certi che tutti i nostri aerei fossero fuori dallo spazio aereo pachistano’. Ha sottolineato il coraggio della decisione di Obama di ordinare l’attacco e ha anche detto che la Casa Bianca non ha avuto informazioni a conferma che bin Laden fosse realmente nel complesso fino a che il radi non avesse inizio. Obama, ha detto, 'ha fatto quello che ritengo sia stata una delle mosse più coraggiose di qualsiasi altro presidente di memoria recente. Brennan ha aumentato a cinque il numero delle persone uccise dai Seal all'interno del complesso: bin Laden, un corriere, suo fratello, un figlio di bin Laden e una delle donne che pare abbia cercato di proteggere bin Laden.

Alla domanda se bin Laden avesse sparato ai Seals, come era stato detto ad alcuni giornalisti, Brennan ha ripetuto quello che sarebbe diventato un mantra della Casa Bianca: 'E' stato impegnato in uno scontro a fuoco con quelli che erano entrati nella casa. Cosa fece esattamente non si sa…comunque, ecco bin Laden, nascosto lontano dal fronte, circondato da donne che lo servono e che gli fanno anche da scudo umano…tutto questo ci fa comprendere la natura dell’uomo’.

 

Gates ha anche contestato l'idea, caldeggiata da Brennan e Leon Panetta, che l'intelligence statunitense fosse riuscita ad ottenere informazioni su dove si trovasse bin Laden ricorrendo al waterboarding o altre forme di tortura. ‘Tutto questo accade mentre i Seals stanno tornando a casa. I ragazzi dell’agenzia sanno bene come è andata la storia’ ha detto il funzionario in pensione. ‘E' stato un gruppo di annuitants’ (Annuitants – funzionari CIA in pensione che rimangono attivi sul contratto). Sono stati chiamati da qualcuno dei responsabili della missione per dare un loro contributo nell’elaborare la ‘storia di copertura’. Ecco che arrivano questi veterani e dicono: ‘Ok, ammettiamo pure che siano riusciti ad ottenere le informazioni attraverso un interrogatorio un po’ forzato…e allora?”   Finora non è corsa nessuna voce di possibili accuse contro agenti CIA per il ricorso a forme di tortura negli interrogatori.

 

'Gates disse loro che non avrebbe funzionato,' ha detto il funzionario in pensione. 'Non è mai stato parte della squadra. Sapeva che al termine della sua carriera non avrebbe fatto parte di quell’assurdità’. Ma lo Stato Federale, l’Agenzia ed il Pentagono erano d’accordo su quella ‘storia di copertura’. Nessuno dei Seal si immaginava che Obama stava per apparire alla televisione nazionale e annunciare il raid. Il comando delle forze speciali ne fu sconvolto. Erano molto fieri e gelosi della loro sicurezza operativa. C’era il timore, ha detto il funzionario in pensione, che 'se fosse trapelata la vera storia della missione, la Casa Bianca non avrebbe esitato a dare la colpa ai Navy Seal’.

 

La soluzione della Casa Bianca era quella di mettere a tacere i Seal. Il 5 maggio, tutti i membri della missione erano tornati alla loro base nel sud della Virginia - e ad alcuni superiori del Joint Special Operations Command fu dato un documento in cui la Casa Bianca li diffidava (pena sanzioni civili e penali) dal divulgare pubblicamente – e privatamente - notizie e dettagli sull’operazione appena conclusa. ‘I Seal non ne furono contenti’ ha detto il funzionario in pensione. Ma la maggior parte di loro rispettarono il silenzio, come fece l'ammiraglio William McRaven, che allora era a capo del JSOC. 'McRaven ne fu sconvolto. Sapeva che era una fregatura della Casa Bianca. Ma lui era un vero ‘Seal’, non un politico; sapeva che non ci sarebbe stata alcuna gloria nell’ andare contro il Presidente. Quando Obama annunciò pubblicamente la morte di bin Laden, tutti poi avrebbero fatto del loro meglio per mettere in piedi una nuova storia che avesse senso: quelli che avevano progettato e compiuto la missione furono tenuti ovviamente al palo.’

 

In pochi giorni, alcune delle esagerazioni e distorsioni dei fatti divennero troppo evidenti ed il Pentagono rilasciò una serie di dichiarazioni di chiarimento. ‘ No, bin Laden non era armato quando è stato colpito e ucciso. E no, bin Laden non ha usato una delle sue moglie come scudo umano’.  La stampa in generale accettò la spiegazione che gli errori erano l’inevitabile conseguenza dell’aver voluto subito soddisfare la frenesia dei giornalisti di avere informazioni sui fatti.

 

Una bugia che ando’ avanti a lungo era che i Seal avevano dovuto lottare molto per raggiungere l’obiettivo. Solo due dei Seal hanno fatto una dichiarazione pubblica: ‘Un giorno per niente facile’, un primo racconto del raid di Matt Bissonnette, pubblicato nel Settembre del 2012; e due anni dopo Rob O’Neill fu intervistato da Fox News. Entrambi i due poi lasciarono la Marina; entrambi avevano sparato a bin Laden. I due racconti si contraddicevano l’un altro in molti dettagli. Ma entrambe le storie più o meno confermavano la versione della Casa Bianca, soprattutto lì dove si diceva che ucciderlo era stato necessario poiché i Seal avevano dovuto lottare molto prima di raggiungere il bersaglio.   O’Neill disse anche a Fox News che lui e i suoi compagni Seal pensavano che sarebbero morti. ‘Più ci addestravamo alla missione, più ci rendevamo conto che poteva essere una missione senza ritorno’.

 

C'era un altro motivo per confermare che c’era stato uno scontro a fuoco all'interno del complesso, ha detto il funzionario in pensione: per evitare l'inevitabile domanda se si fosse trattato di un assalto senza resistenza. Dov'erano le guardie di bin Laden? Sicuramente, il più ricercato terrorista al mondo doveva avere una protezione 24 ore al giorno. 'E uno di quelli uccisi doveva essere il corriere, perché non esisteva e non potevamo confermare la sua presenza. I pachistani non ebbero scelta: dovettero confermare la versione.’ (Due giorni dopo il raid, Reuters pubblicò le foto di tre uomini morti che avevano ottenuto da uno degli ufficiali ISI. Due di loro furono successivamente identificati da un portavoce ISI come il corriere e suo fratello.)

Seymour M. Hersh

Vol. 37 No. 10 · 21 Maggio 2015 » Seymour M. Hersh » The Killing of Osama bin Laden

Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di SKONCERTATA63

La folle volata di Strasburgo, 1973

$
0
0


 

 

 

Il 21 maggio 1973 la carovana compatta dei ciclisti imbocca la strada che entra nel cuore di Strasburgo, dopo una tappa di ben 239 km. coperti a velocità turistica, perché la «Molteni», squadra della maglia rosa Eddy Merckx, non vuole sorprese, e le squadre che mettono in lizza dei buoni velocisti, come la «Rokado» e la «Brooklyn», l’hanno ingabbiata affinché possa risolversi in volata. Così, i pochi tentativi di fuga sono ripresi uno dopo l’altro e il gruppone giunge a ranghi serrati all’imbocco del grande viale in vista del traguardo, i cui ultimi 250 metri sono in temibile pavé. C’è stata qualche caduta nel corso della giornata, niente di grave, indice però di un diffuso nervosismo; il tempo è grigio, freddino, come capita talvolta, in questa stagione, nell’Europa centrale.

Il Giro d’Italia, quest’anno, è caratterizzato da un percorso atipico: è partito da Verviers, in Belgio, ha attraversato il Lussemburgo, è entrato in Germania fino a Colonia, passando poi nella la Francia nord-orientale,  quindi sconfinerà in Svizzera, entrerà in Italia da Aosta, scenderà fino a Benevento, risalirà a Forte dei Marmi, a Verona, si arrampicherà ad Auronzo di Cadore e si concluderà sul lungomare di Trieste, dopo 20 tappe e un prologo, per complessivi 3.800 km. La partenza dal Belgio si spiega con la forte presenza belga fra gli iscritti e soprattutto con la strapotenza dell’astro del momento, il belga Eddy Merckx, detto il Cannibale per la sua smania di vincere tutto senza lasciare nulla agli altri: indosserà la maglia rosa, infatti, dalla prima all’ultima tappa, senza mai levarsela, neanche per un giorno.

Ed eccoci all’imbocco del viale conclusivo di Strasburgo, sotto le fronde fitte degli alberi: i velocisti hanno già guadagnato le posizioni strategiche, tenendosi il più possibile al riparo del vento, pilotati dai compagni di squadra meno veloci, che si sacrificano per loro: questi gregari non hanno solo il compito di tirare la volata agli “sprinters”, ma anche quello - inconfessabile, ma non meno importante - di “chiudere” gli spazi ai velocisti delle squadre avversarie, di ritardarli in ogni maniera possibile, di tagliar loro la strada a qualsiasi costo, anche a rischio di qualche capitombolo. C’è nell’aria un’atmosfera da resa dei conti: si capisce subito che sarà, come si dice in gergo, una volata con il coltello sotto la sella delle biciclette, senza riguardi per nessuno. Chi ha qualcosa da perdere si tiene indietro, tira prudentemente i freni per non lasciarsi coinvolgere nella bagarre, anche se nessuno potrebbe immaginare l’inferno che sta per scatenarsi.

Quando parte lo “sprint”, par quasi di trovarsi a una corrida: Merckx dirà di non aver mai visto niente del genere nella sua carriera e minaccerà di ritirarsi dalla corsa, perché, parole sue, in volate come questa si rischia l’osso del collo, prima o poi ci scappa il morto; così non è possibile andare avanti, gli organizzatori devono fare qualcosa, prendere severi provvedimenti. C’è chi afferra l’avversario per la maglia e cerca di tirarlo indietro; chi prende la spinta, appoggiandosi sulla spalla del compagno di squadra; chi prende a gomitate i concorrenti, e chi si butta nella mischia come un kamikaze, sfiorando le transenne, quasi avesse voglia di suicidarsi. Qualcuno cade, e altri cadono sopra le biciclette e i corpi stesi a terra: è un miracolo che nessuno ci lasci la pelle; evidentemente c’è un Dio pietoso che veglia sui pazzi, gli ubriachi e i velocisti scatenati.

Tre uomini della «Rokado» hanno guadagnato le posizioni migliori: Gustaaf Van Roosbroeck, Gerben Karstens e Rik Van Linden: belgi il primo e il terzo, olandese il secondo. È quasi una partita giocata in famiglia, anche se altri velocisti son riusciti a infilarsi nei varchi giusti e appaiono decisi a disputare la vittoria a questo terzetto: Marino Basso della «Bianchi», Roger De Vlaeminck della «Brooklyn», Pierino Gavazzi della «Jolly Ceramica». Ma De Vlaeminck, più che un vero “sprinter”, è un passista veloce; Gavazzi è un giovane ancora un po’ inesperto; Basso, invece, è il campione del mondo in carica, ha vinto il titolo l’anno prima, a Gap, bruciando sul filo di lana il connazionale Franco Bitossi, con un “rush” finale memorabile, roba da lasciare allibiti.

E tutti sono in cerca di affermazione o di rivincita: per ciascuno di loro il traguardo di Strasburgo è un obiettivo irrinunciabile, chi ha una fama da difendere, chi una posizione da conquistare: tutti si sentono chiamati alla vittoria, a nessuno pare che il prezzo da pagare per raggiungerla sia troppo alto, che il rischio sia eccessivo. Sono dei “desperados”, nel senso letterale del termine, specialmente i due leoni ruggenti della «Rokado», Karstens e Van Linden: due velocisti “puri” che non vanno tanto per il sottile in fatto di correttezza, l’uno classe 1942, dunque già trentunenne (e trent’anni non son pochi, in questo sport), rotto a tutte le astuzie e già in guerra aperta coi controlli antidoping; l’altro appena ventiquattrenne, astro fiammingo in ascesa, destinato a una brillante carriera di “sprinter”; armati entrambi di una estrema ambizione, quella del professionista ormai verso la fine e quella della giovane promessa impaziente di farsi un nome, due galli nel medesimo pollaio i quali, però, stranamente, sembrano filare di perfetta intesa.

Il loro nemico dichiarato è Marino Basso: hanno giurato di non farlo mai vincere, sostengono che l’italiano è “antipatico”; evidentemente non gli perdonano il fatto di portare sulle spalle quella maglia di campione del mondo, della quale, forse, si sentono altrettanto degni, e dunque defraudati nel loro buon diritto. Una grande corsa ciclistica a tappe è un po’ come la scolaresca d’un collegio: vi prosperano amicizie e inimicizie memorabili, ripicche, invidie, gelosie; sono cose che si capiscono bene solo dall’interno, vivendo nell’ambiente, condividendo il sudore e la fatica, i sogni e le speranze, ma anche le cocenti delusioni e le amare sconfitte. E pur di non far vincere Basso, i due sprinter della «Rokado» sembrano disposti a tutto.

Mentre Walter Riccomi capitombola sull’asfalto (l’ambulanza lo porterà dritto all’ospedale), ecco che Karstens, dopo aver “chiuso” il francese Ducreux, ripete l’impresa ai danni di Basso e, come se non bastasse, prende la spinta puntandosi con la mano sulla spalla del compare Van Linden, poi catapultandosi letteralmente verso il traguardo, che taglia per primo in mezzo a urla e maledizioni, con Dierickx che impreca contro Borgognoni e lo stesso Karstens che, fermatosi oltre la linea bianca, sferra un pugno a un tecnico che l’ha rimproverato per lo scherzetto fatto a Ducreux. Ma Basso non sta nella pelle, ha subito alzato il braccio per segnalare le scorrettezze di cui è stato vittima e lancia bestemmie contro Karstens: vuol fare a pugni con lui, che però si tiene a distanza; intervengono altri corridori e li separano prima che i due giungano alle mani.

Tutti brontolano e protestano: Van Linden, che ha tagliato il traguardo al quarto posto, fa l’indiano e dice ai giornalisti che lui non sapeva nulla, che a un certo punto si è sentito afferrare per la maglia da Karstens; Merckx si dice indignato e sconcertato, annuncia che non intende rischiare oltre il collo per colpa di quei pazzi scatenati;  Basso non si dà pace, il suo sistema nervoso è in crisi e in una delle prossime tappe, dopo la volata di Milano, in cui Karstens vincerà di nuovo su di lui, scoppierà a piangere di rabbia, e De Vlaeminck un po’ lo consolerà, un po’ lo sfotterà, dicendogli: «Ma cosa vuoi piangere, va’ là!», e lui dovrà rimangiarsi le lacrime e fare lo spavaldo. Invece è proprio sconsolato, lo hanno visto tutti.

Mentre sul traguardo infuriano ancora le polemiche, diversi corridori tagliano la linea bianca a piedi, trascinando le biciclette fracassate, con i corpi pesti e sanguinanti, uno addirittura senza le scarpette: eppure, miracolosamente, nessuno si è fatto troppo male.

Comunque la volata folle di Strasburgo è stata troppo banditesca, bisogna dare un esempio, frenare un po’ i bollenti spiriti degli “sprinters”, altrimenti, la prossima volta, chissà cosa succederà e come andrà a finire: la giuria non può far finta di nulla, e poi ci sono innumerevoli reclami. Pertanto, nel giro di pochi minuti, la decisione è presa: tanto Karstens che Van Linden vengono retrocessi agli ultimi due posti del plotone di testa per le evidenti scorrettezze compiute (si vede che le improbabili giustificazioni di Van Linden non hanno convinto nessuno) e multati di 50.000 lire – che all’epoca sono pure qualcosa - mentre la vittoria è tolta a Karstens ed assegnata a tavolino al secondo arrivato. Ma qui scatta la beffa: perché il secondo è Van Roosbroeck, l’altro uomo della «Rokado»: la vittoria, pertanto, resta sempre in casa della squadra di Karstens e Van Linden; e Marino Basso, col suo terzo posto, passa al secondo, il che è quasi una beffa, anzi, è proprio una beffa in piena regola, visto che, in una volata regolare, quasi certamente avrebbe vinto lui… Seguono Gavazzi, Parecchini e De Vlaeminck. Questa, la salomonica decisione dei giudici d’arrivo: e la partita è chiusa.

Questa la conclusione della terza tappa; ora bisogna raggiungere Ginevra, a 400 km. di distanza, con una trasferta fuori gara; domani la quarta tappa partirà di lì per giungere ad Aosta e, finalmente, iniziare il percorso in territorio italiano. Sarà sempre Gerben Karstens a vincere, in volata, la quinta tappa, con arrivo al velodromo di Milano; Van Linden si aggiudicherà la settima, sul traguardo del Lido delle Nazioni, e la diciassettesima, a Verona; anche De Vlaeminck farà sue due tappe, a Benevento ed a Bolsena (alla fine, gli italiani vinceranno solo cinque tappe), e l’altro velocista belga, Patrick Sercu, ne vincerà un’altra, ad Alba Adriatica. Tanta gloria per i velocisti, dunque: con Karstens impegnato a farsi perdonare dal socio Van Linden lo strattone di Strasburgo, pilotandolo con successo in altre due memorabili volate; e sempre con una spregiudicatezza ai limiti del regolamento.

E Marino Basso? Di sconfitta in sconfitta, pare che la linea del traguardo sia diventata, per lui, tutt’uno con la barriera dei sogni. Davanti ai suoi tifosi delusi e amareggiati, deve inventarsi ogni volta una nuova scusa: gli è uscita la catena della bicicletta, i compagni di squadra non l’hanno favorito nella maniera giusta, mentre Karstens e Van Linden, più Van Roosbroeck, quelli sì che si tirano la volata l’un con l’altro… Che cosa può dire, che c’è una congiura contro di lui per non farlo vincere? La congiura c’è, ma un vero “sprinter” i varchi li trova lo stesso: non ha bisogno della cavalleria degli avversari, li mette tutti quanti in riga e, soprattutto, non fa mai la vittima, per nessun motivo al mondo. Il guaio è che Basso è un passionale e un orgoglioso: dopo la vittoria ai mondiali aveva promesso sfracelli e adesso la parte del perdente gli va stretta, lo rende malinconico e un po’ patetico: un velocista deve credere in se stesso, non accampare scuse; ma per credere in se stesso, deve vincere, vincere contro tutto e contro tutti: se no, che razza di velocista è? Un velocista a scartamento ridotto, un eroe mortificato dalle impietose e beffarde risatine degli avversari: ruolo che assolutamente non si addice al ventottenne vicentino, guascone per istinto e per senso teatrale, che ormai guarda al podio del vincitore con un misto di rancore e d’incredulità.

Ma ecco che arriva anche per lui, finalmente, il gran giorno della rivincita: la più plateale, la più solenne delle rivincite: quella nell’ultima tappa del Giro, sul traguardo che vale più di tutti gli altri, in riva al lungomare di Trieste, dopo i tapponi dolomitici che hanno definitivamente incoronato Eddy Merck, “il cannibale”, re del Giro anche quest’anno (lui ancora non lo sa, ma la sua straordinaria carriera sta per finire: non senza aver vinto cinque volte al Giro d’Italia, cinque volte al Tour de France, una alla Vuelta spagnola, tre volte ai Campionati del mondo, due volte al Giro delle Fiandre, sette volte alla Milano-Sanremo, tre alla Parigi-Roubaix, tre alla Gand-Wevelgem e tre alla Freccia Vallone). Sarà lì, a Trieste, il 9 giugno, al termine della ventesima tappa partita da Auronzo di Cadore, dopo quasi 200 km. di corsa, che Marino Basso riuscirà ad aggiudicarsi la vittoria, mettendo in fila tutti quanti con una progressione prepotente, bellissima, da album, levando il braccio destro come a schiaffeggiare l’aria: secondo Sercu, terzo Van Linden, quarto Pietro Gambarotto, quinto Gianni Motta, sesto quel diavolo di Karstens. E che soddisfazione, per Basso, avere umiliato la coppia Karstens-Van Linden, proprio nell’ultimo “sprint”: lui, che aveva dovuto mandar giù tanti bocconi amari, al punto da non osare quasi più fare promesse a quanti ancora credevano nella sua resurrezione; lui, che aveva mancato tante, troppe occasioni, una dopo l’altra, a cominciare da quella volata folle e stregata di Strasburgo, lassù in Alsazia, venti giorni prima, col Giro appena incominciato!...

E la cosa si sarebbe ripetuta anche nel Giro dell’anno successivo, il 1974: di nuovo una serie di sfortune, di beffe, d’insuccessi; di nuovo una occasione mancata dietro l’altra, anche se non ci saranno più né Karstens, né Van Linden, cui poterne attribuire la colpa; e, di nuovo, la rivincita superba nell’ultima tappa, quella di Milano, con una volata magistrale. Poi, la sua carriera non farà che declinare. Cosa strana: anche il suo arcinemico, Gerben Karstens, sta ormai sparando le ultime cartucce, e i suoi successi si fanno sempre più radi. Ma anche lui riuscirà a chiudere in bellezza, nel Tour del 1976, vincendo due tappe: l’ultima delle quali, quella del trionfo conclusivo, sui mitici Champs Elysées… E Rik Van Linden? Il fiammingo continuerà a macinare vittorie su vittorie per suo conto, ovunque: al Tour, al Giro, alla Vuelta, alla Gand-Wevelgem, alla Freccia Vallone; per chiudere infine la sua carriera, nel 1980, con un palmarès degno d’un autentico asso dello “sprint”...


Palmira

$
0
0

 

Probabilmente quelli dello “Stato islamico” di al-Baghdadi ci sopravvalutano, hanno un troppo alto concetto di noi. Nella loro barbara ma lucidissima logica e nell’intento di provocarci e d’indignarci fino al punto di farci reagire alla cieca per dimostrare al resto dell’Islam sunnita che i “crociati occidentali” li odiano, dal momento che le decapitazioni non bastano adeso provano con le distruzioni di splendide, insostituibili opere d’arte. Non riusciranno nemmeno in tale intento. Ma, in attesa che ci privino di una delle Meraviglie del Mondo, riflettiamo: che cos’è Palmira, che molti italiani conoscerebbero se non le avessero preferito le Seychelles o le Mauritius?

Semplicemente una gloria del genere umano, un città ellenistica di assoluta bellezza e molto ben conservata. In Siria, tra Eufrate e Mar di Levante, s’incrociavano fino dall’antichità remota le vie commerciali che collegavano la Cina con il Mar di Levante (la “Via della Seta”) e quelle che dai porti meridionali della penisola arabica, dove approdavano le flottiglie provenienti dalla Indie, risalivano fino a Damasco per proseguire verso l’Anatolia (la “Via delle Spezie”, o “degli Aromi”). I romani conoscevano poco del subcontinente indiano, che fino dal tempo di Alessandro Magno i geografi avevano fasciato di fantastiche leggende, mentre i Seres, i cinesi, erano per loro poco più di un puro nome. Eppure le sete, i bronzi, le gemme, gli aromi pregiati per farne profumi e unguenti arrivavano in quantità sino al Caput mundi.

E tutto passava da quei fasci di piste carovaniere che convergevano in un’area ristretta fra gli odierni Libano, Siria e Giordania. Fungevano da collettori di essi alcune città-mercato, le “città carovaniere” ch’erano altrettanti città-stato retti da un’aristocrazia di mercanti-predoni di stirpe araba, come gli idumei, i sabei, i nabatei. Queste città carovaniere, che l’opulenza dei loro padroni aveva fatto diventare degli autentici capolavori dell’eclettica arte ellenistica, si chiamavano Baalbek, Jerash, Petra: e ancor oggi le loro rovine incantano, ci lasciano senza parole.

Ma Palmira, al centro di uno sterminato oasi dal quale prendeva il nome (Tadmur, “la città dei datteri”) era senza dubbio la più splendida. Il piccolo prospero regno che essa si era costruito attorno, “cuscinetto” tra l’impero romano e quello parto-persiani, assurse nel corso del III secolo d.C. a una tale fama e a una tale potenza che i romani, suoi confinanti occidentali, si resero conto di non poter fare a meno di conquistare se volevano dominare le vie carovaniere e assicurarsi la frontiera che guardava la loro grande avversaria, la Persia.

Era allora sovrano di Palmira l’abile e colto Odenato, che morì lasciando il regno nelle mani del figlio. Ma la vera padrona del potere era una donna, la terribile e affascinante Zenobia: una di quelle inquietanti figure femminili che hanno dominato il mito e la storia orientale antica – da Hautshepet alla leggendaria regina di Saba, a Semiramide, a Pentesilea, a Sofonisba, a Tomiri, a Cleopatra, fino alla stessa Giulia Domna moglie di Settimio Severo - tutte memoria, forse, di fasi arcaiche segnate dal matriarcato regale.

Contro l’autocratica signora che trattava da pari a pari i Cesari di Roma e i Gran Re di Persepoli dovette scendere in guerra l’imperatore Aureliano, il culto monoteistico-solare promosso dal quel trionfa anche negli stessi splendidi monumenti dell’arte palmirena. Zenobia, sconfitta nel 272, venne condotta a Roma dove rifulse come la preda più splendida del trionfo imperiale.

Da allora, Palmira si avviò lentamente sul viale del tramonto: che fu tuttavia lungo, perché ancora nel XII secolo il sultano Saladino l’arricchì di una formidabile fortezza. Più tardi dimenticata e ridotta a cava di pietre come altre sue consorelle, fu riscoperta nel secolo XIX grazie a scavi soprattutto inglesi e tedeschi. Fino a ieri, costituiva uno dei siti archeologici più noti e visitati del mondo. Il governo siriano manteneva in perfetto stato la sua area archeologica e aveva dotato il territorio circostante di ottimi alberghi e di eccellenti strutture turistiche. Ma nel 2011 il presidente francese Sarkozy e il premier britannico Cameron decisero che Bashar Assad era un dittatore da abbattere e appoggiarono a tale scopo i suoi oppositori armati, tra i quali forti erano gli jihadisti. Hollande seguì la linea di Sarkozy. Adesso abbiamo dinanzi agli occhi, a Palmira, gli esiti di tale dissennata politica: che naturalmente molti media occidentali cercano di attribuire al solo fondamentalismo islamico.

Palmira è stata difesa dalle milizie irakene sciita non governative di Muktada al-Sadr, capo del Hashd al-Shaabi, affiancato dai miliziani sciiti addestarti dall’Iran guidati dai generali Hadi al-Amiri e Falih al-Fayyadh nonché da Qassem Suleimani, leader delle forze sciite filoiraniane del cosiddetto “Asse della resistenza”, mentre l’esercito regolare siriano è ormai alle corde. Partita da Dair as Zur in Siria, l’armata del califfo al Baghdadi punta a sudovest verso Damasco, sulla via della quale si è ormai impadronita di Palmira, e a sudovest verso Baghdad, sulla via della quale si è impadronita di Ramadi a poco più di un centinaio di chilometri dalla capitale.

A Tadmur c’era un famoso carcere aperto da Hafez Assad, padre di Bashar: vi erano accadute cose orribili e Bashar l’aveva chiuso per riaprirlo però di nuovo. Ora, i miliziani dell’IS hanno liberato tutti i detenuti di quel luogo da incubo e stanno cercando i veri o presunti partigiani di Assad casa per casa.

E l’incubo avanza. Pare proprio che i finanziatori e sostenitori “occulti” (?!) del califfo al-Baghdadi siano ben decisi a consentirgli di prendere Damasco e Baghdad, nonostante si continui a blaterare che egli sia il nemico pubblico n.1 da battere. Perché a Damasco c’è ancora Assad, che almeno i francesi si ostinano a voler rovesciare in quanto filoiraniano, e a Baghdad c’è un governo sciita che senza dubbio guarda a sua volta a Teheran. Al vertice europeo di Riga si è parlato della necessità di reagire e si è rimandato il tutto al prossimo vertice di Parigi che sarà presieduto dal ministro degli esteri francese Fabius e dal segretario si stato statunitense Kerry. Si dice che perfino il presidente Hollande abbia cominciato a intuire quanto dissennata fosse la sua politica di appoggio indiscriminato ai ribelli nemici di Assad e intenda adesso favorire un colloquio tra le parti contendenti in Siria in vista del nuovo più terribile nemico. Intanto, pare che l’IS abbia cominciato a colpire i centri di culto sciiti nella stessa Arabia saudita. Ma Hollande, che continua a individuare un pericolo in quell’Iran con il quale il presidente Obama ha avviato trattative proficue, continua a mostrarsi orientato all’appoggio del fronte sunnita costituito da Arabia saudita, Qatar ed Egitto: il che significa in ultima analisi che egli preferisce appoggiare la fitna antisciita piuttosto che qualunque seria iniziativa volta contro l’IS. La voce di Obama è ragionevole ma debole, l’Inghilterra latita. Se il re dell’Arabia saudita, che ha sempre condotto nel suo paese una politica repressiva nei confronti della minoranza sciita, lascia ora che al-Baghdadi bombardi quei suoi già bistrattati sudditi senza reagire, che cosa si deve pensare? E quale potrebb’essere il quadro di un futuro Vicino Oriente caratterizzato da un IS che avesse occupato per intero Siria e Iraq? Chi sta colpendo il califfo con la sua avanzata, se non l’Iran e la potenze statunitense che su un accordo con l’Iran stava contando nel quadro di una pacificazione del Vicino Oriente? E quali conclusioni potremmo trarre da tutto ciò se non che è in atto una grave offensiva condotta dai paesi arabi sunniti che vogliono la fitna antisciita in funzione antiraniana, con il benevolo appoggio di Francia e Inghilterra e magari di Turchia e Israele, nonché ovviamente del congresso degli Stati Uniti egemonizzato dai repubblicani neobushisti?

Alla fine di questo tunnel, c’è una prospettiva agghiacciante. Si sta preparando, nonostante Obama, un’offensiva contro l’Iran. Lo jihadismo è un falso nemico del cosiddetto Occidente; anzi, ne è un alleato. A questo punto non c’è che da sperare in una mossa di Putin. O da temerla, se egli ne sbaglierà intensità e carattere.

A PROPOSITO DEL TRICOLORE. LETTERA APERTA AI SUDTIROLESI

“Evviva il Tirolo – potenza del mondo Francesco II – vogliamo seguire; per mare e per terra – faremo la guerra la nostra bandiera – l’è gialla l’è nera; il vostro reuccio – alto un metro e trentotto lo giocheremo al lotto – farem terno secco” (canzone popolare dei tirolesi italofoni durante le guerre antinapoleoniche)

Non me ne vogliano i miei carissimi amici altoatesini d’origine austrotedesca - che io preferisco chiamare, com’essi stessi si definiscono, sudtirolesi - se nell’attuale Fahnenstreit a proposito della bandiera dello stato cui essi stessi a torto o a ragione appartengono (e che non è la loro bandiera nazionale) io mi schiero, com’è mio dovere di cittadino italiano e di funzionario statale fedele al mio giuramento, a fianco delle autorità della repubblica italiana.

Che non lo faccia volentieri, è un fatto che chi mi segue ben conosce e che non ho mai nascosto. Ritengo la stolida filastrocca “E la bandiera dei tre colori – l’è sempre stata la più bella - noi vogliamo sempre quella” con quel che segue esteticamente parlando bugiarda, storicamente parlando ingiusta e sbagliata, concettualmente parlando antipatica. Da buon toscano autentico, sono e resto un fedele suddito asburgo-lorenese: nel mio cuore sventolano i vessilli bianco-rosso e nero-oro. Non amo d’altronde le bandiere d’origine giacobina, quale appunto è quella verde-bianco-rossa; ed è noto che da parte mia avrei preferito che quella delicata questione storica che è il Risorgimento italiano si fosse risolta a metà Ottocento grazie a un più oculato e sistematico uso dei fucilieri di Boemia, con relativo differente esito delle battaglie di Solferino e di San Martino e infine la vittoria di un’Italia unita sì, ma secondo il modello federale suggerito dal grande Cattaneo ch’era certo meno comodo per gli interessi francesi prima e inglesi poi al servizio dei quali si pose la compagine savoiardo-garibaldina, ma ben più fedele alla storia policentristica della penisola. Quanto alla prima guerra mondiale, la ritengo una sciagura per il mondo in generale, per l’Europa in particolare: ma sono convinto che, una volta purtroppo scoppiata, il giusto posto dell’Italia sarebbe stato l’allinearsi a fianco degli imperi centrali, nel fedele rispetto del patto della Triplice Alleanza. E so benissimo che all’atto della cattiva pace di Versailles vi è stato fatto un torto per compiacere al senso di rivalsa di “vincitori” – gli italiani – a loro volta poco stimati e considerati, ai quali si negavano terre davvero italiane in Istria e in Dalmazia per remunerare i serbi, meritevoli di aver sia pure indirettamente provocato il conflitto. Così, contro il “principio di nazionalità” pur affermato dal presidente Wilson, vi vendettero a un paese che non vi voleva e che non vi apprezzava. Si può ammettere che il Tirolo meridionale sia “Italia” dal punto di vista orografico e idrografico: non lo è da quello geostorico-etnografico. A ciò va aggiunto che quell’angolo di mondo tra Bolzano e Salisburgo è uno di quelli ai quali io sono più affezionato al mondo; che Innsbruck è una delle mie città preferite dove, se potessi, abiterei tanto volentieri; e che mi piace l’indole tirolese, riservata e allegra, austera e gentile, “germanica” con quel tanto di mediterranea Schlamperei che i viennesi magari non apprezzano, ma che a me pare adorabile.

Hanno inoltre molta ragione, a mio avviso, quanti hanno osservato che sarebbe ora di farla finita con al lettura conformistica e patriottarda del Ventiquattro Maggio: che non fu per nulla un giorno da ricordare festosamente. L’Italia entrò, calpestando le alleanze che si era scelta –e che ne avesse qualche formale motivo cambia poco -, in una guerra tragica e scellerata, la vera tomba d’Europa. In un giorno come quello, ci si dovrebbe limitare all’austero ricordo di tutti i caduti. E aggiungo che personalmente abolirei qualunque celebrazione della “Vittoria”, sostituendola semmai con quella per la pace faticosamente riconquistata nel 1918 dopo quattro anni d’infame massacro. Le guerre le perdono tutti: salvo i profittatori.

Ciò premesso, cari amici, a proposito dell’esposizione della bandiera il 24 maggio c’è una disposizione dello stato. E, in quanto cittadini dello stato italiano, la bandiera tricolore è il mio come il vostro emblema: quello che rappresenta la nostra identità istituzionale e i nostri diritti civili. Potete anche non amarlo, potete anche giudicarne inopportuna l’esposizione in determinate circostanze : ma qui non si tratta né di radici storiche, né di opzioni etico-culturali e tanto meno sentimentali.

E’ vero: lo stato al quale appartenete è collegato a una nazione che non è la vostra. Il progetto di ricondurre tutti gli stati allo stato-nazione, per quanto in teoria sia trionfato nel 1918, è immediatamente fallito: e non c’è stato attuale che non abbia “minoranze allogene”. Si sono fatti molti tentativi, sempre ingiusti e sbagliati, per correggere questa realtà obiettiva perseguendo progetti forzosi di “assimilazione” o di “integrazione”: e sono sempre falliti. Voi conoscete meglio di me gli esiti dell’arroganza fascista, che obbligava da voi gli Schneider a scegliere tra il cognome “Sarti” e il cognome “Snaidero”, e che negava perfino il diritto d’incidere in tedesco le lapidi funerarie: il risultato fu che molti dei vostri padri e nonni preferirono finire in bocca a Hitler.

Eppure, cari amici, oggi questo stato si è dimostrato vostro amico. Il vostro statuto di regione autonoma è obiettivamente il più avanzato e generoso d’Europa: ed è anche grazie ad esso se voi abitate in una felice, prospera regione; se disponete di un contributo perfino per i gerani rossi ai vostri bei balconi di legno che piacciono tanto anche a me. La Spagna è stata molto meno generosa con baschi e catalani; l’Inghilterra ben più dura con scozzesi, irlandesi e gallesi; per non parlare della Francia, la peggiore di tutti con provenzali, bretoni e còrsi. O della Turchia rispetto ad armeni e curdi.

E allora, cari amici, custodite pure fedelmente nel cuore la vostra aquila nera, il vostro vessillo bianco-rosso, le insegne gloriose del libero Tirolo, la memoria di Andreas Hofer e i ritratti del Kaiser Franz Josef (ne ho uno anch’io, sulla mia scrivania). In passato, al tempo delle insorgenze antigiacobine, c’erano anche italiani che lottavano con voi e che in italiano accompagnavano le note dell’Inno imperiale, le belle note di Haydn (“Serbi Dio l’austriaco regno…”: per noi italiani fedeli all’impero, Serbidiola è restata a lungo una parola magica, un nome carissimo che impartivamo alle case, alle ville, alle barche e talvolta anche alle figlie). E magari lottate pure, con i mezzi democratici dei quali disponete, per l’indipendenza: per far sì che un giorno nel quadro dell’Europa unita voi possiate riunirvi alla madrepatria. Quel giorno, vi prometto che verrò a festeggiare con voi e con la mia cara amica Eva Klotz.

Ma fino ad allora, voi siete cittadini dello stato italiano: che non è un ente né nazionale né culturale, bensì politico, istituzionale, amministrativo. Il presidente della vostra regione è un funzionario dello stato italiano e ne ha tutti i doveri: incluso quello del leale rispetto dovuto alle insegne dello stato. I vostri splendidi atleti, quando trionfano sui campi innevati, lo fanno nel nome del tricolore che rappresenta lo stato del quale sono cittadini. La vostra bellissima regione è così prospera anche grazie al trattamento privilegiato che lo stato italiano le riserva: e, se ne accettate i privilegi economici e amministrativi, non potete poi voltar la schiena ai relativi doveri.

E’ uno stato, il nostro, che non mi soddisfa: ma che, dopo molte lotte e molti errori (e al tempo degli attentati ai tralicci io, giovane dirigente del MSI, litigavo ferocemente con chiunque definisse “terroristi” i vostri patrioti combattenti e invitavo i loro detrattori a spiegarmi la differenza tra loro e i partigiani del ’43-’45 che essi osannavano), da decenni riconosce pienamente i vostri diritti, la vostra cultura, la vostra autonomia. Voi non amate l’Arco della Vittoria di Bolzano, e sta bene: ma quello è un segno della storia, e la storia non si cancella (per la stessa ragione noi toscani abbiamo conservato i monumenti dei nostri granduchi asburgo-lorenesi). La fedeltà al vostro stato, che è quello italiano del quale il tricolore è simbolo, è un vostro dovere.

Voi non siete miei compatrioti, carissimi: ma siete miei concittadini e temo per voi che continuerete ad esserlo vi piaccia o no a lungo. Siatelo lealmente.

Del resto un comune Grossvaterland ce l’avremmo: l’Europa. Peccato che per il momento essa sia solo l’Eurolandia, questa miserabile caricatura che non è degna dei nostri sogni e dei nostri ideali (e l’ha dimostrato anche recentissimamente, palesandosi impotente a fornire una soluzione decorosa al problema dei migranti e lasciando praticamente sola l’Italia). Comunque, per quanto vi riguarda, che la vostra Heimat sia il Tirolo e il vostro Vaterland l’Austria, è vero: ma siete con noi, nostri concittadini, all’interno del Grossvaterland europeo. Ne condividete i doveri, ne avete largamente goduto i vantaggi. Questo, noi non vogliamo e voi non potete dimenticarlo.

 

Mussolini e l’anima aggressiva di un italiano socialista

$
0
0

mussoliniChi era Mussolini? Pochi mesi fa uno storico si poneva questa domanda. Lo faceva per riflettere sulla scomparsa del senso della storia nelle giovani generazioni. Ecco che il recente libro ‘Mussolini socialista’, a cura di Emilio Gentile e Spencer M. Di Scala consente una nuova riflessione sul personaggio politico del XX secolo. Viene proposto un lavoro completo che approfondisce il vissuto del giovane Mussolini, mediante i saggi di diversi storici. Emerge quindi il racconto storico di un socialista “magro, aspro, che parla a scatti, con sincerità, piace al congresso, il quale sente di avere in lui un interprete dei suoi sentimenti.”

C’è il ventinovenne segretario della Federazione di Forlì; c’è il giovane candidato alla Camera; c’è il direttore dell’Avanti arrabbiato. Ma c’è pure il socialista che si definisce nel 1912, “Io sono un primitivo. Anche nel socialismo. Io deambulo nell’attuale società di mercanti come un esule (…) oggi ci sono dei socialisti – i molti, i più – innamorati del denaro.” Nel ‘Mussolini socialista’ il lavoro di sette storici ha un pregio: scruta i significati delle avanguardia intellettuali dei primi anni del novecento. Proprio da qui nasce la relazione tra il futuro duce e un interprete delle avanguardie novecentesche, Giuseppe Prezzolini, il quale nella ‘Voce’ scriveva, “Quest’uomo è un uomo e risalta tanto più in un mondo di mezze figure e di coscienze sfilacciate…”

La formazione del giovane socialista è leggibile come una sintesi che avvenne “Sul tronco della sua cultura socialista… innestando idee, temi e motivi provenienti dall’anarchismo libertario, dalla nuova cultura idealistica italiana, dalle varie ‘filosofie della vita’, dal vitalismo pagano di Nietzsche, dalla teoria delle élites di Pareto, dalla concezione del mito di Sorel.” (pag. 211) Così è raffigurata l’esperienza di un uomo con molteplici contaminazioni ideologiche e viene raccontata una “singolarità nella tradizione ideologica del socialismo italiano.” (pag. 214) Lo storico non può che essere attratto dal giovane Benito, dal politico un po’ eretico, pronto a cambiare le sue opinioni. Colpiscono le richieste mussoliniane per una ‘rottamazione’ della classe politica del suo tempo. Prima del conflitto mondiale, per ringiovanire i partiti, Mussolini chiedeva alleanze e nuovi progetti politici. E chiedeva ciò attraverso la fondazione della rivista ‘Utopia’ al fine di “trovare fra i giovani dell’ultima ora – i socialisti e anche non socialisti – le intelligenze ignorate e capaci di ringiovanire con una nuova interpretazione – ortodosso o eterodossa – la teoria.”

Dunque, chi era il Mussolini socialista? Una singolare sintesi avanguardistica, un rottamatore ante-litteram, una spina nel fianco dei vecchi politici, un polemico sindacalista rivoluzionario. Nel libro, Marco Gervasoni, con ‘Mussolini: un sindacalista  rivoluzionario?’ segnala il rapporto con il pensiero di Sorel, ovvero l’incontro tra i temi della giustizia sociale e la “celebrazione degli eroi e dei santi e il lamento della grandezza” nel giovane Benito.

Il sindacalista di Predappio fu una fusione politica che non accettava più rappresentanze, desiderando di entrare direttamente nella scena politica, anche per trovare nuove soluzioni finanziarie, così “Non si dimentichi poi che, almeno in Italia, il sindacalismo si professava liberista e lottava contro l’intervento dello Stato…” In questa ricerca storica, sono notevoli i collegamenti emersi tra il sindacalismo rivoluzionario e le culture del tempo; insomma l’analisi non è mai sganciata dal contesto storico. Sono evidenziate realtà culturali con molte anime: una insurrezionale e una plebiscitaria “che ebbero sempre uno spazio ampio all’interno della galassia socialista” e Benito Mussolini fu “il vero capofila delle tendenze rivoluzionarie” (pag. 80) Nel saggio di Gervasoni, si ritrovano testi infuocati, appelli giacobini, canti insurrezionali – “Al Quirinale!” -, queste parole del Mussolini sindacalista piacevano ai giovani socialisti, Gramsci, Togliatti, Tasca. Parole gridate sull’Avanti per un paese sconvolto dagli scontri, per accendere proteste, per mettere insieme “proletariato e teppa.”

Con il lavoro di Gentile e Di Scala, il lettore si ritrova dentro l’avventura politica del maestro di Predappio e dentro la storia del socialismo italiano. Ma i vecchi fondatori socialisti e riformisti naturalmente non lo volevano; lo temevano per i suoi richiami “alla violenza e l’aggressività che caratterizzarono  la sua figura di teorico sia di militante del socialismo rivoluzionario sin dalla sua prima giovinezza.” (pag, 99)

L’anima aggressiva italiana si manifestava interamente nel Mussolini direttore dell’Avanti. I riformisti chiedeva ogni giorno le dimissioni del loro direttore. Che scriveva articoli come se fossero dei comizi. Quel socialista era proprio insopportabile. E lo racconta il saggio di Di Scala, “Benito Mussolini, i riformisti e la grande Guerra.” Quindi i vecchi socialisti non tolleravano gli appelli mussoliniani all’unione tra tutte le forze sovversive, anche quelle non socialiste. Il Mussolini del 1914, proprio un terribile rompiscatole o un commentatore risentito su una neutralità italiana pericolosa e politicamente inutile.

E per questo l’abile direttore dell’Avanti si dimise e fu espulso dal partito. La cosa lo colpì relativamente perché egli “puntava adesso a fondare un suo partito che gli permettesse di mettersi nuovamente in contatto diretto con le masse.” (pag. 129)  Si formò così l’immagine del socialista opportunista e cacciato via dal partito. Ma il 29 novembre del 1914, Prezzolini e Lombardo Radice gli telegrafarono,“Partito socialista ti espelle,  l’Italia ti accoglie.”

 *‘Mussolini socialista’, a cura di Emilio Gentile e Spencer M. Di Scala, Editori Laterza, pagg. 245, euro 24

La lezione (rimossa) delle guerre

$
0
0

Le bandiere nere dello Stato Islamico non sventoleranno mai, o così si spera, a San Pietro e, quindi, non si realizzerà, per la parte che ci riguarda, la profezia attribuita a Maometto: Roma non seguirà Bisanzio, non diventerà islamica. A sua volta, la Libia verrà prima o poi messa sotto controllo senza combattimenti
cruenti (ma qui le speranze sono decisamente inferiori), con il disarmo delle milizie armate, da una coalizione internazionale, magari a guida italiana, alleata ai governanti (quali?) locali.
E forse l’Italia continuerà ad avere fortuna: il terrorismo jihadista non ci colpirà. Forse. Nel frattempo, i rumori di guerra restano forti e vicinissimi a noi. Occorrerà restare pronti a tutto per chissà quanto tempo. 
In queste condizioni diventa lecita una domanda: che succede quando uno Stato che deve fronteggiare tempi assai turbolenti decide, con atto solenne, di equiparare, civilmente e moralmente, i disertori condannati a morte di una guerra di cento anni prima ai soldati che in quella guerra combatterono e morirono rispettando gli ordini ricevuti? Tale atto solenne significa solo chiudere in un certo modo (discutibile
o meno che esso sia) una pagina di storia passata?
O significa anche condizionare e prefigurare il futuro? Se viene stabilito per legge che non c’è differenza, morale e civile, fra colui che si ribellò agli ordini rifiutandosi di combattere e colui che morì combattendo, non si finisce per svalutare l’azione di quest’ultimo?

E non si finisce anche, se non proprio per legittimare la ribellione agli ordini in eventuali future situazioni di conflitto armato, di rendere comunque tale comportamento meno grave, quanto meno sul piano morale? Con una votazione sorprendente (331 sì, nessun contrario, un astenuto), la Camera ha licenziato un testo che ora passerà al Senato per l’approvazione definitiva. Se diventerà legge dello Stato consentirà la riabilitazione dei circa mille soldati italiani che, durante la Prima guerra mondiale, vennero giustiziati dopo un regolare processo oppure passati per le armi per ordine dei loro diretti superiori (in certi casi anche usando l’odioso metodo della decimazione) secondo le regole di guerra vigenti, perché accusati di diserzione, fuga di fronte al nemico o disobbedienza, anche collettiva, ai superiori. Il testo prevede che a quei mille venga restituito l’onore militare equiparandoli ai circa seicentomilacinquecento militari italiani caduti (direttamente in azione, o a causa di malattie contratte al fronte o a guerra finita per le ferite riportate). Il testo prevede anche che venga posta una targa nel Vittoriano nella quale lo Stato, al fine di chiedere perdono, ne ricordi il sacrificio. Non c’è dubbio che, come ha dichiarato il Capo di Stato Maggiore della Difesa, il generale Claudio Graziano, anche i mille furono vittime della guerra. Di fronte a quei soldati, spesso poveri contadini, gente che si ribellava all’idea di partecipare a un conflitto di cui forse non comprendeva scopi e ragioni, non si può evitare di provare umana pietà. Ma il punto è che esprimere comprensione e umana pietà per quei poveri morti è una cosa, tutt’altra cosa è equipararli a coloro che non scapparono, che restarono a combattere e che morirono proprio per questo. 

Probabilmente, fra i tanti che alla Camera hanno votato sì a quel testo, solo una piccola parte ne ha compreso implicazioni e risvolti. Un’altra parte, quasi certamente, nemmeno ci ha riflettuto sopra: ha pensato che fosse solo un bel gesto, senza conseguenze pratiche. E forse una terza parte, più cinica, infine, pur capendo benissimo dove si andasse a parare, non aveva interesse a sollevare obiezioni. Dunque, quello stesso Stato che nel centenario dell’entrata in guerra dell’Italia organizza manifestazioni per onorare i propri morti in battaglia e i sacrifici del Paese, ne svuota il significato decretando che coloro che si rifiutarono di combattere sono degni di essere onorati al pari di quelli che morirono armi in pugno. I parlamentari che hanno voluto questo provvedimento intendevano raggiungere, presumibilmente, due obiettivi. Il primo era depotenziare simbolicamente la partecipazione italiana alla Grande Guerra, in nome e per conto di un generico pacifismo cristiano (se si leggono alcuni degli interventi parlamentari a sostegno del provvedimento ciò appare evidente). Non si trattava solo di esprimere un giudizio negativo su quel conflitto ma anche sul ruolo svolto dall’Italia. Altro che celebrare, sia pure con la sobrietà giustamente richiesta da Gian Enrico Rusconi su La Stampa (24 maggio), la vittoria italiana che i nostri soldati di allora, quelli che caddero e quelli che tornarono, fortissimamente vollero. Il secondo obiettivo era più subdolo. Forzando ideologicamente l’interpretazione della Costituzione, attribuendo alla Repubblica un rifiuto della guerra in quanto tale anziché di quelle guerre d’aggressione a cui pensavano i costituenti quando scrissero l’articolo 11, lo scopo, plausibilmente, era di porre un’ipoteca sull’uso, presente e futuro, dello strumento militare, rendendolo più difficoltoso. Se chi diserta ha la stessa dignità di chi combatte, cosa diventa lecito pensare di quelli che, nonostante tutto, scelgono di obbedire agli ordini? E che cosa pensare, poi, di quelli che, rispettando gli ordini, addirittura muoiono in combattimento? Forse il Parlamento farebbe meglio a dedicare un supplemento di attenzione alle implicazioni, simboliche e pratiche, di certe sue scelte.

L'italiano nato a Giava e cresciuto in campo di concentramento tra il '40 e il '46

$
0
0



Luciano Lanna

Tra le mie letture preferite ci sono, prima di tutto, le autobiografie, la memorialistica, la narrativa che ripercorre storie personali e familiari. Sono i testi che ci aiutano a conoscere la storia vera, le vite e la vita di persone reali di cui possiamo percepire la scansione autentica senza il filtro di narrazioni ideologiche e filtri di interpretazioni generali spersonalizzanti. Ultimo di questi testi in cui mi sono imbattuto, e assai favorevolmente, è Ombre lunghe di Pier Luigi Giorgi (Cromografica-Gruppo Editoriale L’Espresso, Roma, 2014, pp. 305). Il titolo si ispira a un verso di Vincenzo Cardarelli del 1948, in cui i ricordi di ogni vita vengono paragonati a “queste ombre troppo lunghe del nostro breve corpo”. Il riferimento va quindi ai ricordi, nel nostro caso di Pier Luigi Giorgi, un uomo nato nel 1933 e quindi ora ultraottantenne. Giorgi, oggi pensionato con alle spalle una lunga vita di successi professionali come manager della Olivetti, ha svolto un ruolo importante in molti passaggi fondamentali dell’azienda e dell’economia italiana, è stato amico e collaboratore di personaggi come Dino Olivetti e Pier Luigi Celli, venne assunto da giovane da Furio Colombo, ha conosciuto ed è stimato da Cesare Romiti, ed è stato sicuramente uno dei protagonisti del boom economico. Ma Giorgi, anche per come si racconta, è un uomo che viene da lontano. E la sua storia, come anche le sue idee e la sua sensibilità, sono un esempio centrale per capire la vera storia degli italiani del Novecento.
Pier Luigi nasce nel 1933 a Lembang, un villaggio sull’isola di Giava. Il papà, dopo la partecipazione alla Grande Guerra come Ardito, andò a lavorare, portandosi dietro la moglie, come dirigente nelle piantagioni di gomma delle Colonie inglesi. Ma la sua identità era certa: “Quando venne congedato, avendo militato nel battaglione che più di ogni altro si era distinto sul Piave e appartenendo a una famiglia della modesta borghesia agraria della Bassa Padana, era inevitabile che continuasse a indossare la camicia nera, la stessa che aveva già portato sotto le armi con la divisa degli Arditi”. Nel 1940, dopo quasi dieci anni da italiano cosmopolita all’estero, il mondo si capovolge: all’improvviso la famiglia Giorgi si trovò isolata in campo nemico – la Malesia era dominio britannico – e, inizialmente viene prelevato il capofamiglia, portato in prigione a Singapore e poi rinchiuso per sei anni in un campo di concentramento per civili “nemici” in Australia. Dopo poco tempo, vennero reclusi a Tatura, uno località inospitale del Sud-Est dell’Australia, anche la moglie, il figlio Pier Luigi e la sorellina Gabriella. Lì confluirono tutti i cittadini italiani e tedeschi provenienti da Singapore, dalla Malesia e da Hong Kong. E, ricorda Giorgi, “c’era anche un folto gruppo di italiani provenienti dalla Palestina, molti dei quali, di seconda o terza generazione, avevano sposato donne del posto e si erano convertiti agli usi e costumi locali e parlavano arabo in famiglia. Inoltre, gli ebrei, sia italiani che tedeschi, erano numerosissimi, soprattutto tra questi ultimi, perché erano emigrati dalla Germania per sfuggire alle leggi razziali”.



Tra il 1941 e il 1945 furono ben 18mila i PoW (“Prisoners of War”) italiani ospitati in Australia: “Le autorità militari e politiche si limitavano a controllare i passaporti: hai il passaporto italiano o tedesco? Allora sei un nemico e come tale ti trattiamo…”. Le abitazioni loro riservate erano delle baracche prefabbricate in compensato con il tetto in eternit. Mancava l’acqua corrente: per questo bisognava recarsi in fondo al recinto, dov’erano collocati i servizi igienici comuni, una baracca con le latrine per le donne da una parte, per gli uomini dall’altra. Carta igienica non ce n’era, ci si passavano le pagine dei vecchi giornali. E lì Pier Luigi trascorre anni fondamentali della sua vita, dai sette ai tredici anni di età, con un professore improvvisato e un solo film visto in tutto quel lungo periodo: Fantasia di Walt Disney.
Dopo l’8 settembre 1943 agli italiani fu chiesto se volevano passare con i cooperatori. Ma il papà di Pier Luigi si rifiutò, non firmò l’atto di cooperazione. “You are a true gentleman, Mr. Giorgi”, ammise in compenso l’ufficiale britannico, alzandosi in piedi e mettendosi sull’attenti. Quindi altri tre anni di privazioni e difficoltà anche maggiori per sé e la sua famiglia, ma vissuti sempre con serenità e ottimismo. Giorgi rilegge quel periodo alla luce dell’opera di Viktor E. Frankl l’autore di Uno psicologo nel lager, dove racconta la sua esperienza di ebreo sopravvissuto al campo di Auschwitz: “Fu proprio nel lager che Frankl sperimentò l’importanza di avere una missione, un ideale, una ragione per vivere. Perché soltanto chi si era imposto un compito specifico da assolvere, e che vi si dedicava facendo appello a tutte le proprie risorse fisiche e morali, trovava la forza per superare le situazioni più degradanti e ignobili”. Giorgi spiega, infatti, che anche tra gli internati italiani a Tatura aleggiasse quello spirito e che il sentirsi, sia pure involontariamente, coinvolti in una lunga prova esistenziali abbia rafforzato quegli spiriti e condotti a temprare positivamente il loro carattere.



Buona parte degli italiani di Singapore e di altre provenienze asiatiche, annota ancora Giorgi, erano inoltre di origine o di religione ebraica, ma questi ultimi rimasero pacificamente inseriti nella comunità italiana fino all’ultimo giorno: “L’eco delle leggi razziali e delle discriminazioni antisemite dell’ultimo periodo fascista non fu percepito oltremare, dove molti ebrei continuarono a frequentare i circoli fascisti. In quegli anni, all’estero, bastava essere italiani per essere fascisti e viceversa”. Ma non era così per i tedeschi: “Quelli di loro che si identificavano col regime si trovavano di fronte, anzi decisamente in contrapposizione con altri tedeschi, la folta comunità di ebrei tedeschi fuggiti dalla Germania di Hitler. Nel nostro reparto del campo, infatti, gli ebrei tedeschi costituivano la maggioranza, mentre i tedeschi nazisti erano pochi e isolati. E non sono questi dati di fatto che si darebbero oggi per scontati…”.
Vale la pena leggere, a questo punto, alcune righe di Giorgi: “Gli ultimi due anni a Tatura furono caratterizzati da un’angosciosa sensazione di attesa della fine. All’udire le pur scarse notizie trapelate all’interno del campo – relative a El Alamein e Stalingrado prima, all’invasione della Sicilia poi, alla caduta del Duce, allo sbarco in Normandia, allo scempio dei bombardamenti alleati sulle città italiane e tedesche, allo sbarco e alla lenta risalita della penisola da parte delle truppe alleate – una cupa sensazione d’impotenza, simile a una fitta cappa nera, si era impadronita di tutti noi”. E ancora: “Qualche giorno dopo il 28 aprile del 1945, appena la notizia ci fu comunicata dal capitano di guardia in forma ufficiale, quelli della vecchia guardia fascista organizzarono un rito funebre per la morte di Mussolini: al momento del Vangelo, il padre cappellano recitò la Preghiera del legionario e, al termine della messa, ci fu l’appello al camerata Benito. Tutti, sull’attenti, risposero all’unisono: ‘Presente!’ per tre volte e questo grido segnò la fine di un mito. Avevo soltanto dodici anni ma ero in piedi in mezzo a loro e li ho guardati in faccia a uno a uno: credo di aver capito e condiviso nell’intimo il travaglio di chi, più grande di me, in quel momento sentiva tramontare per sempre le illusioni alle quali era rimasto aggrappato in tanti anni di privazioni e solitudine”.
Ci vollero le bombe di Hiroshima e Nagasaki, a metà agosto, perché le autorità si decidessero ad aprire i cancelli del campo e a smistare i prigionieri in Australia. Poi, a dicembre del 1946, da Sydney la nave per il rientro in Italia. Da Napoli, la risalita della penisola verso Pavia, dove abitavano i nonni: “Papà, mamma e io – ricorda Giorgi – indossavamo ancora i cappotti di lana grigioverde dei prigionieri di guerra, e i ferrovieri ci guardavano diffidenti, stupiti soprattutto per la presenza di una bambina imbacuccata che si guardava intorno con aria stralunata”. A Pavia, sistemata la famiglia con un po’ di difficoltà nella casa dei nonni, Pier Luigi trascorre altri sette anni, di cui gli ultimi tre in collegio. Al liceo tanto studio e ottimi risultati, tranne che agli esami di maturità, dove un professore lo prende di mira e gli abbassa la media: si era accorto che, in attesa dell’interrogazione, lo studente cercava di alleggerire la tensione leggendo Candido, il giornale satirico diretto da Guareschi. D’altra parte, Pier Luigi in quegli anni di liceo era stato attivissimo nell’organizzare manifestazioni studentesche per Trieste italiana: “Ero io che guidavo il gruppo di studenti del classico nel liberare quelli dello scientifico e delle magistrali, dove per entrare dovevamo scardinare degli enormi cancelli; e dove sapevamo di trovare torme di ragazzine che ci aspettavano festanti per sfilare al corteo al nostro fianco; ero io, infine, che attaccavo manifesti e portavo la bandiera ai comizi del Msi”.



Comunque, superata la maturità, Pier Luigi parte in autostop insieme a un suo amico alla volta della Scandinavia. Attraverso Svizzera, Germania, Danimarca, Svezia e Norvegia fu un viaggio di iniziazione che avrebbe segnato la sua vita e il suo spirito. Quindi, l’università, sempre a Pavia. Qui Giorgi fu il promotore della prima lista del Fuan. Le elezioni non andarono bene, soprattutto per alcuni brogli messi in atto dalle altre liste. Giorgi se ne fa una ragione: “Non ebbi bisogno di pensarci su molto: decisi che da quel momento non avrei più sprecato tempo a occuparmi attivamente di politica, né all’università né in altre sedi”. Ma leggendo il libro si comprende bene che il suo orientamento sia rimasto sempre lo stesso e che anche le sue simpatie, anche elettorali, siano andate nella stessa direzione. Solo che Pier Luigi si è occupato d’altro nella vita: della costruzione del suo carattere, della sua curiosità intellettuale, della sua famiglia, del suo lavoro. E a leggere bene tutte le pagine, estremamente interessanti e coinvolgenti che dedica a questo, saltano molti stereotipi e si scardinano molti luoghi comuni. A cominciare dalla descrizione dell’anno che ha trascorso negli Stati Uniti per una borsa di studio di preparazione al lavoro nell’Università di Tulane in Louisiana. Pier Luigi rimase estasiato dalla percezione di una realtà plurietnica. Gli apparvero come meravigliosi i jazz funeral, i funerali con processione e jazz band della gente di colore, con l’ascolto di brani come When the Saints Go Marching In. E non a caso, racconta: “C’era ancora l’apartheid e i bianchi non erano ammessi, ma noi avevamo brigato per ottenere un’autorizzazione speciale in quanto europei e simpatizzanti dichiarati del semiclandestino movimento integrazionista”. E Giorgi ricorda le battaglie, che lui condivideva, di Martin Luther King.
L’altro aspetto interessante è la lettura che, lui e i suoi colleghi di studi, fanno in inglese di On the Road di Jack Kerouac, che soltanto due anni dopo verrà tradotto in Italia: “Era il manifesto di protesta delle correnti di avanguardia giovanili, una tormentata generazione di filosofi mistici che si ribellavano al dilagante conformismo di massa con la loro disperata ricerca di valori, di un nuovo senso della vita: giovani che si esaltavano suonando o ascoltando jazz, passavano da una moto a un’auto schiacciando l’acceleratore fino a bucarsi la suola delle scarpe, sfogando così la loro energia, quella loro avidità di vita che sembrava non potersi placare mai e in nessun luogo…”. E Giorgi, sulla scorta di Kerouac, percorrerà gli States coast to coast, dall’Est alla California, con avventure, conoscenze, entusiasmi e scoperte, dagli homeless all’Ymca. Godibilissime le “pagine americane”, come poi anche quelle delle sue prime avventure professionali.
Al termine del libro, Giorgi spiega come tutta quanta la sua vita sia stata mossa dall’ideale della formazione del carattere, un percorso consapevole in cui ogni occasione è stata utile per mettersi alla prova. “Tutto ciò che non ci uccide ci rende più forti”, ricorda commosso, “erano le parole di Nietzsche che tante volte mi aveva ripetuto il mio professore di tedesco e di filosofia a Tatura”.  Una visione della vita che non si chiude però mai nell’individualismo: “La mia speranza – è il suo messaggio – è che chi legge si renda conto che la formazione personale di ciascuno di noi non è circoscritta ai posti e ai tempi che gli sono toccati in sorte, ma che essa attinge a un forziere ricchissimo e prezioso, pieno di tutte le storie delle persone per noi importanti che ci hanno preceduto e che hanno vissuto in altre epoche e in altri mondi, così lontani e diversi, apparentemente”.

1914-2014: dal Piave a Caporetto e viceversa

$
0
0

 

La “Grande Guerra” delle Banche.

Tutti pronti per le celebrazioni a ricordo del 24 maggio 1915?

Bene.

Ma che cosa si deve celebrare?

Sono passati cento anni e molti italiani hanno le idee tutt’altro che chiare, ignorando i fatti basilari che compongono la storia della prima grande guerra civile europea, denominata amichevolmente “Grande Guerra”.

Il paradosso è che se taluni italiani celebrano il primo passo che portò alla conquista delle cosiddette “terre irredente”, fanno finta che oggi non sia in corso l’invasione dell’Italia. Tale invasione in piena regola è programmata dai “poteri forti” extranazionali e autorizzata dal nostro “stato fantasma italiano”, nonché fortemente voluta dal Vaticano, Stato tutt’altro che fantasma.

Tali italiani dimenticano, altresì, che l’Italia è governata da circa 114 basi militari operative americane. Difatti gli Americani ce li abbiamo “in casa” dal 1943 e da allora non se ne sono più andati dal momento che la Seconda Guerra Mondiale l’abbiamo persa e l’Italia non è stata certo “liberata”, ma occupata militarmente. E, questo, con buona pace dei presunti e presupposti “liberatori” partigiani nostrani che hanno fatto gli interessi di Russi, Americani e logge massoniche in generale, ma non certo dell’Italia e del Popolo italiano.

Ma torniamo agli antefatti della “Grande Guerra”, tutt’altro che disgiunti da quanto appena espresso.

In primo luogo la gran parte degli Stati e dei Regni che prendono parte alla Prima Guerra Mondiale sono tali solo di facciata: unitamente ai loro rispettivi Popoli sono stati da tempo “venduti” alle banche private.

Spieghiamo brevemente questo passaggio per chi non sapesse che cosa sia il signoraggio della moneta e ancora oggi creda che la Banca d’Italia sia dello Stato Italiano, quindi del Popolo (sull’argomento vedere utilmente: Consoli Mario, Debito pubblico e sovranità monetaria, in l’Uomo libero, n. 72, Cittiglio -Varese- 2011, pp. 11-46).

Tra la fine del XVII secolo e il XIX secolo il potere di coniare moneta passa da taluni Stati e Regni alle banche private ed ecco che i debiti per usura aumentano ovunque in modo esponenziale. La Banca d’Inghilterra è privata ed è fondata nel 1696. A questa seguono altre banche private quali, ad esempio, il Banco di San Carlo di Madrid (1782), la Banca di Francia (1800), la Banca d’Italia (1893).

Dal momento che tutto gravita attorno e attraverso il denaro, rimane chiaro che il proprietario del denaro pubblico (ovvero le banche private), è il proprietario dello “stato” o, almeno, ne influenza in modo determinante l’andamento. In pratica la cosiddetta “Grande Guerra” è stata orchestrata dalle banche private, da industriali, da faccendieri della finanza. Ma, soprattutto, dalla massoneria internazionale.

Con quale risultato?

Si sono abbattute le monarchie europee che potevano creare un serio ostacolo al liberismo e al cosmopolitismo e, soprattutto, si sono ammazzati milioni di giovani. Si è, per così dire, versato il migliore e più vigoroso sangue dei giovani europei. Gli orchestratori lo hanno versato sulla pietra del dio del Caos, sull’altare di Baal, nel tofet di Moloch.

 

 

Gli insospettabili.

Il Regno d’Italia è retto da Casa Savoia, d’affiliazione massona, dipendente dall’Inghilterra. E così pure molti ufficiali dello Stato Maggiore. D’altra parte i moti indipendentisti e irredentisti italiani sono stati sempre guidati dalla massoneria, suddivisa in logge di varie tendenze, o “obbedienze”.

Alla data del 1902 il renitente alla leva e antimilitarista Benito Mussolini scappa in Svizzera. L’anno dopo è arrestato a Berna per attività sovversiva e al museo ne conservano ancora i documenti. Intanto frequenta Vladimir Il’ic Uljanov, alias Nikolaj Lenin, il quale diverrà uno dei fautori della rivoluzione comunista russa dei primi del Novecento e della trasformazione dell’impero russo in Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche (URSS).

Poi Benito Mussolini rientra a casa approfittando di un’amnistia, assolve gli obblighi di leva e il generale piemontese Fiorenzo Bava Beccaris lo appoggia in parlamento. Bava Beccaris era giunto alle massime onorificenze concedibili da casa Savoia per aver represso nel sangue la sollevazione popolare di Milano nel 1898. Con poco più di diecimila soldati ai suoi ordini e tra attacchi alla baionetta e cariche di cavalleria raggiunse le ambite medaglie facendo sparare sui milanesi con i cannoni, a palla piena e a mitraglia. Tanto quelli erano disarmati. Si ricorda che la rivolta del Popolo Italiano del 1898 s’era accesa in Sicilia, a Siculiana, per il rincaro dei generi alimentari, la mancanza di lavoro e le tasse salate da pagare; fattori, questi, che hanno sempre caratterizzato casa Savoia prima e casa Italia dopo.

Sul finire del 1914 Benito Mussolini si fa acceso promotore dell’entrata in guerra contro i nostri alleati tedeschi ed austroungarici fondando i «fasci di azione rivoluzionaria».

Se poi qualcheduno afferma che l’Internazionale socialista non voleva la guerra, si ricordi che proprio chi tirava le fila del socialismo e del comunismo preparava lo scontro che avrebbe irreversibilmente ribaltato i giochi politici ed economici dell’Europa e, a cascata, del resto del mondo.

 

 

I primi passi.

Il 28 giugno 1914 a Sarajevo, capitale della provincia austro-ungarica della Bosnia, l’arciduca Francesco Ferdinando, erede al trono austriaco, e sua moglie Sofia, duchessa di Hohenberg, sono uccisi a colpi di pistola dal serbo-bosniaco Gavrilo Princip, facente parte di un gruppo di agitatori armati dalla Mano Nera e sui quali non s’è mai indagato abbastanza.

È l’inizio della Prima Guerra Mondiale.

Difatti, il giorno stesso, l’Austria-Ungheria dichiara guerra alla Serbia, il 1o agosto la Germania la dichiara alla Russia e il 3 agosto alla Francia. Il 4 agosto l’Inghilterra dichiara guerra alla Germania.

Ma quali sono i principali schieramenti europei?

Il regno d’Italia fa parte della Triplice Alleanza assieme all’Impero d’Austria e Ungheria e all’Impero di Germania. Da trattato con essi non siamo tenuti ad entrare in guerra al loro fianco. Dalla parte opposta abbiamo la Triplice Intesa, costituita da Inghilterra, Francia e Russia.

Gli Stati Uniti d’America entrano in guerra il 2 aprile 1917, accanto alla Triplice Intesa, ma non come alleati, bensì in qualità di “semplici partecipanti”, con il diritto di ritirarsi qualora lo reputino opportuno e soprattutto mirando a fare i soli propri esclusivi interessi, forti del materiale bellico che possono mettere in campo.

La massoneria italiana preme affinché si promuova, invece, l’ingresso del regno d’Italia contro gli alleati e così avviene: il 23 maggio 1915, con effetto a decorrere dal 24, l’Italia entra in guerra, ma solo contro l’Austria-Ungheria.

Il Deutsches Alpenkorps si prepara a scendere in Italia per dare man forte agli alleati austroungheresi e il giorno 23 maggio 1915 truppe bavaresi varcano lo spartiacque alpino. Le truppe italiane occupano Cortina d’Ampezzo e si spingono verso nord scontrandosi non solo contro truppe austriache, ma anche tedesche. Il tutto pare non increspare i rapporti diplomatici tra Italia e Germania e solo il 27 agosto 1916 si ha la dichiarazione di guerra dell’Italia alla Germania. Non è un po’ strano tutto cio’?

L’inadeguatezza dell’armamento italiano e l’incapacità e l’insipienza degli “alti” ufficiali italiani sono cose note, lasciando comunque sulla bocca la lecita domanda: erano proprio così “incapaci”, oppure c’era dell’altro?

 

 

Caporetto, repetita iuvant.

Recentemente la Edizioni Res Gestae ha ripubblicato un libro di Saverio Cilibrizzi: «La disfatta di Caporetto. I responsabili tra storia e leggenda. Cadorna Capello e Badoglio», lavoro edito nel 1947 a Napoli e il cui titolo era: Caporetto nella leggenda e nella storia. I maggiori responsabili Cadorna Capello e Badoglio.

Il testo principia analizzando la situazione dell’esercito austro-ungherese a seguito dell’11a Battaglia dell’Isonzo, anche nota come Battaglia della Bainsizza, avvenuta tra il 18 agosto e il 12 settembre 1917. Le truppe italiane avevano conquistato l’Altopiano della Bainsizza e, vista la situazione generale del fronte, gli Austro-Ungheresi chiedono aiuti ai Tedeschi per poter sferrare a loro volta un attacco e proprio nel settore tenuto dai generali Cadorna, Capello e Badoglio.

Brevemente, si ricorda chi siano stati i tre generali oggetto del libro.

- Luigi Cadorna, conte (Pallanza 1850 – Bordighera 1928). È figlio del conte e generale Raffaele Cadorna (1815-1897), il cui fratello Carlo Cadorna (1809-1891) è un politico, liberale, seguace di Camillo Benso conte di Cavour, ministro dell’Istruzione Pubblica (1848-1849 e 1858-1859) e dell’Interno (1868), capo del centro-sinistra, presidente della Camera (1857), ambasciatore a Londra (1868-1875) e Presidente del Consiglio di Stato. Luigi Cadorna, Senatore nel 1912, nel luglio 1914 è nominato capo di Stato Maggiore dell’Esercito. Cura le fasi finali della cosiddetta «Frontiera Nord», nota oggi con il nome di «Linea Cadorna». A seguito della “disfatta di Caporetto” è sostituito al comando dal generale Armando Diaz. Nel 1924 diviene Maresciallo d’Italia. Suo figlio, Raffaele Cadorna (1889-1973), conte, generale e politico, nel 1943 è comandante della divisione Ariete 2a e dopo l’8 settembre entra nella Resistenza, diviene capo di Stato Maggiore (1945-1947) e senatore.

- Luigi Capello (Intra 1859 – Roma 1941). Partecipa alla Campagna di Libia (Guerra Italo-Turca), è comandante del VI Corpo d’Armata nella Prima Guerra Mondiale, ma è posto “a riposo” a seguito della “disfatta di Caporetto”. Dai soldati è ricordato con il soprannome di «macellaio». Nel dopoguerra è prima favorevole al Fascismo, ma nel 1925 organizza con Tito Zaniboni un attentato a Benito Mussolini. È ricordato anche per l’organizzazione delle ronde a protezione delle sedi della massoneria.

- Pietro Badoglio, marchese del Sabotino (Gazzano Monferrato -oggi Gazzano Badoglio- 1871 – 1956). Partecipa alle Campagne di Eritrea e di Libia, nella Prima Guerra Mondiale diviene capo di Stato Maggiore della VI Armata. A seguito della “disfatta di Caporetto”, di cui è direttamente responsabile, è promosso sottocapo di Stato Maggiore dell’Esercito e collaboratore del generale Armando Diaz. Nel 1918 negozia l’armistizio di Villa Giusti, è Commissario Straordinario della Venezia Giulia nel corso delle vicende di Fiume, è senatore nel 1919 e tra 1919 e 1921 è Capo di Stato Maggiore dell’Esercito e si occupa della riorganizzazione delle opere difensive confinarie. Inoltre è ambasciatore in Brasile (1924-1925), capo di Stato Maggiore Generale nel 1925, maresciallo d’Italia nel 1926, governatore della Libia (1929-1933) e dal 1935 è comandante in capo delle truppe italiane in Libia. A seguito dell’arresto di Benito Mussolini re Vittorio Emanuele III gli affida la formazione del nuovo Ministero. Dopo l’armistizio annunciato l’8 settembre firma un successivo armistizio a Malta; il 13 ottobre 1943 dichiara guerra alla Germania, mantiene il “ministero tecnico” fino al 22 aprile 1944 ed ha l’appoggio di Palmiro Togliatti, comunista, nella formazione del nuovo governo italiano.

Ora limiterò le note al solo scritto in oggetto.

 

Ritiro delle artiglierie inglesi e francesi.

Così scrive Saverio Cilibrizzi: «Fin dal 21 settembre 1917, Cadorna, essendo stato informato che sulla linea dell’Isonzo arrivavano continuamente forze avversarie dal fronte russo, comunicò agli alleati ch’egli era costretto a sospendere qualsiasi offensiva per provvedere a “riordinare le forze e predisporre una salda difesa ad oltranza su tutta la fronte”» (Cilibrizzi Saverio, La disfatta di Caporetto. I responsabili tra storia e leggenda. Cadorna Capello e Badoglio, Edizioni Res Gestae, Milano 2014, p. 10).

In effetti varie fonti rendono successivamente informato lo Stato Maggiore dell’Esercito Italiano sul fatto che si sta preparando un’offensiva e per l’esattezza nel settore che comprende la Conca di Plezzo e Caporetto.

Ma Francia e Inghilterra comunque «non solo non credettero ad un prossimo attacco austriaco, ma si fecero anche un dovere di ritirare i 99 cannoni di medio e grosso calibro, inviati, alcuni mesi prima, sul nostro teatro di operazioni. E la richiesta del ritiro di questi pezzi di artiglieria venne fatta con un linguaggio secco, che dette chiaramente la “impressione di durezza voluta”» (Ivi).

 

Sfondamento del fronte dell’Isonzo.

Il 24 ottobre 1917 principia l’attacco avversario contro le forze italiane. Il 25 ottobre «il generale Capello, ammalato di nefrite e febbricitante, lasciò al generale Montuori il comando della 2a Armata (nota n. 41: Si tenga presente che Capello, per la identica ragione, si era dovuto allontanare dal suo posto anche il 20 ottobre. Egli era poi ritornato al comando dell’armata il giorno 23, ossia dopo le interessanti rivelazioni fatte in merito al piano nemico da due ufficiali rumeni disertori)» (Ibidem, p. 13).

A disfatta avvenuta si cercano i colpevoli: «Ma che cosa fu Caporetto? Si trattò di un “tradimento”, di uno “sciopero militare” o di una “sconfitta militare” vera e propria?» (Ibidem, p. 21).

Pochi giorni dopo, il 28 ottobre, il bollettino di guerra redatto da Luigi Cadorna recita: «“La mancata resistenza di reparti della 2° Armata, vilmente ritiratisi senza combattere o ignominiosamente arresisi al nemico, ha permesso alle forze austro-germaniche di rompere la nostra ala sinistra sulla fronte Giulia”» (Ibidem, p. 25).

D’avviso contrario sono stati i nostri diretti avversari.

In pratica si fa ricadere ogni colpa sul soldato italiano e la qual cosa non manca di fare il “giro” del mondo intero.

E Cilibrizzi scrive: «Luigi Cadorna doveva pensare che il prestigio e l’orgoglio di qualsiasi uomo sono ben poca cosa di fronte al prestigio e all’onore di un esercito e di una Nazione» (Ibidem, p. 29), ma soggiungendo: «Prima ancora di Cadorna, fu il generale Capello ad affermare che Caporetto era dovuto ad una specie di “sciopero militare”. Il Maresciallo d’Italia Enrico Caviglia ha detto: “Il torto più grave del generale Capello fu d’aver attribuito la disfatta (confortando così il Comando Supremo ad esprimere lo stesso giudizio) alla scarsa resistenza delle truppe, e non già agli errori propri e di altri Comandi» (Ibidem, p. 30).

Sull’eroismo e sul sacrificio delle truppe italiane nel corso dell’offensiva avversaria e a seguito della “disfatta di Caporetto” si è scritto tanto, ma non abbastanza. E soprattutto si è scritto poco, in rapporto all’enormità del dramma, a proposito delle esecuzioni sommarie, effettuate da italiani, di ufficiali, sottufficiali e soldati italiani durante e a seguito del fatto d’armi.

Un passo per tutti riguardante Cadorna: «Particolarmente ingiusto e inumano fu, poi, il sistema repressivo delle decimazioni, sistema che implicava la fucilazione sia dei colpevoli, sia degli innocenti» (Ibidem, p. 96).

 

Le responsabilità.

Sfatate le storie sul “tradimento” e sullo “sciopero militare” e quant’altro, Cilibrizzi ribadisce le responsabilità del comando militare italiano e passa a quelli che a suo avviso, e non solo suo, sono i veri e principali responsabili: Cadorna Capello e Badoglio.

Certamente l’attacco avversario era ben congegnato e ancor meglio condotto, certamente i soldati italiani erano stanchi e provati dalla vita di trincea e dai sanguinosi recenti eventi della Battaglia della Bainsizza, certamente vi sono state divergenze sulla strategia e sulla tattica da adottarsi, certamente ordini fondamentali sono stati ignorati e altri male interpretati. Ma i dati di fatto rimangono.

Krafft von Dellmensingen, generale tedesco, «non ha potuto, logicamente, non meravigliarsi che il Capo di Stato Maggiore italiano si sia astenuto dal far sgombrare le posizioni più avanzate, in vista del temuto attacco» (Ibidem, p. 47).

E poi la questione del «dissidio e del funesto equivoco tra Cadorna e Capello» (Ibidem, p. 49), nota e variamente argomentata da Cilibrizzi, si può sostanzialmente esprimere così: «La Commissione d’inchiesta su Caporetto ha ritenuto Capello responsabile di “non aver tempestivamente valutata la minaccia incombente sull’estrema ala sinistra della 2a Armata e di non avere con sincera disciplina di intelligenza assecondato il concetto difensivo del Comando Supremo”» (Ibidem, p. 56).

In pratica il 18 settembre Luigi Cadorna invia a Luigi Capello, comandante della 2a Armata, e ad Emanuele Filiberto duca d’Aosta, comandante della 3a Armata, la comunicazione in cui «è contenuto l’ordine tassativo di sospendere ogni operazione offensiva e di fare, nel tempo stesso, tutti i preparativi necessari per la difesa ad oltranza» (Ibidem, p. 49).

Luigi Capello non obbedisce in toto, ma Cilibrizzi non giustifica: «Del resto, in base al principio dell’unità di comando, Cadorna doveva, a tutti i costi, farsi obbedire in tempo da Capello» (Ibidem, p. 57).

 

«Le tremende responsabilità di Pietro Badoglio nello sfondamento della fronte giulia».

Questo è il titolo del quarto capitolo, dedicato a Pietro Badoglio, che così ha inizio: «Eccezionalmente gravi furono, in quella circostanza, le colpe di Pietro Badoglio, comandante del 27° Corpo d’Armata» (Ibidem, p. 59).

Dopo l’elencazione delle qualità militari del generale, Cilibrizzi passa alle responsabilità: «Cadorna ha detto che Capello non fu il “solo” a disobbedire a Caporetto. Questa è la verità. E se si vuole essere veramente giusti, bisogna aggiungere che, molto più di Capello, venne meno allo spirito di disciplina e di obbedienza il generale Badoglio. Capello, sia pure con ritardo, finì col piegarsi alla volontà di Cadorna. Badoglio, invece, per la sua sconfinata ambizione, persistette nell’idea della controffensiva in grande stile, e “meditò iniziative temerarie, contrastanti col piano di difesa”» (Ibidem, p. 60).

Più avanti, ecco le accuse.

La prima è di avere dislocato, in contrasto con gli ordini di Luigi Cadorna, la 19a Divisione davanti a Tolmino e alla sinistra dell’Isonzo tre Divisioni.

La seconda accusa riguarda il contestabile impiego della Brigata Napoli, la terza è il mancato impiego delle artiglierie. Gli avversari ne rimasero sorpresi, ma ancor di più lo furono le truppe italiane che occupavano il settore, difatti: «L’ultimo ordine di Capello era singolarmente chiaro: esso imponeva sia il tiro di contropreparazione, sia il tiro di sbarramento. Inoltre, il fuoco di contropreparazione doveva iniziarsi mentre il nemico eseguiva quello di preparazione» (Ibidem, p. 70).

Un fatto per tutti: a seguito di una intercettazione telefonica avversaria il «colonnello Cannoniere, alla presenza dei maggiori Di Castro e De Luca e del capitano Crivelli, domandò, per telefono, a Badoglio – che si trovava a Kosi – l’autorizzazione di cominciare senz’altro il tiro di contropreparazione alle ore 2 della notte. Badoglio respinse, in modo categorico, la proposta. Egli disse: “Assolutamente non si cambi nulla; abbiamo munizioni per soli 3 giorni. E non so se te ne potrò fare avere. Ad ogni modo, ci vedremo”» (Ibidem, p. 73).

Se ci si attendeva un’offensiva è chiaro che si sarebbe dovuto provvedere a fare giungere per tempo alle batterie un congruo quantitativo di munizioni. In ogni caso si doveva rispettare gli ordini e, anche in loro mancanza, fare fuoco sull’avversario avanzante.

 

L’ultima accusa mossa a Badoglio.

Abbiamo appena visto che Badoglio si trova a Kosi, quando riceve la telefonata. Quindi?

Risponde Cilibrizzi: «La questione del silenzio dei cannoni e del rapido sfondamento del settore tenuto dal 27° Corpo d’Armata apparirà ancora più chiara quando avremo esaminata la quarta ed ultima accusa fatta a Badoglio. Tale accusa supera, per la sua eccezionale gravità, tutte le altre messe insieme. Si tratta, nientemeno, di questo: la notte del 23 e la giornata del 24 ottobre 1917, Badoglio non era la suo posto di comando. Dove si trovava? Egli era nel villaggio di Kosi, luogo di riposo» (Ibidem, p. 72).

Forse questo particolare di rilievo non lo si è ricordato, e non lo si ricorda, con sufficiente attenzione.

Così riprende Cilibrizzi: «Sicché la sera del 23 ottobre, questo generale, pur sapendo che, durante la notte sarebbe stato iniziato il grande attacco nemico, non sentì il dovere di recarsi al suo posto tattico di comando, che si trovava sul Monte Ostri Kras, e andò invece, in un luogo di riposo. Ciò sembra addirittura inverosimile» (Ivi).

Le successive considerazioni dell’Autore sono tutte da leggere.

Il lavoro documentato, consequenzialmente chiaro ed accurato di Saverio Cilibrizzi si chiude con un capitolo dedicato alle ripercussioni della “disfatta di Caporetto” sull’Esercito e sullo Stato italiani.

La chiara domanda da porsi, da parte di chiunque studi la Storia, di chi oggi segua le commemorazioni della Grande Guerra, di chi desideri comprendere appieno il nostro attuale stato di precarietà, è una sola: come mai Pietro Badoglio non viene poi esautorato dal comando?

Anzi, questo generale compie una incredibile carriera sia militare sia politica.

Non solo: come mai nel 1924 Luigi Cadorna diviene Maresciallo d’Italia?

Le responsabilità, a questo punto dell’intero comando italiano, ma soprattutto di Casa Savoia, sono e restano innegabili.

 

 

Caporetto: vittoria mancata della massoneria.

La Storia, o storia con la esse minuscola, che ci hanno dispensato gli organi ufficiali, è proprio la nuda e cruda cronaca di quanto è realmente accaduto?

Come spiegare la conduzione della guerra, da parte italiana, culminata con l’inconcepibile disastro di Plezzo – Caporetto?

Proviamo a formulare un’ipotesi, per quanto incredibile possa apparire di primo acchito.

Caporetto poteva essere la vittoria di una certa massoneria italo-anglo-americana già in quel fatidico 1917. Ma così non fu.

Presso lo Stato Maggiore dell’Esercito Italiano era nota la preparazione di una offensiva austriaca, e questo lo si ribadisce.

I fatti d’arme seguenti sono anch’essi noti. Le truppe austriache attaccarono il settore Conca di Plezzo – Caporetto e fecero crollare l’intero fronte italiano, ma l’offensiva austriaca fu arrestata sul Monte Grappa, dove i nostri soldati resistettero in quella fascia di poche centinaia di metri che ancora rimaneva in loro possesso. Un vero miracolo d’eroismo.

Il fiume Piave fu passato in alcuni settori dalle truppe austriache avanzanti, ma le loro teste di ponte dovettero poi arretrare sulla sponda est, alla sinistra orografica del fiume. Sull’altra sponda le truppe italiane si poterono quindi riorganizzare e preparare la contro offensiva.

A questo punto gli Stati Uniti d’America inviarono sul fronte italiano delle truppe di rinforzo, unitamente ad altri stati alleati, oltre alle poche truppe “straniere” già presenti.

Sono del fermo parere che qualcuno, negli alti comandi anche italiani, abbia pianificato con cura la disfatta di Caporetto, calcolando che le truppe italiane (male dislocate e peggio comandate) non avrebbero sostenuto l’offensiva e sarebbero state letteralmente sbriciolate. Gli avversari avrebbero potuto dilagare fino al Mincio o addirittura penetrare nella Pianura Lombarda.

Il Regno d’Italia, o meglio Sabaudo, avrebbe così beneficiato dell’immediato e assolutamente massiccio intervento di truppe “alleate” e soprattutto statunitensi al fine di riconquistare il Nord Italia.

In pratica, la disfatta era stata programmata.

Ma un pugno di soldati resse sul Monte Grappa.

Una volta giunti in Italia i contingenti militari alleati, soprattutto statunitensi, non se ne sarebbero più andati. Si è dovuta combattere una seconda guerra mondiale per poter occupare militarmente e stabilmente il suolo italiano, ovvero per mantenersi saldamente sulla «portaerei del Mediterraneo».

Ancor’oggi non siamo uno Stato libero, ma soggetto al diktat militare statunitense e più di cento basi militari straniere sul nostro suolo parlano chiaro.

Solo che il Popolo italiano non desidera ascoltare.

 

 

Considerazione finale.

Credo che oggi l’attenzione debba essere spostata soprattutto su di un altro piano, tanto per fare chiarezza sulle commemorazioni liberative delle «terre irredente», che i nostri media ci propinano “a pioggia”.

Per quale motivo milioni di persone sono morte?

Non certo per la cosiddetta “patria”.

Lo spazio sulla Madre Terra va misurato in cadaveri?

Le cosiddette «terre irredente» necessitavano di essere scambiate con 650.000 morti e un paio di milioni di feriti?

Quanti furono invece i “dispersi”?

Quanti furono i soldati italiani processati e fucilati per “diserzione”, “disubbidienza” o altro?

Quanti civili inermi persero la vita nel corso del conflitto?

A quanto ammontarono le perdite causate da noi italiani all’avversario austroungarico e tedesco?

Un palmo di terra vale la vita di un essere umano?

No, nel modo più assoluto!

E così concludo, ripetendo la domanda: che cosa si deve celebrare il giorno 24 maggio 2015?

 

 

 

Viewing all 569 articles
Browse latest View live