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Il “caso Williamson” fu un complotto per screditare il pontificato di Benedetto XVI

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Richard Williamson era un professore inglese di lettere, nato nel 1940, mentre le bombe tedesche cadevano su Londra, in una famiglia anglicana; dopo essersi laureato a Cambridge, scelse di trasferirsi in Africa e insegnò per un certo tempo nel Ghana. In Africa venne a contatto con il giornalista e scrittore Malcolm Muggeridge (1903-1990), che si era convertito al cristianesimo dopo una vita da scettico e agnostico e che, nel 1969, aveva fatto scalpore pubblicando il libro-manifesto: «Jesus Rediscovered» (di lui ci siamo già occupati in un precedente articolo: cfr. «Nell’ebbrezza dell’uomo di farsi Dio la nemesi d’una intelligenza senza amore», pubblicato sul sito di Arianna Editrice in data 20/03/2013). Questo incontro esercitò un’influenza decisiva sul giovane professore, che, trentenne, si convertì a sua volta al cattolicesimo e volle entrare nel seminario di Ecône, in Svizzera, che l’arcivescovo francese Marcel Lefebvre aveva aperto poco prima, nel 1969, come parte della sua battaglia contro quelli che riteneva gli errori e le deviazioni, anche dottrinali, del Concilio Vaticano II e della stagione immediatamente successiva.

Ordinato sacerdote nel 1976, Williamson aveva fatto una rapida carriera all’interno della Fraternità Sacerdotale San Pio X, la società tradizionalista fondata a Friburgo nel 1970, inizialmente con l’approvazione del vescovo di Losanna, François Carrière – riconoscimento poi ritirato dal vescovo Pierre Mamie, nel 1975 -, tanto da divenire rettore del seminario di Ridgefield, negli Stati Uniti (Connecticut), poi di quello di Winona (Minnesota) e infine, il 30 giugno 1988, da essere nominato vescovo, insieme ad altri tre sacerdoti, proprio da Lefebvre e dal vescovo tradizionalista brasiliano Antonio de Castro Mayer: atto che provocò immediatamente la scomunica “latae sententiae” sia di Lefebvre e Castro Mayer, sia dei quattro neo-eletti vescovi.

Ciascuno di essi era stato avvertito delle conseguenze del passo che stava per compiere, per cui il provvedimento non giunse affatto inaspettato: dal 1° luglio 1988, pertanto, si suole datare l’inizio della fase acuta dello scisma lefebvriano; anche se lo stesso Lefebvre era stato sospeso “a divinis” da Paolo VI fin dal 1976 Gli altri tre scomunicati erano lo svizzero di madrelingua francese Bernard Fellay, superiore della Fraternità; il francese Bernard Tissier de Mallerais; e l’argentino di origine spagnola Alfonso de Galarreta. La scomunica, emessa dalla Congregazione dei vescovi il 1° luglio, era stata subito dopo confermata da Giovanni Paolo II con un “motu proprio” del 2 luglio, intitolato “Ecclesia Dei”. Era stato un cardinale africano, il prefetto per la Congregazione dei vescovi, Bernard Gantin – primo africano nella storia a capeggiare un dicastero vaticano -, ad ammonire Williamson e gli altri che, se avessero accettato la consacrazione episcopale dalle mani di monsignor Lefebvre, sarebbero incorsi nella scomunica. Il neo-vescovo, tuttavia, respinse la validità della scomunica, affermando che la gravità della crisi esistente nella Chiesa cattolica rendeva necessaria la consacrazione di nuovi vescovi ligi alla sacra Tradizione. Più tardi, nel 2003, Williamson passò a dirigere il seminario “tradizionalista” di La Reja, in Argentina.

Lefebvre morì di cancro nel 1991, scomunicato; al suo funerale, tuttavia, erano presenti alcuni alti personaggi del clero cattolico, che benedissero la salma. Le cose stavano a questo punto allorché, dopo l’elezione al soglio pontificio di Benedetto XVI, una lettera di Monsignor Fellay, alla fine del 2008, aprì la strada a un tentativo di riconciliazione, cui Ratzinger teneva molto. Al principio del 2009 - erano passati diciotto anni dalla morte di monsignor Lefebvre e trentatré dall’inizio dello scisma, con la sospensione “a divinis” del fondatore della Fraternità Sacerdotale San Pio X - il papa rimise ufficialmente la scomunica ai vescovi scismatici, mediante un decreto della Congregazione per i vescovi, recante la data del 21 gennaio. «Questo dono di pace, al termine delle celebrazioni natalizie – affermava il documento – vuol essere anche un segno per promuovere l’unità nella carità della Chiesa universale e arrivare a togliere lo scandalo della divisione».

Tutto è bene quel che finisce bene, dunque? Niente affatto. Il gesto di Benedetto XVI venne immediatamente criticato come un cedimento gravissimo e come il segnale di un malcelato desiderio di “restaurazione” della Chiesa pre-conciliare: il capofila degli “indignati” era stato il teologo svizzero Hans Küng, che nel 1979 era stato espulso dalla facoltà cattolica e che si era segnalato quale acerrimo avversario del Primato pontificio, del culto mariano, dell’unicità salvifica di Cristo, nonché come possibilista sull’eutanasia e favorevole al sacerdozio femminile e ad una ulteriore “apertura” verso l’ebraismo e l’islamismo. Il Gran Rabbinato (la massima autorità religiosa dello Stato d’Israele), da parte sua, pochi giorni dopo, faceva sapere di voler interrompere qualsiasi colloquio con il Vaticano.

Che cos’era successo? Perché, per provocare una simile insurrezione generale, la sola remissione della scomunica ai quattro vescovi lefebvriani non poteva essere sufficiente: non formalmente, almeno; anche se è molto probabile che la decisione di Benedetto XVI sia stata più che sufficiente a scatenare quanti lo consideravano un papa reazionario e quasi un avversario ideologico, bramoso di scardinare la teologia e la stessa liturgia post-conciliare (cercando di ripristinare la messa in latino) e, quindi, meritevole di essere combattuto senza esclusione di colpi da parte dell’ala “progressista” (e neo-modernista) del clero e del laicato cattolico. E si tenga presente che la remissione della scomunica non restituiva “ipso facto” ai quattro vescovi la pienezza delle loro funzioni, poiché rimaneva in vigore, nei loro confronti, la sospensione “a divinis”, vale a dire il divieto di celebrare i sacramenti, ivi compreso il Sacrificio della Messa. Eppure, anche quella modesta apertura era sembrata troppo grande ai “progressisti”: era parsa loro come un affronto, come una sfida insopportabile, cui bisognava reagire con la massima energia.

Ed ecco il complotto.

Monsignor Williamson, già da moltissimo tempo, era venuto all’attenzione dei media, e specialmente dei cattolici “progressisti”, non tanto per ragioni strettamente religiose o pastorali, ma per via delle sue opinioni personali riguardo al genocidio degli Ebrei durante la Seconda guerra mondiale, espresse fuori dell’ambito spirituale. Nel 1989 (e dunque appena un anno dopo la sua nomina a vescovo da parte di monsignor Lefebvre), Williamson, nel corso di un dibattito pubblico avvenuto a Sherbrooke, nel Québec, aveva sostenuto che, a suo parere, nessun Ebreo era morto nelle camere a gas. La Polizia canadese aveva aperto una inchiesta al riguardo, che però era stata archiviata. Ad ogni modo, l’arcivescovo cattolico di Halifax, James Maertin Hayes, si era affrettato a spedire un telegramma al Congresso ebraico canadese, per dissociarsi da quelle affermazioni. Tali erano le opinioni di Williamson, né egli era uomo da tenerle nascoste: eppure passarono quasi vent’anni prima che la “bomba” scoppiasse; e qualcuno fece in modo che scoppiasse a tempo debito, ossia quando il Vaticano aveva appena reso noto il provvedimento di revoca della scomunica.

Bisogna arrivare al 1° novembre 2008, infatti, perché Williamson, mentre si trovava in Germania, presso Ratisbona, nel corso di una intervista alla televisione di Stato svedese, ribadisse il suo punto di vista sulla questione dell’antisemitismo e del genocidio; dopo di che, la televisione svedese tenne la registrazione dell’intervista nel cassetto per quasi tre mesi, per mandarla in onda solo il 21 gennaio 2009: esattamente lo stesso giorno in cui la revoca della scomunica veniva notificata ai quattro vescovi lefebvriani e resa di pubblico dominio (con le reazioni che sappiamo). Due giorni prima (due giorni PRIMA), il settimanale tedesco «Der Spiegel», notoriamente anti-cattolico, aveva già pubblicato il contenuto dell’intervista stessa: un’altra coincidenza significativa.

Ma perché il giornalista svedese Ali Fegan volle che Williamson ritornasse sulle sue affermazioni di vent’anni prima, quelle che già avevano destato scalpore in Canada, ma che erano state ormai pressoché dimenticate? Fu forse un tranello, nel quale Williamson entrò con entrambi i piedi, senza rendersi conto delle reali intenzioni di colui che gli faceva quelle insidiose domande? Certo è che, dopo la registrazione dell’intervista, le notizie relative al suo contenuto cominciano a filtrare. Qualcuno già metteva le mani avanti, si cominciavano a fare dichiarazioni, smentite, prese di distanza.

Si è trattato di una tempistica eccezionalmente sincronizzata: e di una coincidenza davvero troppo sbalorditiva, perché sia possibile ritenerla solamente tale. Adesso tutto il mondo veniva a sapere che Benedetto XVI aveva tolto la scomunica a un vescovo negazionista, il quale sosteneva l’inesistenza delle camere a gas naziste; insomma, che il Papa aveva voluto incoraggiare l’antisemitismo, o quasi.

Riportiamo alcuni passaggi del libro-intervista del giornalista tedesco Petr Seewald «Luce del mondo. Il Papa, la Chiesa e i segni dei tempi. Una conversazione con Peter Seewald» (edizione italiana a cura di Pierluca Azzaro, Libreria Editrice Vaticana, 2010, pp. 173-179):

 

«D. Per quattro anni il Papa, mi si passi il termine, aveva fatto un buon lavoro.

D. Se avesse saputo che fra quei vescovi ve ne era uno che negava l’esistenza delle camere a gas naziste, avrebbe firmato la revoca della scomunica?

R. No. Si sarebbe innanzitutto dovuto separare il caso Williamson dagli altri, ma purtroppo nessuno di noi ha guardato su ”internet” e preso coscienza di chi si trattava.

D. Ma prima di revocare una scomunica non si dovrebbero passare alla lente di ingrandimento le persone e la loro condotta di vita, a maggior ragione se si tratta di una comunità che, a causa del suo isolamento, ha avuto uno sviluppo discutibile, sia dal punto di vista teologico sia da quello politico?

R. È giusto affermare che Williamson è una figura particolare in quanto non è mai stato cattolico nel senso proprio del termine. Era anglicano e dagli anglicani è passato direttamente a Lefebvre. Significa che non ha mai vissuto in comunione con tutta la Chiesa universale, in comunione con il Papa. Le autorità competenti spiegarono che i quattro vescovi desideravano riconoscere il Primato senza riserve. Certo, con il senno di poi si è sempre più intelligenti.

D. Oggi si fa strada il sospetto che si sia trattato di un complotto per danneggiare il Papa quanto più possibile. Anche la sequenza dei fatti sembra suffragare una simile ipotesi. [nota del testo: il decreto di scomunica reca la data del 21 gennaio 2009. Era già stato notificato il 20 gennaio. Proprio il 21 gennaio, quindi nello stesso momento in cui il decreto è nelle mani dei vescovi della Fraternità e quindi non si può più ritirare, la televisione svedese manda in onda per la prima volta la fatale intervista, nella quale Williamson nega che le camere a gas naziste siano mai esistite. L’intervista era però stata registrata nel novembre del 2008. Williamson aveva dichiarato in precedenza che la Fraternità era grata per la “protezione” che garantiva la scomunica. Essa metteva al sicuro dal pericolo del contagio da parte dei neo-modernisti in Vaticano. Poiché l’intervista fino ad allora non era mai stata mandata in onda, nessuno in Vaticano poteva conoscerne i contenuti. Solo la messa in onda proprio il 21 gennaio fece scoppiare la bomba. Affinché esplodesse ben bene, evidentemente alcuni giornalisti erano stati preparati all’esplosione.] In ogni caso il danno è enorme. Per settimane, sui giornali osi susseguono titoli negativi. […] Come è possibile che quel suo gesto sia stato interpretato come rifiuto della riconciliazione fra cristiani ed ebrei?

R. Come ho scritto nella mia lettera successiva a quegli avvenimenti, è evidente che esiste un’animosità già pronta a esplodere, che attende solo che queste cose accadano per poi colpire con precisione. Da parte nostra è stato un errore non studiare e non esaminare a sufficienza la questione. Dall’altra parte, diciamo, si era pronti ad aggredire, e si era soltanto in attesa della propria vittima.

D. Subito in Vaticano si levarono voci autorevoli per chiarire che chi nega l’Olocausto non ha nulla a che fare con la Chiesa cattolica. Proprio due mesi prima, il 9 novembre, a Roma, Lei aveva commemorato il settantesimo anniversario della “Notte dei cristalli”. […] Il Segretario generale del Consiglio centrale degli Ebrei in Germania tuttavia giunse ad affermare che il Papa voleva “riammettere in società un negazionista”. Un giornalista ebreo parlò di riabilitazione di “attivisti antisemiti”. E definì il papa “un ipocrita”. La Presidente del Comitato centrale degli ebrei in Germania dichiarò finito al’istante il dialogo con la Chiesa cattolica. Questo caso non mostra anche quanto sia sottile la lastra di ghiaccio sulla quale si muove il rapporto con gli ebrei?

R. In ogni caso, bisogna riconoscere che ci sono sempre grandi timori e tensioni, che facilmente si può arrecare danno al dialogo e che facilmente esso può essere minacciato. Nell’ebraismo a livello mondiale, però, ci sono stati molti che si sono immediatamente affrettati a testimoniare che mai avrei “riammesso in società” un negazionista. Sono persone che mi conoscono. Per questo un’interruzione dei dialogo non andava presa in seria considerazione. Questo pericolo si è corso soprattutto in Germania, dove tra gli ebrei tedeschi vi è una sensibilità particolarmente forte ed anche una sorta di vulnerabilità nei confronti del papa. È chiaro che anche l’immagine generale che i tedeschi hanno del papa  è stata in qualche misura estesa al mondo ebraico, cosicché in quelle dichiarazioni si rispecchia non solo la situazione degli ebrei, ma anche quella tedesca.  […]

D. Angela Merkel, cancelliere protestante  del paese responsabile dell’Olocausto,  chiese al Vaticano di assumere una posizione  più chiara contro l’antisemitismo,.  Le dichiarazioni fatte sino ad allora non sarebbero state sufficienti.

R. Non voglio ritornare sull’argomento. A quanto pare, la Merkel era informata in modo insufficiente su quanto la Chiesa cattolica aveva detto e fatto nel frattempo.

D. Con particolare tristezza, più tardi Lei constatò che “perfino i cattolici che dovrebbero saperne di più hanno ritenuto doveroso colpirmi”.

R. È un fatto, fa parte della realtà del Cattolicesimo del nostro tempo che nella Germania cattolica esista un numero considerevole di persone che, per così dire, aspetta solo di poter colpire il Papa. Quello per cui dobbiamo seriamente adoperarci è lottare perché rinasca un consenso di fondo.»

 

Ma che cosa aveva detto, esattamente, Williamson, nell’intervista del 1° novembre 2008? Perché, non dimentichiamolo, fu questa l’esca che permise ai nemici di Benedetto XVI – nemici che, duole dirlo, erano annidati soprattutto nel mondo cattolico tedesco, e non fuori – di scatenare la loro campagna di “indignazione a orologeria”, mirante a screditare il suo pontificato e a danneggiare il più possibile il dialogo della Chiesa cattolica con l’ebraismo. Aveva detto, fra le altre cose: «Io credo che le prove storiche siano fortemente in contrasto con l’idea che sei milioni di ebrei siano stati uccisi nelle camere a gas, a seguito di un’indicazione di Adolf Hitler. Io credo che non siano esistite le camere a gas». Inoltre, aveva precisato che le vittime erano state, a suo parere, dalle 200.000 alle 300.000.

In un’altra intervista, rilasciata al «Catholic Herald», aveva detto di non credere alla versione ufficiale degli attentati dell’11 settembre 2001, ma di ritenere che a far crollare le Torri Gemelle fossero stati gli stessi servizi segreti statunitensi, e ciò per giustificare le successive campagne militari in Afghanistan e in Iraq. Inoltre aveva affermato di ritenere autentici i famosi Protocolli dei Savi Anziani di Sion. Dell’antisemitismo, aveva detto di ritenerlo una cosa cattiva se fondato su argomenti falsi, ma non cattivo se fondato su argomenti veri: perché quello che conta è la verità. Aveva aggiunto di non amare i nemici di Nostro Signore Gesù e di credere all’esistenza di un complotto giudaico globale per il dominio del mondo.

Le reazioni alla vicenda del gennaio 2009 erano state caratterizzate da un estremo isterismo, sia contro di lui, sia contro la Chiesa cattolica e il Papa, responsabili, secondo i media, di non essere stati abbastanza duri nel condannarlo, benché una nota vaticana avesse chiarito sin dal 4 febbraio, e nella maniera più chiara e recisa, la posizione di Benedetto XVI e di tutta la Chiesa, di condanna di Williamson e di riconoscimento della realtà storica del genocidio degli Ebrei. La stessa Fraternità sacerdotale di San Pio X, per bocca di monsignor Fellay, aveva condannato le parole di Williamson e preso provvedimenti a suo carico, culminati, nel 2012, nell’espulsione. Il Ministro degli Interni della Repubblica argentina, da parte sua (ma su pressione del rabbino capo di Buenos Aires, Daniel Goldman), aveva deciso di notificargli un provvedimento di espulsione nel termine di dieci giorni, provvedimento in base al quale, alla fine di febbraio, Williamson aveva dovuto realmente lasciare il Paese sudamericano e fare ritorno a Londra.

Un tribunale tedesco, quello di Ratisbona, lo aveva condannato al pagamento di una multa per le sue tesi negazioniste, sentenza poi annullata da un altro tribunale, la Corte d’Appello di Norimberga; la diocesi di Ratisbona lo aveva messo al bando perpetuo (e il suo vescovo, Gerhard Ludwig Müller, aveva definito Wiliamson “inumano” e “blasfemo”); il governo tedesco aveva minacciato di arrestarlo e processarlo; cinquanta membri del Congresso americano (tutti cattolici, si badi) erano insorti, chiedendo spiegazioni al Vaticano; anche Simon Wiesenthal, il noto cacciatore di criminali nazisti, aveva unito la sua voce al coro generale, chiedendo al Papa di confermare la scomunica di Williamson; e Angela Merkel, con l’aria della prima della classe, aveva dichiarato di ritenere insufficienti le spiegazioni vaticane e di desiderare una presa di posizione più esplicita di condanna dell’antisemitismo.

In molti, in troppi, vollero dire la loro, facendo a gara nello scagliare i loro anatemi sia contro Williamson (che aveva finito per chiedere scusa per aver provocato dolore ai familiari delle vittime del genocidio, ma non aveva voluto ritrattare il senso delle sue dichiarazioni, e dunque rimaneva confinato nel lebbrosario del politicamente scorretto), sia contro la “deriva” conservatrice, anti-conciliare e anti-ecumenica del Vaticano e di Benedetto XVI. La stampa cattolica “progressista”, «Famiglia cristiana» in testa, mise in guardia contro le gravi conseguenze che la revoca della scomunica a Williamson avrebbe avuto; e la stampa non cattolica e anti-cattolica si scatenò in un’orgia di critiche, nelle quali si mescolarono accenti irriverenti e insultanti nei confronti non solo del Papato, ma anche di Gesù Cristo e di Maria Vergine. Questi attacchi, però, non fecero notizia; l’unica notizia era il negazionismo di Williamson e la supposta “connivenza” di Ratzinger. Anche se, forse, le prove non verranno mai fuori, è evidente che si trattò di un complotto per indebolire l’immagine e l’autorevolezza del papa tedesco; e, vista la piega che hanno preso le cose in seguito, con la sua solenne rinuncia al pontificato, il 28 febbraio del 2013, sembra difficile negare che i suoi nemici abbiano raggiunto lo scopo che si prefiggevano. Che tali nemici fossero soprattutto dei cattolici, in particolare suoi connazionali, è la cosa più triste di tutte.

Un’altra cosa assai triste, di quella vicenda, sono state la malizia e l’ipocrisia con la quale tutti vollero far finta di non capire che di un complotto si trattava, e il conformismo, per non dire il servilismo, con il quale fecero a gara nel rincarare la dose degli attacchi e delle dichiarazioni scandalizzate, stracciandosi le vesti come Caifa nei Sinedrio. Ora che sono passati diversi anni, sommessamente, vorremmo fare una domanda un po’ ingenua, ma - probabilmente - assai scomoda: che cosa c’entrano le opinioni personali di un vescovo riguardo al genocidio degli Ebrei (che bisogna chiamare, per forza, Olocausto, o meglio ancora Shoah), per quanto discutibili e, in buona sostanza, sbagliate, ma insomma attinenti alla sfera di libertà democratica garantita a qualsiasi cittadino, con la sfera religiosa, e, in particolare, con la Chiesa cattolica? Un vescovo, a titolo personale, non ha diritto alle proprie opinioni storiche, politiche, filosofiche sociali, e così via? Possibile che, se le sue opinioni personali non incontrano il gradimento della maggioranza, esse possano venire utilizzate impunemente per screditare e delegittimare l’istituzione religiosa cui egli appartiene, oltre che la sua stessa persona e il suo ufficio?

L’arcivescovo Antonio Franco, delegato apostolico a Gerusalemme e in Palestina, l’8 marzo del 2009 dichiarò che «non è possibile essere cattolici e negare l’Olocausto». Con tutto il rispetto per la delicatezza estrema della sua posizione diplomatica nei confronti di Israele, tale dichiarazione ci sembra aberrante. Ci piacerebbe sapere se la stessa impossibilità, lo stesso “divieto” a essere cattolici, vale anche per quanti negassero, ad esempio, lo sterminio dei molti milioni di “kulaki” voluto da Stalin, o dei molti milioni di cinesi “reazionari” voluto da Mao; oppure per il genocidio dei popoli amerindi, degli aborigeni australiani, dei tasmaniani. Francamente, crediamo di no; bisognerebbe chiederlo a monsignor Franco. Ma allora, perché solo il negazionismo di Auschwitz è incompatibile con l’essere cattolici?

Quanta ipocrisia si è manifestata, in tutta questa vicenda; quanto piatto, avvilente conformismo ideologico; e quale penoso spettacolo di perfidia, proprio all’interno del mondo cattolico, ai danni di un Papa giudicato retrogrado, da una parte dei suoi stessi fedeli…

Una cosa, peraltro, si è vista con estrema chiarezza: quali sono i poteri intoccabili, quali sono le verità indiscutibili, davanti a quali Tavole della legge bisogna genuflettersi, oggi, se non si vuol finire sul libro nero ed essere spazzati via, oppure sottoposti a una campagna di mistificazione e di distruzione morale vera e propria. Un Papa, appena due anni fa, è stato costretto a deporre la tiara...


L’usura, per Pound, ha mosso guerra al mondo dal 1694, quando nacque la Banca d’Inghilterra

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Ezra Pound era un poeta: e i poeti, qualche volta (non sempre) vedono più lontano degli specialisti e dei “tecnici”, siano essi specialisti e “tecnici” della politica, dell’economia, della finanza, e perfino della scienza.

Quel che Pound aveva visto con folgorante chiarezza, pur nella modestia della sua cultura economica e finanziaria, era una cosa fondamentale, che, strano a dirsi, continua a sfuggire a molti economisti e a molti esperti del mondo finanziario; a meno che non sfugga loro intenzionalmente: ma allora ci troveremmo in presenza non di specialisti e di “tecnici” che, per un eccesso di specialismo, tecnicismo e riduzionismo, hanno perso di vista l’insieme, ma, molto più semplicemente e banalmente, di corrotti e traditori, che hanno venduto l’interesse generale in cambio di vantaggi personali. In breve, Pound si era reso conto che l’intera storia del mondo moderno è la storia di una lotta continua, incessante, senza quartiere, fra l’usura e il lavoro; guerra combattuta talvolta con le armi, più spesso con i tassi d’interesse sui prestiti che le banche concedono ai privati e perfino agli Stati sovrani, i quali ultimi, in cambio, cedono gradualmente quote della loro sovranità, indebitandosi sempre di più e accumulando un peso debitorio che, alla fine, li mette completamente alla mercé dei creditori.

Oggi la cosa è divenuta talmente palese, che anche l’uomo della strada ha finito per rendersene conto, o, quanto meno, per averne una certa qual consapevolezza, e sia pure incompleta e superficiale, sia pure priva di adeguati riscontri e conoscenze puntuali; negli anni Trenta del XX secolo ciò poteva anche non essere altrettanto evidente, specialmente per un poeta. Quel che aprì gli occhi a Pound non fu la crisi del 1929 in se stessa, ma la “scoperta” degli antichi statuti del Monte dei Paschi di Siena: di una banca, cioè, sorta proprio allo scopo di concedere prestiti a interesse moderato, e mirante non all’arricchimento sfrenato mediante il nodo scorsoio dell’usura nei confronti del debitore, ma avente lo scopo preciso di sostenere il piccolo commercio e la piccola impresa, di sostenere i singoli e le famiglie in difficoltà, in modo da promuovere, o contribuire a promuovere, il benessere e l’attività produttiva dell’intero corpo sociale.

Nella loro saggezza, i fondatori del Monte dei Paschi di Siena, nel tardo XV secolo, avevano visto e compreso che nessun privato e nessun gruppo sociale possono progredire e avvantaggiarsi, quando l’intera popolazione soffre nelle strette dell’indigenza; che la povertà sempre crescente dei molti non può finanziare, all’infinito, l’accumulo di ricchezza di pochi, o di pochissimi, pena il corto circuito dell’intera struttura sociale e l’insorgere di violenze, carestie, rivolte, guerre, le quali, comunque, ben difficilmente varranno a ripristinare l’armonia del corpo sociale, fin tanto che non si deciderà di agire sui meccanismi perversi della finanza – oggi diremmo: dell’economia virtuale e speculativa –  tendenti a distorcere il sano ed equilibrato rapporto fra lavoro, risparmio individuale e benessere collettivo.

Il vero conflitto, dunque, non è – come vorrebbe il marxismo – fra capitale e lavoro, perché il capitale e il lavoro sono i due termini di una sana e necessaria dialettica economico-sociale; il vero conflitto, conflitto malefico e puramente distruttivo, è quello fra lavoro ed usura, intesa, quest’ultima, nel senso più ampio del termine: ossia tutto ciò che vive, parassitariamente, a spese del lavoro, e non incrementa la produzione, anzi, la frena e la scoraggia, né favorisce il risparmio, bensì lo distrugge, perché sottrae capitali a chi produce e li fa crescere a vantaggio di chi non produce, non lavora, non risparmia (nel senso intelligente del termine), ma vuole accumulare una ricchezza sterile e mostruosa, tendenzialmente illimitata, la quale, come una piovra maligna, assorbe e divora, una dopo l’altra, tutte le parti sane della società, fino a togliere ogni speranza, non solo di lavoro, ma di un futuro qualsiasi, alle giovani generazioni.

San Bernardino da Siena, che tanto si era impegnato sul fronte della questione sociale, e tanto si era adoperato per il prestito a basso tasso d’interesse, scagliandosi contro usurai ed Ebrei, muore nel 1444; il Monte dei Paschi di Siena viene fondato nel 1472, con la precisa finalità di soccorrere il lavoro e di favorire il piccolo risparmio, vale a dire come un vero e proprio monte di pietà, con la missione di soccorrere le classi e le persone disagiate. Le due date non sono lontane, le finalità sono pressoché identiche, come pure il luogo: tutte queste sono delle mere coincidenze? Ed è forse una coincidenza il fatto che si sia messo il silenziatore sull’aspetto sociale ed economico  dell’apostolato di San Bernardino, così come si è scagliato l’anatema, o si è fatto cadere il velo dell’oblio, sulla dimensione sociale ed economica degli scritti di Pound e dei discorsi da lui pronunciati alla radio italiana durante la Seconda guerra mondiale, nei quali denunciava l’affarismo delle grandi banche e la volontà del governo americano di scendere in guerra, apparentemente per la difesa della libertà e della democrazia, ma in effetti per ripristinare il sistema mondiale della speculazione finanziaria e dell’usura, messo in crisi dal sorgere del modello alternativo rappresentato dal fascismo?

Ha scritto Walter Mariotti nel suo articolo «Pound e l’MPS, banca contro l’usura» (sul mensile «Communitas», Milano, febbraio 2007, pp. 27-35):

 

«Un mondo nuovo. Dove il denaro è fondato sull’abbondanza della natura per tutti e non sulle speculazioni finanziarie di pochi.  Dove il tasso di interesse è controllato e umano,  dove l’orario di lavoro è ridotto per assistere le famiglie e gli anziani, dove la base dell’economia non è l’usura ma la natura.  Non sono le teorie di un economista visionario ma di un poeta, l’americano Ezra Pound,  che davanti agli Statuti del Monte dei Paschi di Siena,  scoperti grazie all’ospitalità del conte Guido Chigi Saracini, capì tutto. Capì che la sua Musa non poteva più fare a meno di occuparsi dell’economia. Capì che le Magistrature repubblicane,  che nel 1472 (Cristoforo Colombo non aveva ancora scoperto le Americhe)  avevano fondato la prima banca del mondo, erano nel giusto. Una folgorazione. Quello era il modello per il mondo che si doveva costruire, a costo di seguire l’assurdo Benito Mussolini e la sua crociata contro la demoplutocrazia anglosassone, che ispirata dalla Banca d’Inghilterra stava distruggendo l’Europa e l’America in nome dell’usura. Per Pound, quegli statuti senesi erano una possibile risposta al nodo da sciogliere: quello fra interessi finanziari ed etica dello Stato. Il suo avvertimento era rivolto agli uomini del nostro tempo: le lotte, le grandi lotte che viviamo in maniera sempre più drammatica (dall’epilogo della Seconda guerra mondiale, in poi) sono, in realtà, la proiezione  della lotta mortale fra l’usura, apolide e piratesca, e gli interessi di uno Stato ideale, che, rifiutandosi di asservirsi  alle logiche finanziarie finalizzate al puro profitto, indebitandosi, dovrebbe difendere le ragioni vitali dei popoli […].

Da allora, l’elaborazione di un sistema politico ed economico efficace contro l’usura, diventerà il cuore delle riflessone di Pound, che nei suoi interventi intensifica la polemica contro le manovre politiche internazionali e l’anno seguente (1933), nell’”Abc dell’economia”, scrive: “La guerra è parte dell’antica lotta tra l’usuraio e il resto dell’umanità: tra l’usuraio e il contadino, tra l’usuraio e il produttore e, infine, tra l’usuraio e il mercante, tra l’usucrocrazia e il sistema mercantilista”. E sarà ancora l’usura la molla che lo spingerà all’ammirazione definitiva del fascismo e di Mussolini, incontrato proprio sul finire del 1933: “L’usura è il cancro del mondo che solo il bisturi del fascismo può asportare dalla vita delle nazioni”, disse. Dichiarando la necessità di disciplinare le forze dell’economia  e adeguarle alla necessità della nazione. […]

[A Radio Roma, tra il 1941 e il 1943] attacca la guerra, l’interventismo di Roosevelt, la filosofia degli Alleati. L’alleanza tra il governo statunitense, la finanza inglese e il bolscevismo sovietico è contraria alla vera tradizione americana: “Non c’è nessun motivo per l’intervento degli Stati Uniti, perché il luogo dove difendere l’identità americana è il continente americano”. Ancora una volta è l’usura la causa della guerra e saranno “l’usura, l’oro, il debito, il monopolio, l’interesse di classe e l’indifferenza verso l’umanità a vincere davvero il conflitto”. Qualcuno legge in quei discorsi “rare perle di saggezza”, ma per le autorità americane sono “un miscuglio confuso di apologetica fascista, teorie economiche, antisemitismo e giudizi letterari”, che alla fine di luglio spingeranno per una sentenza di tradimento contro lo “pseudo americano Pound”. […]

[In due lettere private scritte al conte Chigi, nel gennaio e nel febbraio 1944] ha ancora la forza di criticare la stampa traditrice, l’usurocrazia che muove il mondo e gli scempi degli Alleati, che bombardando l’Italia e distruggendo i suoi monumenti hanno distrutto  i simboli dell’umanità occidentale. Chiarisce, infine, in tre lucide righe, il suo rapporto con il fascismo: “Io volevo una riforma moderata. Dico Riforma, perché in essenza il ripristino della sanità già dimostrata dai fondatori del Monte dei Paschi in un mondo impazzito dai seguaci dei guastatori, stile San Giorgio”. E conclude ancora una volta con l’idea elaborata proprio a Siena dodici anni prima: Questa guerra non s’iniziò nel 1939 ma nel 1694 a Londra (data di fondazione della Banca d’Inghilterra, ndr) facendo parte della guerra tra usurai, ovvero usuroni, e chiunque produce, chiunque fa crescere il grano”. […]

A trentacinque anni dalla morte di Ezra Pound (1972)  il problema su cui ha passato l’intera vita rimane ancora sul tappeto: la perdita di sovranità dello Stato di qualsiasi nazione indebitata a favore di quella illimitata del potere finanziario creditore, che all’epoca in cui Pound scriveva poteva sembrare un’oscura e catastrofica previsione è, oggi, una realtà incontestabile. Quasi tutti i Paesi del mondo, senza esclusione, sono o si avviano a diventare debitori di potenze finanziarie globali, super e trans nazionali (Fondo Monetario Internazionale e Banca Mondiale, in primo luogo).  Così come, a livello individuale,  viviamo nell’epoca del credito al consumo dei bilanci familiari in default (fenomeno che Pound nemmeno immaginava). Forse bisognerebbe ripartire dagli statuti delle magistrature repubblicane senesi del 1472, e provare a uscire dal malinteso poundiano:  ciò che è del popolo resti al popolo e alle sue forme di auto-organizzazione, lo Stato ideale non c’è e lo Stato, se c’è,  favorisca l’auto-organizzazione del popolo.»

 

Al di là dei giudizi specifici su Mussolini e della personale conclusione dell’Autore del brano sopra riportato, secondo la quale lo Stato non può o non sa opporsi allo strapotere delle grandi banche e, pertanto, dovrebbe limitarsi a favorire una non meglio precisata auto-organizzazione popolare, ci sembra che in questa sintesi della posizione di Pound sulle questioni economico-finanziarie ci sia praticamente tutto; e va dato atto che, di questi tempi, è raro trovare un giornalista o uno studioso che sappia dire pane al pane e vino al vino, con altrettanta franchezza.

Ecco perché il pensiero di Ezra Pound sulle questioni del lavoro, della produzione, del risparmio e dell’usura, anche se non è il pensiero di uno specialista e di un “tecnico”, ma di un dilettante, e, per giunta, di un dilettante che è soprattutto un poeta, che vede le cose – economia compresa - con l’occhio del poeta e nella prospettiva del poeta, non ha perso nulla della sua attualità; anzi, le vicende degli ultimi decenni sono state tali da evidenziare quanto egli sia stato lucido, e addirittura profetico, nel denunciar e il male dell’usura e nel richiamare i popoli dell’Europa alla loro vera tradizione, alla loro vera identità. Tradizione e identità che sono entrate definitivamente in crisi in quell’anno e in quel luogo, il 1694 a Londra, allorché venne fondata la prima grande banca di Stato, la Banca d’Inghilterra: la prima di quelle centrali del potere finanziario, che emettono moneta e prelevano il frutto del lavoro, in cambio di denaro virtuale, falso, immaginario, creando il meccanismo del debito e strangolando, poco alla volta, l’economia reale, fatta di persone, di famiglie, di imprese, di commerci, i quali, a un certo punto, soccombono per asfissia, affinché, nel deserto universale creato dall’usura, rimanga, trionfante e necrofila, una sola vincitrice: la borsa.

Resta solo da aggiungere che, dai tempi di Pound, i meccanismi dell’usura mondiale si sono enormemente perfezionati e ulteriormente ramificati, per esempio con la creazione delle agenzie di “rating”, vere e proprie centrali di potere finanziario “terroristico”, dai cui verdetti dipende la sorte di immense somme di denaro, spostate a vantaggio o a svantaggio non solo di singole imprese e società, ma di intere nazioni sovrane (o che s’illudono di essere ancora sovrane); e che il suo appello, pertanto, non ha perso nulla della sua drammatica urgenza, al contrario, è divenuto questione di vita o di morte…

Patria e lavoro: l'esempio di Filippo Corridoni

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A cento anni dalla morte, Filippo Corridoni resta ancora uno sconosciuto per la gran parte degli italiani. Qualche anno fa, un piccolo contributo alla conoscenza dell’“arcangelo sindacalista” fu fornito da Andrea Benzi, curatore per la Società Editrice Barbarossa di tre raccolte di scritti corridoniani: Come per andare più avanti ancora, Il fuoco sacro della rivolta e Per le mie idee.

A queste letture imprescindibili, può oggi affiancarsi Filippo Corridoni. Sindacalismo e interventismo, patria e lavoro, di Mario Bozzi Sentieri (Pagine-I libri del Borghese, pp. 140, € 16,00).

Tra gli artefici della stagione interventista italiana, Corridoni è caduto nella Grande Guerra, all’assalto di una trincea, il 23 ottobre 1915, dopo essere stato uno degli esponenti dell’ala più intransigente del movimento sindacale, rivoluzionario ed antimilitarista.

Per questo originale ed appassionato percorso personale e politico Corridoni riassume simbolicamente il passaggio dal sindacalismo rivoluzionario al sindacalismo nazionale, dalla conflittualità classista all’idea patriottica, lungo le linee principali della “revisione ideologica” del sindacalismo, fissate nel carattere nazionalista, apartitico, pedagogico, interclassista e produttivista della nuova lotta sociale.

Scelta “teorica”, la sua (sostenuta da una grande scuola di pensiero, d’impronta soreliana, a cui dettero contributi essenziali sindacalisti-intellettuali, quali Alceste De Ambris, Agostino Lanzillo, Angelo Oliviero Olivetti, Sergio Panunzio, Edmondo Rossoni) ed insieme “pratica”, cioè realizzata con un costante lavoro sociale e con un’integrale volontà di radicare, a livello popolare, le proprie idee, fino all’estremo sacrificio.

A questi complessi, ma affascinanti itinerari, è dedicato appunto il saggio di Bozzi Sentieri. Più che una biografia, una “rilettura” delle suggestioni corridoniane, delle sue idee e del suo esempio, all’interno di un’epoca di grandi passioni civili e di un esemplare dinamismo intellettuale, sociale e politico, a cui l’autore invita a guardare, ben al di là del tempo trascorso. Epoca di futuristi e di arditi, di masse appassionate e di tribuni, di affermazioni assolute e di negazioni sovrane, in grado di scomporre le vecchie appartenenze e di sintetizzarle ex novo.

“Di biografie dedicate a Corridoni ne sono state scritte molte, soprattutto, durante gli Anni Trenta del ‘900 – spiega Bozzi Sentieri – spesso ripetitive e celebratorie, vista l’assimilazione che il fascismo fece del ‘Tribuno sindacalista’, e più attente alla ‘mitologia’ del personaggio che alla complessità del quadro culturale, politico e sociale in cui si era manifestato il suo impegno”.

Spiega ancora l’autore: “Con il mio libro cerco di fissare il senso della rottura delle vecchie appartenenze ideologiche, che porta Corridoni a mettersi a capo della campagna interventista, a partire volontario e a cadere in guerra, meritandosi la medaglia d’oro al valor militare, dopo essere stato, fino a pochi mesi prima, l’artefice della lotta antimilitarista. Sulla scia della sua ‘rottura’ c’è da cogliere il passaggio da una visione classista dei rapporti sociale ad una partecipativa e ‘nazionale’, fissata, ad esempio, nella ‘Carta del Carnaro’, elaborata, nella Fiume dannunziana, da Alceste De Ambris, grande amico dello stesso Corridoni”.

In questa ottica, l’interesse per Corridoni va ben oltre l’anniversario interventista, pur dandogli significati nuovi, abbracciando idee e mentalità che poi segnarono gli anni seguenti. L’invito di Bozzi Sentieri è quello di “riannodare” gli sfilacciati brandelli ideali dell’epoca, ridando a questa figura il giusto spazio in uno dei momenti cruciali della Storia italiana, al di là della facile agiografia e delle interpretazioni di parte, per andare all’essenza del suo complesso cammino politico-sindacale.

 



 

Sto con il Mullah Omar, ma non mi converto all'Islam

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Fra le tante email che mi sono arrivate a proposito del necrologio negato dal Corriere al Mullah Omar c’è quella di un lettore, Ettore Fumagalli, che, senza entrare nel merito di quel necrologio, che comunque non condivide, mi chiede se mi sono convertito alla religione islamica (“Che Allah ti abbia sempre in gloria, Omar”). Se non sono insomma una specie di Magdi Cristiano Allam al contrario.

Se c’è qualcosa che è lontanissima dal mio modo di vedere il mondo è la cupa religione islamica, come mi sono estranei, anzi odiosi, tutti i monoteismi, da quello della Chiesa fondata da Paolo (Cristo è un’altra cosa, è un simpatico e affascinante borderline, uno che delira, che crede veramente di essere figlio di Dio ma che sulla Croce dubita, umanamente dubita, “Padre, padre, perché mi hai abbandonato?”, in quello che, per me, è il più commovente verso del Vangelo) all’ebraismo pur essendo io di madre ebrea e quindi tecnicamente, secondo le leggi razziali di quella comunità, che io rifiuto, un ebreo. Semmai mi sento più vicino, ma solo culturalmente, all’animismo dei neri che hanno una visione magica e spirituale dell’esistenza e della Natura, o meglio la avevano finché è esistita un’Africa Nera, prima che fosse penetrata dall’islamismo, dai pii missionari a seguito dei colonizzatori europei e infine distrutta, non solo culturalmente, ma socialmente ed economicamente dal modello di sviluppo occidentale (sui barconi dei disperati viaggiano anche ghanesi, ivoriani, senegalesi, cioè gente di Paesi dove non c’è nessuna guerra, ma solo la fame).

Nel Mullah Omar e nei suoi Talebani io non difendo la loro ideologia, difendo il diritto elementare di un popolo, o di parte di esso, ad opporsi all’occupazione dello straniero, comunque motivata. Se neghiamo agli afghani questo diritto allora dobbiamo buttare nel cesso la nostra Resistenza, su cui abbiamo fatto tanta retorica, che durò solo un anno e mezzo ed ebbe il supporto degli Alleati, mentre in Afghanistan va avanti da quattordici anni senza l’aiuto di nessuno (se ci fosse stato, come si è spesso favoleggiato, quello dell’Isi pakistano, almeno un missile terra-aria ai guerriglieri afghani sarebbe arrivato, invece son soli contro tutti, Nato, russi e Iran compreso).

A me pare che nel civilissimo Occidente sia venuta meno ogni forma di ‘pietas’ o di misericordia come direbbe Papa Bergoglio (che Domineiddio l’abbia sempre in gloria). Persino i terribili, esecrabili ed esecratissimi Talebani, dopo aver giustiziato, per ordine di Omar, Naisbullah responsabile di essere stato il Quisling dei sovietici a Kabul, ne riconsegnarono il corpo alla famiglia perché potesse avere un’onorata sepoltura. L’ordine era del Mullah ma Abdul Razak, il comandante talebano entrato a Kabul, lo eseguì a modo suo. E  le modalità furono atroci. Razak prese con sé tre soli uomini (segno che si sentiva sicuro dell’appoggio della popolazione) si recò nel compound dell’Onu dove Naisbullah si era rifugiato col fratello, lo evirò e lo finì con un colpo di pistola. La stessa sorte toccò al fratello. I due corpi, straziati, furono poi appesi ad una garitta, come monito. Ma queste modalità furono un’iniziativa di Razak, disapprovata da Omar che non era un uomo che amava le atrocità gratuite e tantomeno le umiliazioni (il giorno dopo concederà a tutti l’amnistia) come confesserà lo stesso Razak due anni dopo in un’intervista concessa a Kan Behraoz, Taliban commander admits ordering Naish killing, in News 16/2/1998.

Catilina era per lo Stato romano l’equivalente di un Bin Laden di quei tempi, ma il suo corpo, dopo la morte in battaglia, fu restituito agli anziani genitori. E anche a Nerone, pur costretto al suicidio e condannato alla damnatio memoria, non fu negata una tomba. Sulla quale il popolino di Roma, che aveva sempre amato questo imperatore che aveva preso le sue difese contro i senatori latifondisti e fancazzisti, continuò per trent’anni a portare fiori.

Oggi vedo che i civilissimi occidentali gettano in mare il cadavere del nemico senza tante cerimonie o sputano sulla bara di un nazista centenario e ne occultano la sepoltura.

Su Repubblica del 2/8 ho letto due begli articoli di Alberto Manguel ed Emiliano Morreale sulla ‘guerra senza epica e la fine dell’eroe Rambo’. Questo è verissimo per noi occidentali che non combattiamo più con gli uomini ma con le macchine ed è difficile fare di un drone un eroe. Non per i nostri nemici. Tantomeno per il Mullah Omar. Che non ci ha semplicemente messo la faccia (questo è capace di farlo anche Renzi, tanto può sempre rifarsela), ci ha messo il suo corpo, ci ha rimesso un occhio, è stato ferito gravemente quattro volte, ci ha messo il suo coraggio, fisico e morale, la sua tenacia, la sua dignità. (Sia detto di passata: all’inizio il Mullah Omar non era un antioccidentale era semplicemente un a-occidentale, non voleva cioè che i nostri costumi e valori che non condivideva entrassero nel suo Paese e lo travolgessero, come è poi puntualmente avvenuto). Quindi in quella che viene chiamata la ‘guerra asimmetrica’ l’eroe, piaccia o no, è lui. Per questo, nemico che fosse, ho dedicato un necrologio alla sua memoria. “Che Allah ti abbia sempre in gloria, Omar”.

 

La campagna di terrore Usa non si fermò con le atomiche

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Hiroshima

Hiroshima

Da quando ho visitato Hiroshima per la prima volta, mi è capitato di condividere – da ultimo grazie alla disponibilità di Barbadillo.it – il racconto non solo di ciò che avevo ascoltato parlando con i testimoni del bombardamento, gli hibakusha, ma più in generale ciò che ho appreso e sentito sull’argomento durante gli anni che ho trascorso in Giappone.

Non credo di aver ancora finito di elaborare un pensiero fermo sull’argomento, anche perché la fine tragica della Guerra del Pacifico, e non intendo unicamente nel suo epilogo nucleare, si sviluppa in talmente tante schegge che resta difficile assimilarla in modo definitivo. Come il fungo atomico che settant’anni fa bruciò insieme il cielo e la terra, la mostruosità, la violenza e la spietatezza con cui si fa i conti nell’affrontare il racconto degli ultimi mesi di quel conflitto, toccano allo stesso modo il generale e il particolare, la strategia e la tattica, l’acciaio, il cemento, la pelle, gli occhi e le dita.

Adesso sono passati settant’anni dal 6 agosto 1945, e negli ultimi giorni sulla stampa italiana e sulla rete sono apparsi una varietà di articoli, di interventi, di opinioni. Trovo giusto che gli italiani provino compassione di fronte all’orrore del bombardamento atomico di quelle due città e dei loro abitanti, ed è un bene che la storia di Hiroshima e Nagasaki venga spiegata ai più giovani, come anche che la memoria delle vittime venga conservata e rispettata.

Però è importante ricordare che le esplosioni di Hiroshima e di Nagasaki non sono state due eventi eccezionali, due accecanti fulmini a ciel sereno che hanno concluso il disastro della guerra. Al contrario, esse hanno fatto parte integrante di un’ampia e spietata campagna di bombardamenti a tappeto delle città giapponesi, iniziata già nel giugno del 1944: una sistematica devastazione effettuata quotidianamente, di notte e di giorno, con ordigni potentissimi, bombe a grappolo incendiarie, esplosivi al fosforo, un inferno di fuoco che non si è interrotto nemmeno dopo che Hiroshima e Nagasaki erano state cancellate dalla faccia della terra.

Per comprendere l’intensità di questa campagna di bombardamento strategico, basti prenderne una singola incandescente frazione: per esempio uno solo dei tanti bombardamenti di Tokyo, la cosiddetta “operation meetinghouse” del marzo 1945, effettuata da trecento B29 che sganciarono sulle abitazioni della capitale giapponese quasi duemila tonnellate di bombe incendiarie, sviluppando una tempesta di fiamme di quattromila ettari, che solo in una notte scaraventò all’altro mondo oltre centomila persone, per non parlare dei feriti.

Il 6 agosto dell’anno scorso, proprio su Barbadillo.it, avevo suggerito di distogliere lo sguardo dall’immagine di quel fungo atomico, e di concentrarsi invece su cosa succedeva a terra, dove vivevano gli uomini e le donne, per vedere con che coraggio seppero reagire e resistere in mezzo alla nebbia velenosa.
Oggi, nel settantesimo anniversario del bombardamento di Hiroshima, potremmo allontanarci ancora da quella singola fotografia in bianco e nero, per vedere meglio quello che la circonda, ciò che l’ha preceduta e ciò che l’ha seguita. Soprattutto, dovremmo dare un nome e un volto a certe persone: perché la storia, fino a prova contraria, è fatta dagli uomini, non dalle bombe.

* * *

La concezione cavalleresca del generale americano Haywood Hansell

Entrato in aviazione negli anni venti, il Generale Haywood Hansell è uno dei principali responsabili dell’Air War Plans Division, l’AWPD. Fautore dello strategic airpower, è un esperto del sistema americano di bombardamento strategico. Hansell è un gentiluomo del Sud, nato in Virginia e cresciuto in una famiglia della southern aristocracy. Ama la musica, la letteratura e ha un carattere piacevole, anche se in qualche occasione gli viene imputato un eccesso di severità. In quanto a tradizioni militari, può vantare antenati che hanno combattuto nella rivoluzione americana, altri nella guerra del 1812, altri ancora nell’esercito confederato, e infine nella prima guerra mondiale.

Posto a comando delle operazioni di bombardamento del Giappone, a Guam, nell’autunno del 1944, Hansell mostra di avere ereditato dalla sua famiglia una concezione cavalleresca della guerra. Pur credendo fermamente nel valore strategico dell’arma aerea, il Generale si impegna nella misura del possibile a ridurre le sofferenze della popolazione civile, prediligendo i bombardamenti mirati, nelle ore di luce. Sapendo che questi però comportano più rischi per gli equipaggi dei suoi B29, Hansell cerca di contenere le perdite sviluppando – di concerto con la marina americana – un efficace sistema di salvataggio in mare degli aviatori abbattuti.

Tuttavia queste qualità di Hansell divengono presto motivo di contrasto con il suo comandante – che pure lo conosce bene dai tempi dell’AWPD – il Generale Henry Arnold. Quest’ultimo, un sanguigno aviatore della Pennsylvania, che ha imparato i rudimenti del volo nientedimeno che dai fratelli Wright, non è soddisfatto dei risultati ottenuti dalla flotta di B29: come il suo Chief of Staff Lauris Norstad, il generale Arnold è totalmente contrario all’impostazione di Haywood Hansell, quella dei bombardamenti di precisione, effettuati nelle ore diurne.

Arnold, sbrigativo e impaziente – e noto anche per il suo nervosismo, che gli causa ben quattro infarti tra il ’43 e il ’45 – preferisce ricorrere direttamente al bombardamento notturno delle città, con l’uso massiccio di bombe incendiarie.
Il rapporto tra i due generali peggiora di settimana in settimana, finché il 6 gennaio del 1945, senza mezzi termini Hansell manda a dire al suo capo Arnold che considera la sua tattica ripugnante, oltre che militarmente poco efficace.

Curtis LeMay

Curtis LeMay

Naturalmente Hansell viene immediatamente rilevato dall’incarico, e lascia Guam dopo una settimana. Da quel momento il suo sostituto – il generale Curtis LeMay – moltiplica ogni notte i bombardamenti incendiari sugli obiettivi civili. Inoltre mette in piedi la “Operation Starvation”, l’operazione carestia: una campagna di minamento dall’aria delle acque interne, dei canali ad uso agricolo e industriale, delle risaie e dei corsi d’acqua nipponici.

In pochi mesi, le maggiori città giapponesi sono ridotte a distese di cenere e macerie, e dopo esattamente sei mesi, Hiroshima e Nagasaki vengono praticamente cancellate dalle esplosioni nucleari.
Le difese aeree giapponesi sono inesistenti, e i bombardamenti proseguono.
Il Generale LeMay sostiene che per un bombardiere americano una missione nei cieli del Giappone è ormai più sicura di un volo di addestramento negli Stati Uniti.

Intanto, pressato dal governo a fronte di un apparente stallo nei negoziati di pace, il Generale Arnold dà ordini a LeMay di rafforzare la campagna di bombardamento aereo.
E’ passata una settimana dall’esplosione atomica di Hiroshima.
Le istruzioni adesso sono di organizzare un attacco il più ampio possibile – con l’utilizzo di almeno mille aerei – su Tokyo, Yokohama, Osaka e Kobe.
Bisogna bombardare giorno e notte, da bassa quota, volando in formazione sopra le aree abitate, per infondere il terrore nella popolazione civile.

E’ così che finisce la guerra del Pacifico.

Hiroshima e Nagasaki, 6 agosto 1945. Il giorno della vergogna

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6 agosto 1945. Settant’anni fa. Sembrano mille anni, oppure sembra ieri. Una catastrofe, un’ecatombe nel cuore di tenebra del pur terribile e sanguinoso Novecento. L’orrore e i soliti esorcismi verbali non bastano. “Come fu possibile, in pieno XX secolo?”. “Un salto nel buio, un balzo all’indietro nel più cupo medioevo?”.

Piantiamola. Hiroshima e Nagasaki sono cose nostre, ci appartengono: rappresentano appieno il Novecento con tutto il suo progresso scientifico, tutta la sua straordinaria tecnologia, tutta la sua spietata scintillante Volontà di Potenza. Gli alibi per quell’orribile esperimento dal vivo – primo fra tutti il più miserabile, la scusa umanitaria (“abbreviare il conflitto”; “salvare migliaia di vite umane”) – non sono ormai più credibili, pur ammesso e non concesso che mai lo siano stati.

La guerra era finita. Tra il 7 e l’8 maggio i rappresentanti supremi di quel che restava del Terzo Reich e delle forze armate tedesche avevano firmato la resa incondizionata, a Reims in presenza del generale Eisenhower e a Berlino in quella del maresciallo Zukov. Quanto al fronte estremo-orientale, dopo la conquista di Filippine e Birmania, il 19 febbraio le truppe statunitensi erano sbarcate in territorio giapponese, sulla spiaggia di Iwojima; l’aeronautica americana aveva da quasi due anni conquistato la superiorità aerea sui cieli nipponici e bombardava incessantemente città e installazioni industriali ormai in ginocchio.

Dal maggio, da quando cioè l’Impero del Sol Levante era rimasto solo a fronteggiare gli Alleati vincitori, le trattative per la sua resa erano già state avviate. Il 17 luglio si era riunita a Postdam la conferenza dei vincitori: erano presenti Winston Churchill, Harry Truman e Jozip Stalin. Il 26 gli Stati Uniti e la Gran Bretagna, ai quali si era unita la Cina di Chiang Kai-shek, avevano indirizzato al governo giapponese un ultimatum esigendo la resa incondizionata e l’abdicazione dell’imperatore Hirohito. Ad esso non si era associato Stalin in quanto l’URSS non era in guerra contro il Giappone. Dal momento che da parte del governo nipponico non era giunta risposta, quello statunitense aveva preso la decisione di concludere con uno spettacolare esperimento dal vivo il “progetto Manhattan”, al quale si stava lavorando dal 1942 (vale a dire da pochi mesi dopo l’ingresso degli USA in guerra).

Le debolissime ragioni con le quali Truman giustificò la sue decisione s’incentrarono tutte sulla necessità – vista l’ostinazione giapponese – di abbreviare il conflitto, il che significava soprattutto, per l’opinione pubblica americana, risparmiare la vita di molti soldati statunitensi: la guerra nel Pacifico e l’operazione Downfall, che avrebbe dovuto seguire lo sbarco di Iwojima, erano costati troppe perdite (il che, in democrazia, significa sconfitta certa nelle elezioni future). Più serie altre ragioni: era necessario giustificare i costi esorbitanti del “progetto Manhattan” dando una prova inoppugnabile della sua atroce efficacia; e al tempo stesso lanciare un implicito ma chiaro avvertimento alla potenza antagonista degli anni a venire, l’Unione Sovietica. In realtà, la principale e meno confessabile delle ragioni – quella che in effetti mai fu addotta – fu la volontà di provare quale fosse l’effettiva potenza dell’ordigno: a tale scopo fu accuratamente scelto l’obiettivo, la città di Hiroshima che fino ad allora non aveva subìto alcun attacco aereo. In questo modo, su un centro demico lasciato intenzionalmente intatto, si poté verificare la portata distruttiva della bomba.

HIRO

L’ordigno nucleare, amabilmente battezzato Little Boy, fu sganciato sulla città di Hiroshima alle 8,15 da una superfortezza volante B-29 al comando della quale era Paul Tibbets, che aveva battezzato il suo aereo con il nome “benaugurante” di sua madre, Enola Gay. La “tempesta di fuoco” immediatamente si sprigionò su una città che poteva allora ospitare dai 250.000 ai 350.000 abitanti. L’8 successivo – mentre con l’accordo di Londra le potenze alleate sottoscrivevano gli statuti del Tribunale Militare che avrebbe a conflitto finito dovuto giudicare sui crimini di guerra – Truman rinnovò l’ultimatum al governo nipponico, accompagnandolo con un proclama nel quale avvertiva il popolo giapponese che il suo paese era in possesso di un’arma di potenza inaudita, capace di cancellare le isole del Sol Levante dalla faccia della terra. Senza dare al governo imperiale il tempo di reagire, nella mattinata del 9 agosto la bomba Fat Man fu sganciata su Nagasaki. Ma poche ore prima, verso l’una di notte, Stalin aveva a sua volta dichiarato guerra al Giappone e occupato la Manciuria. Era l’America la vera destinataria di quella mossa: sotto quel punto di vista, Hiroshima non era servita a nulla. Ma le due esplosioni cadevano obiettivamente sotto le sanzioni dell’articolo 6B degli statuti di fresco siglati dalle potenze vittoriose. Un bell’autogoal.

Non conosciamo il numero esatto delle vittime: per Hiroshima si è parlato di 90.000-140.000 morti, per Nagasaki tra i 60.000 e gli 80.000. Ma decine di migliaia furono i feriti; e tra quei lesionati molti morirono dopo, atrocemente, per le conseguenze della “peste nucleare”. Conseguenze che continuano a mietere la morte tra i discendenti di quegli sventurati.

Hiroshima e Nagasaki non furono soltanto un orribile e premeditato crimine di guerra per il quale non c’è stata alcuna Norimberga. Esse furono anche il preludio di una serie di nuovi crimini e di nuove distruzioni. Nonostante la ripetuta esorcizzazione dell’uso delle armi cosiddette “non convenzionali” (che peraltro, com’è noto, continuano ad essere prodotte), come l’”Agent Orange” in Vietnam o gli ordigni a uranio impoverito nei Balcani e in Iraq e il fosforo bianco a Falluja, ancora in Iraq, hanno continuato ad essere usati non solo contro i militari – com’era accaduto per l’iprite durante la prima guerra mondiale – ma anche contro le popolazioni civili. I Funghi Atomici del 1945 hanno aperto un’era che non si è ancora conclusa: ed è inutile sperare ingenuamente che sia sufficiente che gli ordigni di morte non cadano in mano di governi “non democratici”. A scatenare l’inferno del ’45 fu la prima democrazia del mondo. E i pentimenti postumi – quello di Oppenheimer in prima linea – non servono. Settant’anni dopo quell’orrore, gli arsenali nucleari di troppi paesi traboccano di ordigni ben più potenti di Little Boy e di Fat Man.

La vera identità di Gesù Cristo

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Poche persone dubitano dell’esistenza storica di Gesù Cristo. Molti però lo definiscono un “grande profeta di Dio”, un “uomo saggio”, un “riformatore del giudaismo”, o addirittura “l’uomo più saggio che abbia mai vissuto”.
Alcune religioni, inoltre, lo considerano un “grande profeta”, un “inviato da Dio”, o un “messaggero di Dio”.
Queste definizioni, però, sono in contraddizione con i libri del Nuovo Testamento, che sono i piu antichi testi che descrivono la vita e le opere di Gesù Cristo e dei suoi seguaci, gli Apostoli, e che sono stati scritti prima del 100 d.C.
Quindi per appofondire il tema della vera identità di Gesù Cristo, dobbiamo studiare i testi del Nuovo Testamento, che sono stati scritti da coloro i quali hanno vissuto con Gesù, o da coloro i quali hanno ricevuto un insegnamento diretto dagli Apostoli.
Innanzitutto analizziamo il Prologo del Vangelo di Giovanni (1, 1-5):

In principio era il Verbo
e il Verbo era presso Dio
e Dio era il Verbo.
Questi era in principio presso Dio.
Tutto per mezzo di lui fu fatto e senza di lui non fu fatto nulla di ciò che è stato fatto.
In lui era la vita e la vita era la luce degli uomini; e la luce nelle tenebre brilla e le tenebre non la compresero.

In questi celebri passi, Cristo è proclamato come Parola di Dio (Verbo), Dio egli stesso, Creatore del mondo e principio della vita. Analizziamo anche un altro passo del Prologo (Giovanni 1, 14):

E il Verbo si fece carne e dimorò fra noi e abbiamo visto la sua gloria, gloria come di Unigenito dal Padre, pieno di grazia e di verità.

In questo passo si descrive che il Verbo si fece carne, ossia s’incarnò in una persona umana, (Gesù). Inoltre si spiega che il Figlio è Unigenito, cioè “unico e solo” (ossia non ve ne sono stati altri, e non ve ne saranno altri all’infuori di lui).
Già questi primi passi del Vangelo di Giovanni esprimono con forza la piena identità di Gesù Cristo. Lui è il Verbo, la Parola di Dio, Dio stesso.
C’è un altro passo del Prologo del Vangelo di Giovanni molto importante per identificare pienamente la persona di Gesù Cristo, (1, 18):

Dio nessuno l’ha visto mai.
L’Unigenito Dio
che è nel seno del Padre
egli lo ha rivelato.

Quando Giovanni scrive “Dio nessuno l’ha visto mai”, si riferisce a Dio Padre. Quando scrive “Unigenito Dio”, si riferisce a Dio Figlio, il quale “è nel seno del Padre”, e che ha rivelato il Padre. In questo passaggio pertanto, Giovanni, definendo “Unigenito Dio”, il Figlio, ci svela ancora la vera identità di Gesù Cristo.
Ora analizziamo un passo successivo del Vangelo di Giovanni (1, 29):

L’indomani vede Gesù venirgli incontro e dice: “Ecco l’Agnello di Dio che toglie il peccato del mondo”.

E’ Giovanni il Battista che parla. Ci dice che Gesù è “l’Agnello di Dio che toglie il peccato del mondo”. Cosa significa?
Nell’Antico Testamento i sacrifici animali venivano attuati per farsi perdonare i peccati da Dio. La perdita di un animale del gregge e la vista della morte di un animale, che è innocente per definizione, in quanto non conosce il bene e il male, avevano lo scopo di far redimere il peccatore.
Ma che cosa è il peccato? Il peccato è un atto di non-umiltà. Un atto di supponenza, presunzione, saccenza. Il peccato originale, è stato attuato da Adamo ed Eva, la prima coppia di umani dotata del libero arbitrio. Essi vollero sostituirsi a Dio, scalzarlo dal suo trono. Peccarono di presunzione, di saccenza.
Il peccato originale è ciò che rese necessario il sacrificio di Cristo sulla croce.
La sua sofferenza e il suo sangue, versato al posto nostro, ci rende liberi dal peccato, se riconosciamo Cristo e lo accettiamo come nostro salvatore
Il sacrificio del Figlio di Dio, è per definizione è il sacrificio finale e perfetto, come si deduce da questo passaggio della lettera agli Ebrei (7, 27):

Il quale non ha bisogno tutti i giorni, di offrire vittime prima per i propri peccati, poi per quelli del popolo come i sommi sacerdoti, perchè questo egli ha fatto una volta per tutte offrendo se stesso.

Da notare che Giovanni il Battista disse: “Ecco l’Agnello di Dio che toglie il peccato del mondo”, e non disse: “Ecco l’Agnello di Dio che toglie il peccato di Israele”, indicando così che Gesù venne per caricare su di se tutti i peccati del mondo, proprio tutti, anche di coloro che non sono ebrei. La sua missione non è pertanto quella di un “riformatore del giudaismo”, come affermato da alcuni scrittori, ma è “universale”, per tutti gli esseri umani.

Un altro passo importante per comprendere questo concetto è Giovanni (3, 16-21):

Dio infatti ha tanto amato il mondo, che ha dato il Figlio suo Unigenito, affinché chiunque crede in lui non perisca, ma abbia la vita eterna. Dio, infatti, non mandò il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui.
Chi crede in lui non è condannato; ma chi non crede è già stato condannato, perchè non ha creduto nel nome del Figlio Unigenito di Dio.
E il giudizio è questo: la luce è venuta nel mondo, ma gli uomini hanno amato più le tenebre che la luce, perché le loro opere erano malvagie. Chiunque infatti fa il male, odia la luce, e non viene alla luce perché le sue opere non vengano riprovate. Invece chi fa la verità viene verso la luce, perché appaia chiaramente che le sue opere sono state fatte in Dio.

Anche in questi passi si descrive Gesù come “il Salvatore del mondo” e non “colui che condanna il mondo”. Salvatore è colui, che con il suo sacrificio “toglie i peccati del mondo”. Chi crede in lui è gia salvato, nel senso che accetta che Cristo abbia accolto su di se i suoi peccati.
A tale proposito vediamo questi passi del Vangelo di Matteo (20, 27-28):

E chi fra voi vorrà essere al primo posto si farà vostro schiavo, come il Figlio dell’uomo che non è venuto ad essere servito, ma a servire e dare la propria vita in riscatto di molti.

e (26, 26-28):

Ora, mentre mangiavano, Gesù prese il pane, recitò la benedizione, lo spezzò e, mentre lo dava ai discepoli, disse: "Prendete, mangiate: questo è il mio corpo". Quindi prese il calice, rese grazie e lo passò a loro dicendo: “Bevetene tutti: questo infatti è il mio sangue dell’alleanza, che sarà versato per molti in remissione dei peccati.

Secondo la credenza cristiana pertanto, Dio non perdona i peccati “dall’alto”, ma pagando lui stesso. Dio non ha delegato ad una sua “creatura” la sofferenza sulla croce. Dio stesso era sulla croce, dandoci il massimo esempio di umiltà, perchè amava talmente l’uomo che si è sacrificato per lui, caricando su di se tutti i peccati del mondo e rendendoci così liberi. Solo Dio inoltre, essere infinito, poteva pagare con il suo sangue per tutti i peccati del mondo.

Da vari passaggi dei Vangeli si evince che il Padre e il Figlio sono “della stessa sostanza”. E’ Gesù stesso che lo ha affermato, dipanando ogni dubbio sulla sua identità e sulla sua missione.
Ecco un primo passaggio del Vangelo di Matteo, (11, 27):

Tutto mi è stato dato dal Padre mio: nessuno conosce il Figlio se non il Padre e nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio voglia rivelarlo.

Continuiamo con l’analisi del Vangelo di Giovanni. Nel seguente passo (8, 18-19) è scritto:

Sono io che do testimonianza di me stesso, e anche il Padre, che mi ha mandato, dà testimonianza di me». Gli dissero allora: «Dov’è tuo padre?». Rispose Gesù: «Voi non conoscete nè me nè il Padre mio; se conosceste me, conoscereste anche il Padre mio».

Frase significativa, perchè indica che solo conoscendo e accettando lui, si può accettare il Padre.
Ecco che stiamo entrando nel vivo del Vangelo di Giovanni, e stiamo analizzando gli importanti passaggi dove Cristo ha rivelato la sua piena identità ai farisei e ai religiosi nel tempio.
Nel seguente passaggio di Giovanni (8, 23-24), Gesù, attribuendo a se stesso il nome con il quale Dio si rivelò a Mosè (“Io Sono”, in Esodo 3, 14) si pone alla pari con Dio.

E diceva loro: «Voi siete di quaggiù, io sono di lassù; voi siete di questo mondo, io non sono di questo mondo. Vi ho detto che morirete nei vostri peccati; se infatti non credete che Io Sono, morirete nei vostri peccati».

E ancora in Giovanni (8, 53-58):

Sei tu più grande del nostro padre Abramo, che è morto? Anche i profeti sono morti. Chi credi di essere?». Rispose Gesù: «Se io glorificassi me stesso, la mia gloria sarebbe nulla. Chi mi glorifica è il Padre mio, del quale voi dite: “È nostro Dio!”, e non lo conoscete. Io invece lo conosco. Se dicessi che non lo conosco, sarei come voi: un mentitore. Ma io lo conosco e osservo la sua parola. Abramo, vostro padre, esultò nella speranza di vedere il mio giorno; lo vide e fu pieno di gioia». Allora i Giudei gli dissero: «Non hai ancora cinquant’anni e hai visto Abramo?». Rispose loro Gesù: «In verità, in verità io vi dico: prima che Abramo fosse, Io Sono».

Anche il decimo capitolo del Vangelo di Giovanni è particolarmente significativo per conoscere la vera identità di Gesù Cristo. Leggiamo i seguenti passi (10, 14-18):

Io sono il buon pastore, conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me, così come il Padre conosce me e io conosco il Padre, e do la mia vita per le pecore. E ho altre pecore che non provengono da questo recinto: anche quelle io devo guidare. Ascolteranno la mia voce e diventeranno un solo gregge, un solo pastore. Per questo il Padre mi ama: perchè io do la mia vita, per poi riprenderla di nuovo. Nessuno me la toglie: io la do da me stesso. Ho il potere di darla e il potere di riprenderla di nuovo. Questo è il comando che ho ricevuto dal Padre mio».

Innanzitutto in questi passi è scritto che Gesù ci conosce, esattamente come il Padre conosce lui e lui conosce il Padre. Poi c’è scritto che lui da la vita per noi. In questa frase quindi Gesù anticipa quello che sarà il suo sacrificio, ed inoltre ci anticipa la sua Risurrezione: lui da la sua vita e lui la riprende, proprio perchè lui è il Signore.
Inoltre, anche da questa frase si evince che Gesù è venuto per tutti e non solo per i Giudei (ho anche altre pecore che non provengono da questo recinto: anche quelle devo guidare. Ascolteranno la mia voce e diventeranno un solo gregge, un solo pastore).
Pochi passi più avanti quando alcuni Giudei gli chiedono di rivelare la sua vera natura Gesù risponde (Giovanni 10, 24-30):

Allora i Giudei gli si fecero attorno e gli dicevano: «Fino a quando ci terrai nell’incertezza? Se tu sei il Cristo, dillo a noi apertamente». Gesù rispose loro: «Ve l’ho detto, e non credete; le opere che io compio nel nome del Padre mio, queste danno testimonianza di me. Ma voi non credete perché non fate parte delle mie pecore. Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono. Io do loro la vita eterna e non andranno perdute in eterno e nessuno le strapperà dalla mia mano. Il Padre mio, che me le ha date, è più grande di tutti e nessuno può strapparle dalla mano del Padre. Io e il Padre siamo uno.

Con quest’ultima frase Gesù afferma di essere in unione con il Padre. Tuttavia quando i Giudei raccolsero delle pietre per lapidarlo, ci fu questo dialogo (Giovanni 10, 32-38):

Gesù disse loro: «Vi ho fatto vedere molte opere buone da parte del Padre: per quale di esse volete lapidarmi?». Gli risposero i Giudei: «Non ti lapidiamo per un’opera buona, ma per una bestemmia: perchè tu, che sei uomo, ti fai Dio».
Disse loro Gesù: «Non è forse scritto nella vostra Legge: Io ho detto: voi siete dèi? Ora, se essa ha chiamato dèi coloro ai quali fu rivolta la parola di Dio – e la Scrittura non può essere annullata –, a colui che il Padre ha consacrato e mandato nel mondo voi dite: “Tu bestemmi”, perchè ho detto: “Sono Figlio di Dio”? Se non compio le opere del Padre mio, non credetemi; ma se le compio, anche se non credete a me, credete alle opere, perchè sappiate e conosciate che il Padre è in me, e io nel Padre»

I Giudei avevano inteso che, con quell’affermazione, Gesù sosteneva di essere Dio, ma Gesù stesso non negò di esserlo. Gesù si rifà all’Antico Testamento: Nelle scritture vengono chiamati dei e figli dell’Altissimo i giudici e i re, perché partecipi della prerogativa divina di giudicare gli uomini (Sal. 82, 6-Sal. 2- Dt 1, 17; 19, 17). Gesù aggiunge che colui che è santificato e inviato dal Padre a buon diritto può essere considerato in unione con il Padre. Nell’ultima frase, inoltre, ribadisce ancora che lui e il Padre sono una cosa sola.

La natura divina di Gesù non si evince solo da quello che disse, ma ovviamente anche da quello che fece. I miracoli, narrati nei quattro Vangeli, indicano il suo totale dominio sulle forze della natura, sui demoni, sulle malattie e sulla morte.
Gesù Cristo risuscita i morti: la figlia di Giairo, (in Luca 8, 49-56), il figlio della vedova di Naim, (in Luca 7, 11-17) e Lazzaro (Giovanni, 11).
Ecco il celebre dialogo di Gesù con Marta, prima della risurrezione di Lazzaro (Giovanni 11, 23-27):

Gesù le disse: «Tuo fratello risorgerà». Gli rispose Marta: «So che risorgerà nella risurrezione dell’ultimo giorno». Gesù le disse: «Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore, vivrà; chiunque vive e crede in me, non morirà in eterno. Credi questo?». Gli rispose: «Sì, o Signore, io credo che tu sei il Cristo, il Figlio di Dio, colui che viene nel mondo».

Con questa frase Marta ha riconosciuto la vera identità di Gesù Cristo.
Proseguendo con l’analisi dei Vangeli, in particolare del Vangelo di Giovanni, analizziamo un altro passo fondamentale per comprendere la vera identità di Gesù Cristo (Giovanni, 12, 44,45):

Gesù proclamò ad alta voce: “Chi crede in me, non crede in me, ma in Colui che mi ha mandato, e colui che vede me, vede Colui che mi ha mandato.

In questo ultimo passo Gesù afferma di essere consustanziale al Padre.

E ancora in Giovanni, (14, 5-14):

Gli dice Tommaso: “Signore, non sappiamo dove vai, come possiamo conoscere la via?”
Gli dice Gesù: “Io sono la via e la verità e la vita. Nessuno va al Padre se non attraverso di me. Se voi mi aveste conosciuto anche il mio Padre conoscereste, e fin d’ora voi lo conoscete e l’avete visto”.
Gli dice Filippo: “Mostraci il Padre e ci basta.”
Gli dice Gesù: “Da tanto tempo sono con voi, e non mi hai conosciuto Filippo? Chi ha visto me ha visto il Padre. Come puoi tu dire: -Mostraci il Padre?- Non credi che io sono nel Padre e il Padre e in me? Le parole che io vi dico, non le dico da me stesso; il Padre che dimora in me fa le sue opere. Credetemi: io sono nel Padre e il Padre è in me. Almeno credete a causa delle opere stesse. In verità, in verità vi dico, chi crede in me, anch’egli farà le opere che io faccio e ne farà anche di più grandi perchè io vado al Padre. E quando chiederete nel mio nome lo farò, affinchè il Padre sia glorificato nel Figlio. Se mi chiederete qualcosa nel mio nome, io lo farò”.

In questi passaggi vi sono due concetti significativi. Innanzitutto Gesù risponde a Tommaso dicendo: “Io sono la via e la verità e la vita. Nessuno va al Padre se non attraverso di me”. Quindi risponde a Filippo dicendo: “io sono nel Padre e il Padre è in me”. Gesù afferma dunque di essere la Verità, di essere unito al Padre, e di essere pertanto, della stessa “sostanza”.
Anche in Giovanni (16, 27-28), vi sono alcune frasi importanti:

Il Padre stesso vi ama, poichè voi mi avete amato e avete creduto che sono uscito da Dio. Sono uscito dal Padre e sono venuto nel mondo. Ora lascio il mondo e vado al Padre.

uscito da Dio”, frase che rende l’idea del Verbo generato, ma non creato, e finalmente incarnatosi in un uomo, Gesù.
Nel capitolo 17 del Vangelo di Giovanni vi sono poi affermazioni molto importanti di Gesù, che sta pregando il Padre. Ecco un primo, significativo passaggio (Giovanni 17, 3-5):

Questa è la vita eterna: che conoscano te, il solo vero Dio e colui che tu hai mandato, Gesù Cristo. Io ti ho glorificato sulla terra, avendo compiuta l’opera che tu mi hai dato da fare. Ora glorificami tu, Padre, davanti a te, con la gloria che io avevo presso di te prima che il mondo fosse.

E ancora, Giovanni (17, 24):

Padre, voglio che anche quelli che tu mi hai dato siano con me, dove sono io, affinchè contemplino la mia gloria, quella che tu mi hai dato, poiché mi hai amato prima della creazione del mondo.

In questi due passaggi si evince che Gesù era con il Padre prima che il mondo fosse, prima della creazione del mondo, dell’universo. Questi due passi, indirettamente, confermano la Divinità di Cristo.

Ma l’evento cardine della missione di Gesù è la Risurrezione (Matteo, 28; Marco 16; Luca, 24; Giovanni, 20). Nella Risurrezione Gesù Cristo ha vinto la morte e ha dimostrato il suo potere su di essa. Solo Dio stesso, che ha creato l’universo, ha il potere di vincere il peccato e la morte. Ecco i famosi passi della Lettera ai Corinzi di Paolo (1 Corinizi, 15, 54-55):

Quando poi questo corpo corruttibile si sarà vestito d’incorruttibilità e questo corpo mortale d’immortalità, si compirà la parola della Scrittura:
La morte è stata inghiottita nella vittoria.
Dov’è, o morte, la tua vittoria?
Dov’è, o morte, il tuo pungiglione?

La Risurrezione è inoltre la dimostrazione che Dio ha accettato l’estremo sacrificio di Cristo fatto per tutti gli esseri umani e certifica che coloro che credono in Gesù Cristo saranno risuscitati a Vita Eterna.

Vi sono poi altre frasi e comportamenti di Gesù che indicano la sua natura consustanziale al Padre. Nel capitolo quinto del Vangelo di Matteo, parlando della legge mosaica, ossia la legge data da Dio, Gesù ripetè varie volte: “avete inteso che fu detto…io invece vi dico”. Gesù quindi insegna sui giusti comportamenti da tenere nel caso di matrimonio, giuramenti, amore al prossimo. Per sei volte viene ripetuta la frase: “io invece vi dico”.
Come potrebbe un semplice profeta aggiungere o modificare le leggi date da Dio se non chi è per sua natura consustanziale al Padre?
I profeti dicevano: “Così parla il Signore”, mentre Gesù disse: “io invece vi dico”.
E’ noto che i giudei osservavano la legge del riposo durante il sabato, e per questo criticarono Gesù per aver curato un paralitico di sabato Giovanni (5, 1-10). Ma Gesù, dimostrando di essere al di sopra della legge dice (Giovanni 5, 17):

Ma Gesù rispose loro: “Mio Padre è all’opera fino ad ora ed anch’io sono all’opera”.

Gesù si pone quindi al di sopra della legge, per esempio anche quando dice:

Si, il Figlio dell’uomo è padrone del sabato” (Matteo, 12, 8).

Sono affermazioni inaudite, che mai uscirono dalla bocca di nessun uomo, e che provano la sua verà natura di Gesù Cristo, che è consustanziale al Padre.
Un’altra frase importante con la quale Gesù ha dichiarato la sua piena identità è la seguente, in risposta al sommo sacerdote, tratta dal Vangelo di Marco (14, 61-62):

Egli però taceva e non rispondeva nulla. Perciò il sommo sacerdote lo interrogò ancora dicendogli: “Sei tu il Cristo, il Figlio del Benedetto?”. Rispose Gesù: “Si, sono io! E vedrete il Figlio dell’uomo, seduto alla destra della Potenza, venire con le nubi del cielo.”

In questo passaggio Gesù rispose chiaramente, usando le parole della visione di Daniele (7, 13-14).
Vediamo ora, per concludere, un passaggio importante della Lettera ai Filippesi dell’Apostolo Paolo, (2, 3-11):

Non fate niente per ambizione ne per vanagloria, ma con umiltà ritenete gli altri migliori di voi; non mirando ciascuno ai propri interessi, ma anche a quelli degli altri. Coltivate in voi questi sentimenti che furono anche in Cristo Gesù:
il quale, essendo per natura Dio,
non stimò un bene irrinunciabile
l’essere uguale a Dio
ma annichilì se stesso
prendendo natura di servo,
diventando simile agli uomini;
e apparso in forma umana
si umiliò facendosi obbediente
fino alla morte
e alla morte in croce.
Per questo Dio lo ha sopraesaltato
ed insignito di quel nome,
affinché, nel nome di Gesù,
si pieghi ogni ginocchio
degli esseri celesti
dei terrestri e dei sotterranei
e in ogni lingua proclami,
che Gesù Cristo è Signore
a gloria di Dio Padre.

Analizzando questo importante brano ritmico, vediamo che, al sesto passo Paolo scrive: “il quale, essendo per natura Dio”. Quindi Paolo scrive chiaramente che Gesù è Dio, per natura. Inoltre nell’undicesimo passo scrive: “e in ogni lingua proclami, che Gesù Cristo è Signore a gloria di Dio Padre”. Paolo non scrive “Dio”, ma bensì “Dio Padre”. Così facendo, ricollegandosi al sesto passo, certifica la Divinità del Figlio.

Coloro i quali negano la Divinità di Cristo, che si evince dai testi del Nuovo Testamento e non è un dogma aggiunto in epoca post-costantiniana, si trovano pertanto davanti ad un dilemma di difficile soluzione. Essi dicono che Gesù Cristo fu un grande saggio, se non il più grande di tutti i saggi. Ma come potrebbe essere stato il più grande dei saggi se avesse mentito?
Ecco pertanto che la vera identità di Gesù Cristo, consustanziale al Padre e allo Spirito Santo, Dio stesso e creatore del mondo, risulta chiara.
Naturalmente nella vita di Gesù Cristo vi sono vari misteri, che il credente accetta per fede.
Rimane però sempre un fatto fondamentale: Dio, il creatore del cielo e della terra, avrebbe potuto benissimo giudicarci dall’alto, senza venire fra di noi, senza umiliarsi lui stesso, incarnandosi in un essere umano. Ma Dio stesso, infinitamente misercordioso e buono, ha voluto inviare suo Figlio per redimerci dal peccato e pagare per noi sulla croce. Dio amava talmente l’uomo che si è sacrificato per lui, pagando con la sofferenza sulla croce e perdonando così tutti i peccati:

Dio infatti ha tanto amato il mondo, che ha dato il Figlio suo Unigenito, affinché chiunque crede in lui non perisca, ma abbia la vita eterna. (Giovanni 3, 16).

 

Da Kumanovo a Kumanovo, il secolo delle guerre balcaniche

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Le-guerre-balcaniche

Progetto di ricerca CeSEM, FOCUS – Balcani, la storia in movimento: quali conseguenze per l’Europa?

Gli antefatti

Quei Balcani, che secondo il cancelliere Otto von Bismarck nel 1878 non valevano le ossa di un granatiere di Pomerania, si trasformarono nel giro di alcuni anni nella polveriera d’Europa. Entro la fine del XIX secolo, infatti, si era reso sempre più precario il cosiddetto “giogo turco” che da secoli aveva pur garantito la stabilità della regione balcanica, travolta in questa fase storica dall’ondata dei nazionalismi e dei movimenti che si battevano per l’indipendenza. Iniziò la Grecia, proseguirono Serbia e Romania, il Montenegro di fatto non era mai stato soggiogato e infine giunse la Bulgaria: grazie all’interessato coinvolgimento di potenze straniere, Russia ed Impero austro-ungarico in primis, a inizio Novecento l’Impero Ottomano teneva ancora sotto controllo in Europa Kosovo e Albania (il cui lealismo frenava la nascita di una coscienza nazionale), la turbolenta Macedonia (nella quale imperversavano indipendentisti e comitađi filobulgari, filoserbi e filogreci) e quella che ancor oggi è la cosiddetta Turchia europea.
I piccoli Stati che erano sorti contestualmente all’arretramento turco avevano ancora rivendicazioni territoriali da soddisfare e si erano perciò legati alle Grandi Potenze per ottenere sostegno e finanziamenti al fine di coronare i propri progetti espansionistici.

Il Regno di Serbia aveva visto nel corso dell’Ottocento avvicendarsi sul trono le famiglie degli Obrenovi
e dei Karađeorđević, oscillando tra posizioni di vicinanza alla Russia ed all’Austria, finché il colpo di stato del 1903 depose cruentamente Alessandro I Obrenovi e portò sul trono Pietro Karađeorđević, assertore di una politica estera legata allo Zar e finalizzata al completamento dell’unità nazionale dei serbi. L’annessione della Bosnia-Erzegovina all’impero asburgico nel 1908 segnò un duro colpo per questi progetti, che si rifacevano alla načertanije ideata nella seconda metà dall’Ottocento dal “Cavour serbo” Ilija Garašanin: si trattava di un progetto di unificazione nazionale, sul modello di quanto compiuto dal Regno del Piemonte nella penisola italica, che la classe dirigente di Belgrado declinava in maniera sempre più ampia, rivolgendosi non solo ai serbi, ma, con il gradimento zarista, a tutti i popoli slavi sudditi di Vienna, al fine di costituire un grande stato jugoslavo.

Il piccolo Regno del Montenegro aveva sostanzialmente mantenuto sempre la sua indipendenza, presentandosi sovente come l’avanguardia del popolo serbo ed ora si trovava di fronte ad un dilemma identitario. Grazie ad un’accorta politica matrimoniale re Nikola Petrović Njegoš aveva legato la sua dinastia ad alcune tra le principali case regnanti europee (Romanov, Savoia e Karađeorđević), tuttavia a corte e nella classe dirigente di Cetinje si diffondeva sempre di più un sentimento filoserbo che auspicava la fusione dei due regni.

Sul trono di Grecia sedeva il re degli elleni, il quale pertanto rappresentava non solo lo Stato greco, ma anche tutti quei connazionali ancora sottoposti a dominazione straniera, in Macedonia come sulle coste dell’Asia Minore passando per le isole egee. Tale scelta si basava sulla megale idea, il grande progetto di riunire tutte le comunità elleniche, promosso per primo da Ioannis Kolettis ed ora cavallo di battaglia dell’astro nascente della politica greca, Eleftherios Venizelos, il quale prima di tutto mirava all’enosis (unione) ad Atene di Creta, l’isola nella quale era nato e che dal 1866 era attraversata da fermenti patriottici. L’impero britannico, padrone dello stretto di Suez e di Cipro, sulle auguste orme di lord Byron, caduto per l’indipendenza ellenica a Missolungi nel 1824, seguiva gli sviluppi e cercava di indirizzarli in maniera tale che la Sublime Porta non si schiantasse troppo rapidamente e mantenesse il suo ruolo di freno nei confronti delle spinte russe verso il mar Mediterraneo.

Tramontata al Congresso di Berlino del 1878 la Grande Bulgaria che la Russia aveva forgiato con la pace di Santo Stefano imposta a Costantinopoli, Sofia aveva ottenuto un’amplissima autonomia nel 1885 ma da allora aveva allontanato la sua orbita da Pietroburgo (che a sua volta si era dedicata maggiormente all’Estremo Oriente) e si era avvicinata a Berlino, il cui modello militare e dirigenziale sembrava idoneo per strutturare uno Stato efficiente e desideroso di completare con le armi un percorso di unificazione nazionale nel solco della memoria dell’impero medioevale dello Zar Simeone.

La Romania, invece, coerentemente con le origine teutoniche dei suoi regnanti, si era associata nel 1883 alla Triplice Alleanza, compiendo tuttavia un paradosso simile a quello compiuto dall’Italia l’anno prima. Come la diplomazia sabauda aveva scelto di legarsi a Berlino e al “secolare nemico” austriaco, pur volendo completare il percorso risorgimentale con ampie porzioni di territorio austro-ungarico (le terre irredente di Trentino, Venezia Giulia e Dalmazia), così Bucarest, che mirava alla Transilvania abitata in maggioranza da rumeni ma sottoposta al dominio ungherese, accantonò tali rivendicazioni pur di ottenere l’appoggio di due grandi potenze con le quali fronteggiare il panslavismo imperniato sulla vicina Russia e indirizzò altresì le sue mire alla Dobrugia bulgara.

Con un processo di riforme che si avvitava su sé stesso da decenni ed un esercito obsoleto che consiglieri militari tedeschi cercavano di modernizzare mentre a Londra veniva commissionato il rinnovamento della flotta, l’Impero Ottomano ricevette un sussulto nel 1908 con la rivolta dei Giovani Turchi. Costoro ridussero il Sultano ad un ruolo puramente simbolico ed avviarono un ambizioso piano di governo che in teoria doveva saldare i sudditi attorno ad un patriottismo istituzionale, ma di fatto si trasformò in un acceso nazionalismo turco. Le prime conseguenze non furono incoraggianti, poiché la Bulgaria proclamò la propria indipendenza e Vienna, al termine del suo mandato trentennale, tenne per sé la Bosnia-Erzegovina, nella quale aveva fortemente investito, restituendo solamente il sangiaccato di Novi Pazar, pericolosamente stretto tra Serbia e Montenegro. Tale annessione esasperò sia il governo zarista (che la riconobbe solo a fronte di un ultimatum tedesco) sia quello italiano, che, appellandosi all’articolo VII del Trattato della Triplice Alleanza, chiedeva invano compensi territoriali a fronte dell’espansione asburgica.

 

Le guerre balcaniche

Ancor più sconvolgente si sarebbe rivelato l’esito delle guerre balcaniche: la prima vide la perdita per Costantinopoli di tutte le province a ovest di Adrianopoli, nella seconda i vincitori si dettero battaglia per la spartizione del bottino e una terza si combatté all’interno di quella che i contemporanei chiamarono “la Grande Guerra”. In ognuna di esse il nazionalismo che animava i contendenti portò ad operazioni di pulizia etnica e di spostamenti forzati di civili non solo nei confronti di “infedeli” turchi, ma anche tra stati cristiani che si contendevano i medesimi territori.
Dopo che la spedizione in Libia nel 1911, la conquista del Dodecaneso e le incursioni navali nei Dardanelli nel 1912 avevano consentito all’Italia di mettere a nudo le debolezze militari turche, gli stati balcanici intensificarono le trattative bilaterali e ne scaturì una coalizione tra Serbia, Montenegro, Grecia e Bulgaria che nell’autunno del ’12 sconfisse clamorosamente le truppe ottomane, le quali denunciarono una percentuale di diserzioni elevatissima. Il 23-24 ottobre la cruenta battaglia di Kumanovo segnò il trionfo delle armate serbe: il canto di vittoria recitava “Kumanovo per Kosovo”, poiché tale successo andava finalmente a compensare l’epica sconfitta di Kosovo Polje del 28 giugno 1389, giorno in cui il dominio turco sui Balcani aveva compiuto un decisivo passo avanti. L’esercito greco d’altro canto era giunto a Salonicco e cingeva d’assedio Ioannina, quello montenegrino assediava Scutari e si era congiunto con i serbi a Novi Pazar, i bulgari erano arrivati sull’Egeo, assediavano Adrianopoli ed erano separati dalla capitale nemica solamente dal campo trincerato di Čatalka. Rendendosi conto delle mire di Belgrado, Atene e Cetinje nei confronti del territorio albanese, il 28 novembre Ismail Kemal proclamò a Valona l’indipendenza, che venne immediatamente riconosciuta da Italia ed Austria-Ungheria, considerando entrambe l’Albania un’importantissima chiave d’accesso all’Adriatico il cui controllo doveva essere sottratto ad altri soggetti statuali locali.

Nel corso della conferenza di pace svoltasi a Londra a inizio 1913 la diplomazia ottomana assunse un atteggiamento dilatorio, intuendo che la coalizione dei vincitori si sarebbe sfaldata nel momento in cui bisognava delineare i nuovi assetti confinari, ma nel frattempo le piazzeforti di Scutari, Ioannina e Adrianopoli, circondate e senza rifornimenti, dovettero capitolare. Ancora una volta Pietroburgo accettò il fatto compiuto a scapito delle richieste serbe riguardo le pretese austriache: in quest’occasione Vienna impose che la Serbia non arrivasse all’Adriatico e si confermò garante dell’indipendenza e dell’integrità albanese. Lo Zar non poté nemmeno svolgere il ruolo di arbitro nella spartizione della Macedonia che i trattati di alleanza tra gli Stati balcanici pur gli riconoscevano, in quanto Sofia, ritenendo che le proprie rivendicazioni non ricevessero soddisfazione ed Atene e Belgrado si stessero spartendo il bottino a suo danno, ricorse alle armi attaccando a sorpresa nella notte tra il 29 ed il 30 giugno. Dopo un arretramento iniziale, l’esercito serbo, sostenuto da montenegrini e greci, scatenò un’efficace controffensiva; vedendo la Bulgaria in difficoltà pure i turchi impugnarono nuovamente le armi e da nord intervenne la Romania: la disfatta bulgara, sanzionata dal Trattato di Bucarest del 10 agosto, avrebbe generato un revanscismo destinato ad alimentare quelle tensioni che sarebbero sfociate nella Prima Guerra Mondiale. Il trionfo serbo, invece, rilanciò l’immagine di Belgrado come punto di riferimento per i popoli slavi del sud, per cui non solo i serbi di Bosnia, ma anche una quota sempre più consistente di sloveni e croati, iniziarono a preferire la nascita di uno stato nazionale slavo incardinato sulla dinastia dei Karađeorđević rispetto ai progetti di riforma trialistica o federalista che giungevano dalla corte viennese.

Le pistolettate del 28 giugno 1914 a Sarajevo avrebbero avviato una reazione a catena destinata a sfociare nella Prima Guerra Mondiale, nella quale il fronte balcanico rivestì un ruolo non secondario. Convinte di ottenere un facile successo a danno di Serbia e Montenegro, durante l’autunno del 1914 le armate asburgiche vennero invece respinte tre volte e trascorsero quasi tutto il 1915 inchiodate sulle posizioni di partenza, anche perché l’entrata in guerra dell’Italia il 24 maggio aveva costretto allo spostamento di un Corpo d’Armata sul fronte dell’Isonzo. L’impasse si sarebbe risolta a ottobre, con l’intervento dell’armata tedesca di von Mackensen e la scelta bulgara di affiancare gli Imperi Centrali: la resistenza serbo-montenegrina crollò e la terribile ritirata nel gelido inverno del 1915-’16 terminò con l’imbarco dei resti dei due eserciti, dei governi, delle corti e di migliaia di profughi civili sulle navi mobilitate dalla Marina italiana con il supporto di francesi e inglesi. In Montenegro ed in Serbia il regime militare di occupazione austro-ungarico avrebbe dovuto fronteggiare la resistenza orchestrata dai gruppi paramilitari nazionalisti četnici e la Macedonia annessa alla Bulgaria subì una violenta opera di snazionalizzazione. Riorganizzato a Corfù, l’esercito serbo sarebbe tornato in linea sul fronte di Salonicco, ove le truppe dell’Intesa dopo la disfatta dell’operazione anfibia di Gallipoli, che avrebbe dovuto spalancare attraverso gli Stretti dei Dardanelli e del Bosforo una via di comunicazione con la Russia, avevano aperto un nuovo fronte, mentre un corpo di spedizione italiano presidiava l’Albania meridionale.

Bucarest il 27 agosto 1916 spezzò al pari di quanto fatto dall’Italia l’anno prima l’alleanza con l’Austria-Ungheria in nome del completamento del proprio percorso di unificazione nazionale, ma dopo una serie di successi iniziali in Transilvania le armate romene furono costrette a ripiegare in Moldavia. Qui resistettero grazie all’aiuto russo fino al dicembre 1917, allorché l’implosione dello Stato zarista portò al disfacimento dell’esercito su tutti i fronti ed alla capitolazione romena.

Il 2 luglio del 1917 era nel frattempo scesa in campo pure la Grecia, che aveva vissuto nei mesi precedenti lo scisma nazionale: re Costantino da una parte, neutralista e legato alla Germania, il capo del governo Venizelos dall’altra, filoinglese ed interventista. Nella fase iniziale del conflitto, l’inerzia greca aveva consentito all’Intesa di occupare Corfù e Salonicco, alla Bulgaria di prendere posizioni nella Macedonia egea ed un colpo di stato militare già nell’autunno 1916 aveva dato vita nella Grecia settentrionale ad un Esercito di difesa nazionale che aveva affiancato l’Armata d’Oriente sul fronte tessalonicese mentre il governo ateniese, deposto Venizelos, continuava a dichiararsi neutrale.

In questa fase il Comitato Jugoslavo all’estero, animato da intellettuali e patrioti slavi originariamente sudditi asburgici e adesso preoccupati dalle rivendicazioni italiane, riguardanti anche territori abitati da sloveni, croati e serbi come l’interno della penisola istriana e la Dalmazia, strinse contatti sempre più saldi con la corte dei Karađeorđević, sino a giungere il 20 luglio 1917 alla firma della Dichiarazione di Corfù, la quale delineava il futuro stato jugoslavo.

Nell’autunno del 1918 le truppe greche, serbe, francesi, inglesi e italiane sfondarono finalmente il fronte di Salonicco, costringendo alla resa la Bulgaria e l’Impero Ottomano e contribuendo alla dissoluzione finale dell’Impero austro-ungarico.

 

Verso la Seconda Guerra Mondiale

Nel periodo tra le due guerre mondiali la penisola balcanica visse una fase di costante instabilità, dopo che i trattati di Saint-Germain, Trianon e Sevres avevano estromesso definitivamente dallo scacchiere Austria, Ungheria e Turchia, mentre restava defilata la Russia, attraversata dalla guerra civile prima ed impegnata nel consolidamento dello stato sovietico poi.

Per riempire tale vuoto di potere si cimentarono l’Italia e la Francia: Roma, cavalcando la retorica della “Vittoria mutilata”, si avvicinò agli Stati revisionisti colpiti duramente dai Trattati di Pace (Ungheria e Bulgaria in primis) ed alimentò l’instabilità regionale con il sostegno ai separatisti croati e macedoni all’interno del neonato Regno dei Serbi, Sloveni e Croati. Quest’ultimo si era invece avvicinato a Cecoslovacchia e Romania stringendo con Parigi la Piccola Intesa, finalizzata a mantenere lo status quo e ad assicurare la penetrazione economica francese.

Nel Regno dei Serbi, Sloveni e Croati si era realizzato il progetto della Grande Serbia e di fatto nei gangli più importanti dell’esercito e della burocrazia le componenti non serbe risultavano sottorappresentate. Il Montenegro, che pur aveva fatto parte della coalizione vincitrice, scomparve dalle carte geografiche, assorbito nel nuovo regno dei Karađeorđević nonostante una guerra civile tra unionisti (bianchi) e separatisti (verdi). Dopo che un deputato nazionalista serbo uccise un collega croato nel bel mezzo dei lavori parlamentari, l’accentramento del potere nelle mani dei Karađeorđević si esasperò con la “ditattura del sei gennaio” (1928) e la proclamazione del Regno di Jugoslavia l’anno successivo. I separatisti ustaša croati, che godevano di protezioni in Italia e Ungheria, ed i macedoni dell’Organizzazione Rivoluzionaria Interna Macedone (VMRO) bene ammanigliati a Sofia assassinarono re Alessandro I a Marsiglia il 9 ottobre 1934. Tuttavia, nella fase in cui la Germania nazionalsocialista tentava di ereditare il ruolo di Vienna nei Balcani e Benito Mussolini schierava le divisioni al Brennero allo scopo di difendere l’indipendenza austriaca, le relazioni tra Belgrado e Roma migliorarono sensibilmente (accordi Ciano-Stojadinović del 1937).

La Bulgaria con il Trattato di Neuilly aveva perso lo sbocco all’Egeo, avendo ceduto la Tracia occidentale alla Grecia, e dato a Belgrado i distretti macedoni di Caribrod, Bosilegrad e Strumica. Onde contenere il crescente malcontento cavalcato dai comunisti, infervorati dagli eventi rivoluzionari russi, lo Zar Ferdinando I di Sassonia-Coburgo-Gotha abdicò a favore del figlio Boris III e alle elezioni del marzo 1920 trionfò il partito agrario di Aleksandăr Stambolijski. Questi successivamente coinvolse nel governo i comunisti e s’impegnò contro gli ultranazionalisti macedoni del VMRO: tre anni dopo un colpo di stato reazionario orchestrato da zar, esercito e VMRO depose ed eliminò Stambolijski; tentativi di uccisione del sovrano e le ripercussioni della Grande Depressione concentrarono sempre più il potere nelle mani di Boris III, il quale si sarebbe poi avvicinato alle potenze dell’Asse mantenendo una politica ferocemente anticomunista e revanscista.

La Romania, rientrata in guerra nel novembre del 1918, aveva ottenuto Bessarabia (approfittando dello sbandamento della Russia) e Bucovina settentrionale, parte del Banato, nonché la Transilvania, avendo sconfitto la Repubblica sovietica ungherese di Bela Kun, che si era opposta alla cessione della regione. A re Ferdinando I di Hohenzollern-Sigmaringen successe nel 1927 il minorenne Michele I: nel 1930 la reggenza ebbe fine con l’ascesa al trono di Carol II, il quale avrebbe accentrato sempre di più il potere e represso duramente il nascente movimento legionario della Guardia di Ferro di Corneliu Zelea Codreanu.

Il trattato di Sevres aveva sgretolato l’Impero ottomano, dando il via libera alla spartizione del Vicino Oriente tra inglesi e francesi, mentre Costantinopoli era sotto il controllo delle potenze vincitrici, sicché Atene, che già nel 1919 aveva occupato Smirne, decise di riprendere il progetto della megale idea rivolgendosi all’Asia Minore. Dopo una serie di sconfitte iniziali, i rivoluzionari turchi capeggiati da Mustafà Kemal, già distintosi sul fronte di Salonicco durante la guerra appena conclusa, costrinsero alla ritirata il contingente greco (agosto-settembre 1922) e presero infine possesso pure di Istanbul, anche se la capitale della nuova Turchia repubblicana sarebbe divenuta Ankara, la città da cui era partita la riscossa. In Grecia la catastrofe militare (accompagnata dal massiccio scambio di popolazioni che sradicò la millenaria comunità ellenica dalle coste turche) fu seguita da una fase di instabilità politica che avrebbe visto giungere al potere nel 1936 il generale Ioannis Metaxas, il quale organizzò lo Stato secondo un modello simile al fascismo, anche se in politica estera mantenne una linea filobritannica.

Dopo un’effimera esistenza tra il 1912 ed il 1914, l’Albania stava riprendendo la sua fisionomia, anche se Italia e Grecia cercavano di accordarsi affinché l’Epiro settentrionale passasse sotto il controllo di Atene ed il resto del paese diventasse un mandato italiano. Lo scoppio nel giugno 1920 di una rivolta a Valona (che assieme all’isolotto di Saseno doveva andare all’Italia in base al Patto di Londra) mise in crisi il governo filo-italiano di Durazzo, mentre a Tirana si consolidava una coalizione anti-italiana e ad Ancona scoppiava una rivolta di matrice anarchica, repubblicana e comunista tra i Bersaglieri in attesa di partire per l’Albania al fine di reprimere l’insurrezione. Roma dovette abbandonare il suolo albanese, accontentandosi di Saseno, e, manipolando le varie fazioni della composita società tribale schipetara, cominciò un confronto con Belgrado per il controllo del piccolo Stato. Nei momenti di maggiore armonia italo-jugoslava si giunse a delineare una spartizione del regno di Zog I, già ministro dell’interno e presidente della repubblica autoproclamatosi monarca nel 1928, ma in definitiva il primo aprile 1939 il Regio Esercito procedette all’occupazione dell’Albania. Il Ministro degli Affari Esteri Galeazzo Ciano vi instaurò un’amministrazione nazionalista che avrebbe dovuto dimostrare l’esportabilità del modello fascista e rilanciò il mito della Grande Albania.

 

La Seconda Guerra Mondiale e il ritorno di Mosca nei Balcani

Per quasi un anno dallo scoppio della seconda conflagrazione mondiale i Balcani rimasero fuori dal conflitto, anche se nell’estate del 1940 la Romania, avendo perso il punto di riferimento della Francia sconfitta, finì travolta dagli eventi orchestrati dalla diplomazia tedesca. A giugno, per effetto del patto Molotov-Ribbentrop, l’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche procedette all’occupazione della Bessarabia e della Bucovina settentrionale; ad agosto, su pressione italo tedesca, gran parte della Transilvania passò a Budapest in seguito al Secondo Arbitrato di Vienna, dopo che il Primo aveva costretto la Cecoslovacchia nel novembre del ’38 a cedere all’Ungheria alcune porzioni della Slovacchia meridionale e la Rutenia transcarpatica, mentre la Polonia si era presa il distretto di Teschen.

L’Anschluss dell’Austria aveva proiettato la Germania verso i Balcani, che però nelle dinamiche dell’Asse Roma-Berlino erano teoricamente zona d’influenza italiana: cercando di ribadire tale concetto di fronte alle straordinarie vittorie germaniche nel 1939-‘40, Mussolini s’imbarcò nella terribile campagna di Grecia (28 ottobre 1940), che sarebbe stata risolta soltanto grazie all’intervento tedesco attraverso la Bulgaria nella primavera seguente. Nel frattempo, infatti, avevano aderito al Patto Anticomintern l’Ungheria del reggente Myklós Horthy, la Slovacchia del presidente collaborazionista Jozef Tiso, la Romania, in cui il generale Ion Antonescu aveva di fatto esautorato la monarchia dopo le mutilazioni territoriali patite assumendo il titolo di Conducator, e la Bulgaria di Bogdan Filov (primo ministro, ma di fatto mero esecutore delle disposizioni del sovrano), sicché Adolf Hitler aveva consolidato un cordone sanitario attorno all’URSS e accerchiato la Jugoslavia. Quest’ultima, sperando di mantenere integrità ed indipendenza, aveva ugualmente aderito al Patto il 25 marzo 1941, ma un successivo colpo di stato filobritannico rovesciò il reggente principe Paolo e proclamò la maggior età dell’erede al trono, Pietro II: il governo golpista non denunciò l’alleanza appena stipulata, ma una serie di manifestazioni antitedesche dimostrò che le intenzioni erano ben altre. Dopo un pesantissimo bombardamento sulla capitale, scattò l’attacco congiunto delle potenze dell’Asse: l’Italia dalla frontiera giuliana e dall’Albania, la Germania attraverso l’Austria e la Bulgaria, ma anche l’Ungheria. Dopo l’ennesima Blitzkrieg, il governo di Belgrado fu costretto a firmare la resa ed il regno fu spartito a tavolino fra i vincitori. La Slovenia fu divisa fra italiani e tedeschi; la Croazia venne proclamata indipendente ed ottenne gran parte della Bosnia-Erzegovina, ma risolse i suoi problemi confinari con l’Italia in Dalmazia appena con i Trattati di Roma del 18 maggio; la Bulgaria ebbe la Macedonia orientale (e la Macedonia greca a est del fiume Struma), otto distretti della Serbia storica meridionale e orientale e parte del Kosovo; all’Ungheria andarono la Vojvodina ed il Prekmurje; la Serbia venne ridotta ai confini del 1912 (con il Kosovo settentrionale) ed affidata al generale Milan Aimovi, rimpiazzato già ad agosto dal generale Milan Nedić per l’incapacità dimostrata nel tenere a bada le prime iniziative partigiane; alla Romania bastò l’assicurazione di Hitler che il Banato, in cui vi era una forte minoranza romena, non venisse amministrato dall’Ungheria; all’Italia (oltre a Lubiana, alla Slovenia meridionale e a parte della Dalmazia) spettarono il Montenegro con uno spicchio di Bosnia-Erzegovina e, per interposta persona dell’Albania, Kosovo, Metohija e Macedonia Occidentale: all’Albania andò anche una fascia di territorio montenegrina comprendente Dulcigno, gran parte del distretto di Andrijevica con Plav e Gusinje (zona di miniere), nonché parte del distretto di Berane con Rozaj e dintorni.

In questa Jugoslavia spezzettata iniziò subito a diffondersi un movimento di resistenza di matrice nazionalista che trovò i suoi primi aderenti nei militari sbandati e nei paramilitari che si erano nuovamente organizzati nelle bande dei četnici, capeggiate dal colonnello Dragoljub Mihajlović nell’ambito dell’Esercito Jugoslavo in Patria. Egli decise, a fronte delle severe rappresaglie germaniche che fecero seguito alle prime operazioni di guerriglia, di concentrare i propri sforzi nella difesa dei civili serbi all’interno dello Stato Indipendente Croato, che aveva avviato un programma di conversioni forzate degli ortodossi al cattolicesimo e operazioni di pulizia etnica in Bosnia e nelle Krajine. Il 22 giugno 1941 l’Operazione Barbarossa fece venir meno la solidarietà fra Hitler e Stalin, sicché anche le cellule comuniste jugoslave ottennero il via libera da Mosca per impegnarsi nella lotta antinazifascista e ben presto emerse la figura carismatica di Josip Broz “Tito”.

Le due anime della resistenza inizialmente collaborarono, ottenendo lusinghieri successi in Montenegro ed in Serbia nel mese di luglio, ma i propositi di Tito di instaurare a guerra finita una nuova Jugoslavia socialista creò una spaccatura insanabile. Di fatto i četnici ridussero ulteriormente le operazioni contro i tedeschi, azzerarono quelle contro gli italiani e si dedicarono esclusivamente alla lotta contro gli ustaša e l’esercito regolare croato, nonché all’annientamento dei nuclei comunisti. Questo atteggiamento logorò i rapporti con gli angloamericani, che fecero pressioni sul governo jugoslavo in esilio affinché riconoscesse Tito ed il suo Comitato Antifascista di Liberazione Nazionale della Jugoslavia e sconfessasse l’operato dei nazionalisti, il ché sarebbe ufficialmente avvenuto il 16 giugno 1944 con l’accordo di Lissa. Analoga rottura fra nazionalisti e comunisti si verificò in seno alla resistenza albanese, in cui il Balli Kombëtar auspicava la fine della presenza italiana e di mantenere le annessioni del ’41 (rivendicando ancora territori in Kosovo, Macedonia e Montenegro), mentre Enver Hoxha dovette non solo sostenere la causa comunista nell’arretrata società albanese, ma anche mantenere la propria indipendenza rispetto alle mire egemoniche di Tito, che già pensava ad una federazione balcanica imperniata su Belgrado e comprendente Albania, Bulgaria e Grecia.

Tra il 1942 ed il 1943 l’operato di partigiani, collaborazionisti e forze occupanti generò nel territorio jugoslavo una sanguinosa guerra civile (un milione di vittime). In siffatto ginepraio le truppe italiane, in difficoltà nei confronti della lotta partigiana, armarono bande di volontari serbi, montenegrini (sia ortodossi sia musulmani) ed albanesi che compivano non solo operazioni antiguerriglia, ma anche regolamenti di conti fra di loro e, per quanto concerne i serbi, contro le formazioni dello stato croato, che formalmente rientrava nella sfera d’influenza di Roma. L’ostentata indipendenza di Zagabria, in realtà, si era orientata verso la Germania, i cui investimenti economici e la cui presenza militare mantenevano in piedi lo Stato, che sembrava preoccupato soprattutto di eliminare serbi, ebrei e zingari: al cospetto di simili mattanze molti reparti italiani assunsero un atteggiamento palesemente filoserbo, contrariando i vertici militari tedeschi.

Le rappresaglie che facevano seguito alle azioni partigiane “titine” ampliavano nel frattempo il solco tra occupanti e civili, i quali aderivano con sempre maggiore convinzione al movimento resistenziale, il quale avrebbe compiuto un salto di qualità successivamente all’8 settembre 1943. Nel momento del collasso istituzionale e militare d’Italia, infatti, interi depositi di munizioni, armi e vettovagliamento, ma anche reparti quasi al completo (divisione alpina Taurinense e divisione di fanteria da montagna Venezia) passarono a disposizione di Tito, mentre tedeschi, croati e bulgari subentravano alla presenza italiana in Slovenia, Dalmazia, Montenegro, Kosovo, Albania e Grecia.

Il 1944 segnò il ritorno di Mosca nello scenario balcanico, non più dietro le insegne del panslavismo, bensì con i possenti mezzi dell’Armata Rossa che stava incalzando da Stalingrado la Wehrmacht ed i suoi alleati. Dopo la sconfitta tedesca a Iaşi e Chişinău, re Michele depose Antonescu: il 23 agosto si dissociò dall’alleanza con la Germania, alla quale dichiarò guerra, e lasciò transitare sul territorio rumeno le forze sovietiche.

La Bulgaria non aveva formalmente dichiarato guerra a Mosca, coerentemente al sentimento filorusso diffuso nella popolazione, ma solo a Inghilterra e Stati Uniti, né aveva impegnato proprie truppe nelle offensive contro Grecia e Jugoslavia, limitandosi a far transitare le colonne tedesche e ad amministrare quei territori che in seguito la magnanimità dell’alleato le aveva concesso. Ciononostante il 5 settembre il Cremlino dichiarò guerra a Sofia e procedette all’occupazione del paese: un golpe militare impose il governo di un Fronte della Patria che spezzò i legami con il Reich e schierò convintamente le armate bulgare al fianco dei sovietici, a partire dalle operazioni congiunte con l’Esercito Popolare di Liberazione della Jugoslavia che portarono alla presa di Belgrado il successivo 20 ottobre. Armata Rossa e bulgari proseguirono la loro marcia verso l’Ungheria, lasciando a Tito il compito di respingere dal resto della Jugoslavia tedeschi e collaborazionisti; nel frattempo, con l’appoggio inglese della Royal Air Force e di alcune unità di Long Range Desert Patrols, i comunisti albanesi attaccarono Tirana il 29 ottobre ed il 18 novembre gli ultimi tedeschi si ritirarono dalla capitale. Il supporto britannico era stato prezioso per allontanare definitivamente le truppe germaniche pure dalla Grecia, ove si instaurò un governo di coalizione, anche se tra monarchici e comunisti, le due anime della resistenza, serpeggiavano già i presupposti di una guerra civile, che in effetti avrebbe dilaniato il paese tra il 1946 ed il 1949. La presenza di Londra nei Balcani in questa fase derivava dal cosiddetto accordo delle percentuali, informalmente stipulato da Stalin e Winston Chrchill il 9 ottobre 1944 e poi ratificato a Jalta, in cui i due statisti si erano riconosciuti le reciproche sfere d’influenza nella regione.

La Conferenza di Pace avrebbe poi ridimensionato i progetti espansionistici di Tito, il quale avrebbe voluto portare i confini della Jugoslavia prebellica fino in Carinzia e al fiume Tagliamento, mirando nel contempo ad assumere un ruolo di leader tra i comunisti balcanici in contrapposizione al Cremlino. Ottenute comunque dall’Italia Zara, Fiume e gran parte della Venezia Giulia, la Repubblica Socialista Federativa di Jugoslavia avrebbe poi rotto i propri rapporti con il Cominform nel 1948, cominciando un larvato percorso di avvicinamento al blocco atlantista sotto la copertura del Movimento dei Non Allineati e stringendo alleanze militari con Stati facente parte del dispositivo della NATO (Grecia e Turchia). A Sofia un referendum depose lo zar Simeone II ed instaurò il 15 settembre 1946 la Repubblica Popolare di Bulgaria, ai cui vertici si sarebbero succeduti Georgi Dimitrov, Vălko Červenkov, Todor Živkov e Petăr Mladenov. Pure a Bucarest il sovrano dovette abdicare e sorse la Repubblica Popolare Rumena, poi Repubblica Socialista di Romania che con la presidenza di Nicolae Ceauşescu (1974-1989), pur mantenendo la sua fedeltà al blocco sovietico, cercò di ottenere maggiori margini di autonomia in politica estera. Pur registrandosi fino al 1951 la lotta armata di gruppi nazionalisti, la Repubblica (Popolare tra il 1976 ed il 1992) Socialista d’Albania riuscì a mantenersi indipendente dall’ingombrante vicino jugoslavo, dapprima legandosi a doppio filo con Mosca (fino al 1961), quindi con la Cina maoista (sino al 1978) e scegliendo infine una traiettoria autarchica fino al 1985, anno in cui Ramiz Alia successe al padre fondatore Hoxha, conservando il potere fino al 1992.

 

Conclusioni

Perdurando questi regimi di stampo socialista, la penisola balcanica godette di un periodo di stabilità durato quasi mezzo secolo, laddove la Grecia, unico Stato esplicitamente occidentalista, dopo la conclusione della guerra civile visse in una condizione di precarietà politica ed istituzionale che avrebbe condotto, prima del consolidamento della democrazia, alla dittatura dei colonnelli (1967-1974). In seguito al crollo del Muro di Berlino ed al del blocco ideologico che il Cremlino aveva strutturato nel suo estero vicino, in Romania si registrò un cruento passaggio al sistema liberaldemocratico, culminato con la fucilazione di Ceauşescu e della moglie il 25 dicembre 1989; l’anno successivo capitolò il sistema bulgaro, nel 1991 si avviò l’implosione della Jugoslavia (sopravvissuta poco più di un decennio alla morte di Tito) e nel ’92 fu l’Albania e segnare il passo.

Le dichiarazioni d’indipendenza della Slovenia e soprattutto della Croazia (riconosciute immediatamente da Germania e Città del Vaticano) scatenarono la guerra civile nella ex-Jugoslavia, durante la quale si riaccesero contrasti etnici e politici risalenti alla Seconda Guerra Mondiale, con particolare riferimento a Krajine e Bosnia-Erzegovina (con gli accordi di Dayton del novembre 1995 si trovò un compromesso che a vent’anni di distanza mostra tutte le sue debolezze), mentre la Macedonia si era staccata contemporaneamente in maniera pacifica. In quest’ultimo caso le tensioni sarebbero tuttavia sorte con Atene riguardo la denominazione ufficiale dello Stato: Skopje è ancor oggi costretta ad usare in certi contesti il nome FYROM (Former Yugoslav Republic Of Macedonia).

Nel 1999 la repressione attuata dal governo serbo nei confronti della guerriglia separatista dei fondamentalisti islamici raccolti nell’UÇK ed il respingimento da parte di Slobodan Milošević dell’accordo di Rambouillet, che in pratica imponeva la presenza di truppe NATO sul suolo serbo a presiedere il processo di pacificazione, convinse la coalizione atlantica capeggiata dagli Stati Uniti d’America a scatenare l’operazione Allied Force su ciò che restava della Repubblica Federale di Jugoslavia a partire dal 24 marzo. Il 9 giugno a Kumanovo, la località in cui il sogno jugoslavista aveva vissuto uno dei suoi momenti più esaltanti grazie alla vittoria serba contro i turchi nel 1912, fu costretto a firmare un accordo che prevedeva, in cambio della fine dei bombardamenti (molti dei quali con proiettili all’uranio impoverito), il ritiro dell’esercito federale dal Kosovo, ove un contingente ONU avrebbe garantito l’autonomia della provincia nel rispetto della sovranità di Belgrado. Dopo che nel 2006 un referendum condusse all’indipendenza montenegrina, il Kosovo nel 2008 dichiarò unilateralmente l’indipendenza dalla Serbia, andando ben oltre quanto i mandati Onu prevedevano.


*Lorenzo Salimbeni, giornalista pubblicista e ricercatore storico, è socio fondatore e presidente del Centro Studi Eurasia-Mediterraneo.


All’origine del cattolicesimo di sinistra la filosofia “dossettiana” di Felice Balbo

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A coloro i quali, nel 1968, rimasero stupiti e un po’ sconvolti dall’estremismo rivoluzionario dei giovani studenti e operai, i quali “volevano tutto e lo volevano subito”, bisognerebbe rinfrescare un po’ la memoria, o, se ancora non l’avevano – per ragioni anagrafiche – le necessarie conoscenze storiche: perché quella esplosione non scaturì dal nulla, almeno in Italia: essa era stata preparata, fra l’altro, da un ventennio di predicazione rivoluzionaria da parte dei “professorini”, un gruppo di intellettuali cristiani militanti, formatisi attorno all’Università Cattolica di Milano, fondata da padre Agostino Gemelli.

Circa vent’anni prima che scoppiasse il ’68, con la sua carica eversiva e con i suoi miti egualitari, democratici e vagamente dadaisti e surrealisti, profondamente impregnati di marxismo nelle sue varie ed eterogenee versioni novecentesche (dal leninismo, al trotzkismo, allo stalinismo, al maoismo), altri giovani italiani – giovani molto perbene, che andavano a Messa tutte le mattine e che vestivano in maniera dimessa, pur provenendo, sovente, da ottime famiglie, dalle notevoli possibilità economiche - si ritrovavano, tenevano convegni, fondavano e collaboravano a battagliere riviste, partecipavano al dibattito sociale e sindacale, avevano voce in capitolo presso il partito di governo e si consideravamo figli della generazione del ’45, piena di sogni di rinnovamento e di rinascita sociale, politica, culturale e umana. Erano dei giovani che parlavano assai disinvoltamente di “rivoluzione” imminente e di trasformazione sociale e antropologica, così come nemmeno i beceri totalitarismi del XX secolo avevamo osato fare: ebbene, non erano giovani di tradizione socialista o comunista, ma rampolli della migliore borghesia cattolica, che criticavano aspramente De Gasperi per il suo “centralismo” e che spesso militavano nel Partito comunista, o ne erano simpatizzanti e fiancheggiatori, essendo convinti che solo da lì, da Marx e da Stalin, sarebbe stato possibile attingere le forze fresche per il necessario, radicale rinnovamento della stanca e decrepita società italiana, e dell’ormai moribondo capitalismo europeo e americano.

In altre parole: non dal pensiero di Marx o di Bakunin, non da quello di Gramsci o di Togliatti, veniva quella generazione di giovani intellettuali di estrema sinistra, per i quali la Democrazia cristiana di De Gasperi era un misero compromesso con l’esistente, e che vivevano nell’attesa gioachimita di un avvento del mondo nuovo, totalmente rinnovato nelle forme sociali, economiche, politiche, secondo una ispirazione autenticamente cristiana, e perciò, anche autenticamente umana: ma dal Vangelo di Gesù Cristo, che essi leggevano con lo spirito rivoluzionario, impaziente e intransigente, che ha sempre caratterizzato coloro i quali si attendono la palingenesi universale in questo mondo, qui e adesso, e non certo in qualche imprecisato regno dell’Aldilà. Il germe del radicalismo di sinistra, dell’intransigentismo rivoluzionario e barricadiero, non proviene solo, e non proviene in prima istanza, dalla tradizione marxista italiana, non proviene da Turati, o da Labriola, o da Bordiga, ma da alcuni “professorini” cattolici, che avevano sul comodino non il «Capitale», ma la Bibbia, e perfino da alcuni preti: giovani come Dossetti e Lazzati, come Rodano e Ossicini, come La Pira e Fanfani. Alcuni di essi sarebbero poi confluiti nel Partito comunista, altri ne sarebbero usciti; tutti, comunque, avrebbero criticato l’immobilismo e il conservatorismo di De Gasperi e avrebbero auspicato un profondo, radicale rinnovamento dell’intera società italiana, sulla base di un egualitarismo che aveva poco da invidiare a quello marxista. Oggi sono arrivati a occupare le posizioni chiave sia nello Stato italiano, sia nella Chiesa cattolica: è il loro grande momento.

Politicamente, i giovani “rivoluzionari” di formazione e di orientamento cattolico sono seguaci, fra il 1945 e il 1951, di Giuseppe Dossetti; filosoficamente, si rifanno ad un filosofo torinese oggi poco noto al grande pubblico, ma  che ebbe, negli anni Cinquanta e Sessanta, una considerevole influenza non solo sul gruppo, in fondo relativamente ristretto, che a quell’area faceva riferimento, ma anche presso un settore molto più vasto della galassia cattolica, un settore che non guardava tanto alla Democrazia Cristiana, ma al Partito Comunista, quale strumento per realizzare l’auspicata trasformazione della società italiana in un senso autenticamente “progressista” e “democratico”, sì da abolire secolari ingiustizie e inammissibili, inveterati privilegi che impedivano, a suo giudizio, l’instaurazione dei valori genuinamente evangelici nella Città terrena.

Quel filosofo era Felice Balbo, nato a Torino il 1° gennaio 1914 e morto a Roma il 3 febbraio 1964, laureato in Giurisprudenza, ufficiale degli Alpini nella Seconda Guerra mondiale e poi membro attivo della guerra civile del 1943-1945, pardon, volevamo dire della Resistenza. Balbo è stato un importante punto di riferimento per una intera generazione di cattolici di sinistra: egli stesso ammiratore del comunismo e del Partito Comunista, è stato uno dei maggiori teorici dell’incontro fra le due ideologie, la cattolica e la marxista; e, pur rifiutando gli esiti materialisti della seconda, sul terreno della “praxis” trovava perfettamente naturale che un fervente cristiano, impregnato di ideali umanitari e assetato di giustizia sociale, cercasse a sinistra, fra Stalin e Togliatti, gli elementi per la ricostruzione di un mondo nuovo, più giusto e più umano, dopo le terribili tempeste del ‘900 e dopo il cataclisma della Seconda guerra mondiale.

Che vi sia una incompatibilità essenziale fra cristianesimo e marxismo, sul piano teorico; e che, sul piano pratico, il marxismo avesse già fatto milioni di morti tra le file dei cristiani, non solo in Unione Sovietica, ma in tutti quei Paesi in cui il comunismo aveva preso il potere, e sia pure, come in Spagna, per un periodo di tempo assai limitato: tutto questo, evidentemente, non turbava i sonni del filosofo piemontese e non scalfiva né punto, né poco, le sue rocciosa certezze circa la giustezza della propria concezione e la sua beata ingenuità di credere possibile e auspicabile una sorta di convergenza fra cultura cattolica e cultura marxista, per la creazione di una società italiana rinnovata, più felice e più consona agli insegnamenti del Vangelo. Ciò la dice lunga sulla lungimiranza di Balbo: il tempo è galantuomo e mostra di che moneta fossero tutte le filosofie che non seppero scorgere neppure questo fattore discriminante.

Venendo allo specifico della sua concezione filosofica, cediamo la parola a Gianni Baget Bozzo, nella sua pregevole monografia «Il partito cristiano al potere. La DC di De Gasperi e di Dossetti, 1945-1954», Firenze, Vallecchi, 1975, pp. 364-368):

 

«Balbo accettava il giudizio della cultura cattolica tradizionale, secondo cui la filosofia aristotelico-tomista era la philosophia perennis: cioè l’autentico universale modo di filosofare aveva avuto una realizzazione efficace nell’artistotelico-tomismo. Visto soprattutto attraverso la mediazione di Etienne Gilson, il tomismo appariva come filosofia dell’essere, opposta sia ad un “essenzialismo” che ad un “esistenzialismo”. L’essere era immanente e trascendente ad un tempo di tutte le sue realizzazioni: era il principio di una continua attualità e quindi il fondamento del divenire. Esisteva il divenire perché l’essere era trascendente ed immanente ad ogni ente. La dimensione della molteplicità era data dall’aspetto emiprico-sensibile dell’ente (da Balbo definito sempre come ente partecipato rispetto all’essere). Tale dimensione materiale fondava la variabilità dell’ente e quindi la necessità di una sempre sua diversa configurazione rispetto all’essere: da ciò la diversità dei linguaggi, delle funzioni, delle determinazioni, che esprimevano direttamente la variabilità dell’ente dovuta ala sua dimensione materiale, ma non ponevano in discussione l’identità degli enti con l’essere. La filosofia era possibile come logos dell’essere, come espressione dell’ordine dell’essere: ma la filosofia doveva per questo non rimanere astratta rispetto agli enti storici, ma entrare profondamente nel mondo del mutevole ed esprimere l’identità dell’essere nelle variazioni degli enti.

La filosofia aristotelico-tomista, che pur aveva riconosciuto la formalità dell’essere e la sua trascendenza rispetto agli enti, non si era poi spinta tanto innanzi quanto era necessario per riconoscere la legge dell’essere negli enti: ne era risultata una filosofia astratta, che non dava un’immagine dell’immanenza dell’essere negli enti, ma faceva dell’essere qualcosa come una zona separata e particolare delle realtà: insomma finiva per mistificare nella sua formulazione la vera realtà dell’essere. Ciò aveva condotto il pensiero moderno alla negazione della metafisica e alla riduzione della realtà alla propria dimensione fenomenica. Questo era dovuto anche alla scoperta di una dimensione di razionalità inerente al fenomeno come tale, senza riferimento alle sue cause ontiche: la dimensione della scienza nel moderno senso della parola. La dimensione scientifica si era espressa nel marxismo: Marx aveva scopeto la “ragion ateologica”, cioè la ragione che considera la realtà immanente senza condurla alle sue cause supreme. Per Balbo ciò non comportava un’antropologia atea: su questo punto egli polemizzò, in modo particolare, con Augusto Del Noce. Il marxismo non era altro che la ragion scientifica applicata alla ragione storico-sociale: considerarlo come anti-filosofia e come anti-religione significava per Balbo equivocare sulla sua realtà autentica. In questo equivoco era caduto lo stesso marxismo storico: e qui stava la ragione ultima delle dimissioni di Balbo dal Pci, avvenute nel marzo ’52 insieme ad altri esponenti dell’ex Sinistra cristiana.

Per Balbo esistevano due aspetti causali della crisi storica. La filosofia perenne si era separata dall’immanenza storica; la sua formulazione era divenuta inadeguata e, per questa ragione, falsificante, incapace cioè di condurre alla comprensione della stessa intenzionalità originaria del sistema. Ma, d’altro canto, il marxismo aveva equivocato sul suo stesso significato e si era auto interpretato come antropologia tea, invece che come riconoscimento della razionalità fenomenica, come “scienza della società”. Questi due gravi equivoci avevano condotto ad una radicale crisi della cultura e, quindi, della civiltà. Nessun progresso era possibile a partire dalla condizione culturale in atto,  che era il frutto dell’isterilimento della filosofia perenne e del fraintendimento del marxismo,. Era però aperto e possibile un compito storico e creativo: quello di riformulare la filosofia dell’essere in modo che essa potesse diventare realmente ragion storica e comprendere il segno dell’essere nella pluralità del divenire, riconoscendo così, al tempo stesso, la possibilità di una considerazione razionale della dimensione materiale e fenomenica degli enti, quella propria della ragion scientifica che il marxismo aveva per primo formulato sul piano della conoscenza storica.

Il pensiero di Felice balbo risolveva il tipo  di problema che i giovani dossettiani alla guida del movimento giovanile avevamo di fronte. Balbo, infatti, affermava l’esistenza di una crisi radicale  del pensiero politico e affermava in modo particolare, con il prestigio della sua esperienza politica,  che la crisi coinvolgeva anche il marxismo. Inoltre indicava, come chiave della soluzione, la filosofia aristotelico-tomista, che era allora, non solo in diritto ma anche in fatto, la filosofia pubblica della Chiesa e, quindi, la filosofia del partito dell’unità dei cattolici: ciò giustificava, dunque, l’esistenza, sia pure a titolo provvisorio, della Democrazia cristiana. Per di più, egli offriva la spiegazione per cui un’azione politicamente rinnovatrice non fosse possibile: mancava la filosofia capace di fondarla e, quindi, la cultura capace di sostenerla. Questo era proprio quanto Dossetti aveva affermato sciogliendo la corrente. La filosofia di Balbo forniva una legittimazione teorica ad un’azione politica “anticatastrofica”, come egli diceva: cioè di un’impresa che, senza risolvere alcuno dei problemi sociali aperti, consentisse di evitare le virtualità distruttive implicate nella situazione di crisi L’urto tra Oriente e Occidente, sia sul piano interno che su quello internazionale, era più che una probabilità, era la tendenza oggettiva del momento. Il compito di un’azione politica costruttiva stava, poste queste condizioni, nel garantire la convivenza delle parti contrapposte e non mediate, evitando che la logica della loro assoluta contrarietà prevalesse sulla possibilità della loro coesistenza. Balbo stesso riconosceva nella politica di De Gasperi tale virtualità “anticatastrofica”.»

 

Quando si dice la beata ingenuità di certe filosofie piene di candore e di buone intenzioni.

Balbo riteneva di poter rinnovare la filosofia e la cultura italiana, e, attraverso di esse, la vita politica e sociale della nazione, rivitalizzando l’aristotelismo tomista, mediante una robusta iniezione di “realismo”, sì da evidenziare l’immanenza dell’essere negli enti; e si proponeva di attuare ciò per mezzo del marxismo, riconosciuto, anzi promosso, al rango di sola filosofia veramente scientifica della storia, con il piccolo, insignificante dettaglio di negare l’ateismo della sua antropologia e di ristabilirne la vera natura, rimasta sconosciuta agli stessi marxisti. Insomma: Balbo aveva compreso il tomismo meglio di San Tommaso, e il marxismo meglio di Marx; aveva visto che il secondo non negava affatto il primo, né le sue radici metafisiche; e che la via maestra per ristabilire una visione spirituale e religiosa della vita, che tenesse conto dei bisogni del pensiero moderno e della sete di giustizia delle classi e dei popoli meno fortunati, era quella di fondere le due tradizioni, restituendole alla loro autentica missione, rimasta sconosciuta sia ai tomisti, che avevano peccato per un eccesso di metafisica, sia ai marxisti, che avevano frainteso la reale natura della loro stessa filosofia.

Che cosa dire, come commentare questo guazzabuglio di velleità incredibilmente ingenue e di ambizioni intellettuali tanto smodate, quanto irrealistiche e inconsistenti, quando non decisamente sbagliate in se stesse, ossia scaturenti da gravissimi errori interpretativi, sia dell’aristotelismo e del tomismo, sia del marxismo? Che cosa dire di questi ambiziosi “professorini”, di questi giovani seguaci di Dossetti, i quali volevano cambiare il mondo e che accusavano De Gasperi di gestione personalistica del partito dei cattolici e di impostazione conservatrice (in quanto liberale) dei suoi obiettivi sociali e delle sue finalità economiche?

Il minimo che si possa dire è che erano fuori della realtà, per un eccesso di dottrina astratta e di presunzione speculativa; e quanto fossero miopi, incredibilmente miopi e angusti, i loro progetti, o meglio, i loro sogni ad occhi aperti, lo si può ben giudicare adesso, a distanza di oltre sei decenni, ma già allora era chiaro, per chi fosse capace di vedere le cose con un poco di obiettività e di distacco: né si potrà mai deprecare abbastanza la loro incredibile infatuazione per il comunismo, specificamente nella sua versione marxista, che si illudevano di poter “correggere” e di poter “chiarire” agli stessi marxisti, coniugando tranquillamente il Vangelo e «Il Capitale»: e questo dopo gli orrori della guerra di Spagna, le “purghe” staliniane, la persecuzione sistematica della borghesia e dei cristiani in tutti i Paesi caduti nell’orbita sovietica.

Tornando a Felice Balbo, ci sembra di poter dire che esistano due tipi di filosofi: i pensatori autentici, che battono vie nuove, o, perlomeno, che battono vie note in maniera nuova; e coloro i quali si pongono l’obiettivo di “rivisitare”, “chiarire” (o pasticciare), “attualizzare” (a costo di stravolgerlo) il pensiero di altri: e Balbo apparteneva, senza dubbio, alla seconda categoria. Non vi è nulla di male, in questo: non tutti possiedono lo spessore e il vigore dell’autentico pensatore. Il male consiste quando si pensa di aver capito una filosofia meglio di coloro che l’hanno elaborata, e ci si pone lo scopo di “restaurarla”. È stato Marx a dare il (cattivo) esempio, quando ha affermato di volere, semplicemente, rimettere sui piedi la filosofia di Hegel, che se ne andava con la testa in giù: non c’è da meravigliarsi che tanti suoi seguaci abbiamo ricalcato le orme del maestro, applicando lo stesso “metodo”, se così vogliamo chiamarlo, ad altre linee di pensiero, e perfino a quella più robustamente stabilita, da secoli e secoli, sulle solide basi della propria tradizione: quella aristotelico-tomista. Dire che una simile operazione pecca di presunzione è ancora troppo poco: sarebbe più giusto dire che rappresenta un esempio da manuale di ciò che, in filosofia, è non solo opinabile e sconsigliabile, ma decisamente scorretto e irragionevole.

Quanto, poi, al fatto di regalare al marxismo la qualifica di sola ed unica filosofia capace di leggere correttamente la realtà storica e sociale, purché si sottoponga la sua antropologia ad un bagno forzato di teologia, e ciò proprio partendo da una prospettiva cristiana, e avendo l’obiettivo di instaurare una società pienamente cristiana: ebbene, tutto questo ci sembra che si qualifichi da sé: si tratta di una operazione speculativa semplicemente imbarazzante, anzi, addirittura disarmante, per il suo velleitarismo e la penosa inconsistenza delle sue basi teoriche e pratiche. Ma tant’è: anche di simili equivoci e di simili contraddizione vive la cultura italiana, sempre così protesa ad inseguire l’ultima versione del politicamente corretto, che, talvolta, le capita di salire sull’autobus sbagliato, per un eccesso di zelo e d’impazienza messianica. A volte, gli alfieri e i profeti della società futura, naturalmente più giusta e più umana, si affrettano con tale empito verso le magnifiche sorti e progressive, da bruciare le tappe e arrivare alla meta… dopo che la loro utopia si è già realizzata, ma in maniera ben diversa da come l’avevano sognata. Senza, però, vederla e senza riconoscerla.

Le Crociate? La risposta proporzionata e legittima all’assalto incessante dell’Islam

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Traslazioni semantiche di un vocabolo. Essere un “crociato” era cosa bella e santa per un Italiano o un Europeo del Medioevo: Cacciaguida, il trisavolo di Dante, da questi incontrato in Paradiso, è morto in Terra Santa, combattendo per la fede. Una vita pia, una morte eroica: un esempio di cui possono vantarsi ed un modello al quale devono ispirarsi i suoi discendenti, per generazioni e generazioni.

Ma poi è arrivata la modernità. È arrivato l’Illuminismo, è arrivato Gibbon, è arrivato Voltaire. Il cristianesimo non era più una merce pregiata, al contrario, un qualcosa di cui vergognarsi e di cui si auspicava la fine imminente, magari sotto i tacchi degli Europei finalmente liberi ed emancipati («écrasez l’infâme!»): e “crociato” è divenuto una parolaccia.

Tale significato peggiorativo è perdurato fino ad oggi; ed anzi, se possibile, esso è andato ulteriormente crescendo, e, nello stesso tempo, dilatandosi, fino ad abbracciare quasi qualsiasi comportamento politicamente scorretto e retrivo, oscurantista, violento. Dire “crociato” significa dire aggressivo, ottuso, e anche ipocrita, perché assetato di ricchezze e vantaggi materiali, dissimulando però tali appetiti dietro la facciata di una nobile motivazione spirituale.

Tutto nasce da un giudizio storico, quello degli illuministi, a carico delle Crociate stesse: una volta sentenziato che esse furono delle guerre stupidamente brutali, gratuitamente insensate e condotte per motivi bassamente egoistici (brama di feudi e di ricchezze), con la scusa della liberazione dei Luoghi Santi, va da sé che i crociati altro non potevano essere che degli avanzi di galera, più o meno della risma dei “conquistadores” di qualche secolo dopo.

Ma è proprio vero che le Crociate sono state delle spedizioni militari assurde, brutali, ipocrite, condotte contro una civiltà islamica pacifica e culturalmente superiore, che altro non avrebbe domandato se non di coabitare in pace e fratellanza con il cristianesimo? Perché, se dovesse venir meno questa interpretazione “a posteriori” dei fatti, allora cadrebbe anche lo stereotipo negativo del “crociati”; e i progressisti dovrebbero andarsi a cercare un altro vocabolo per insultare i loro avversari politicamente scorretti.

Ebbene: un grande storico medievalista, l’americano Paul Crawford, docente alla California University of Pennsylvania e considerato fra i massimi esperti degli ordini monastico cavallereschi, come i Templari e i Cavalieri Teutonici, ha preso il toro per le corna e ribaltato completamente la vulgata dominante a proposito delle Crociate e dei crociati, sostenendo che le Crociate furono semplicemente la risposta difensiva dell’Europa contro l’aggressività islamica, scatenatasi contro il cristianesimo a partire da più di quattro secoli prima.

In una serie di pubblicazioni e anche di interviste televisive, Crawford ha cercato di rettificare il comune punto di vista a propositi delle Crociate, e di fornire una visione più esatta e veritiera di quell’imponente fenomeno storico: e il fatto che, da noi, non sia quasi giunta l’eco di un tale dibattito storiografico, così stimolante che dovrebbe suscitare l’interesse di chiunque, in buona fede, si interessi di storia, è una ulteriore conferma, in negativo, di quanto continui a pesare sulla cultura moderna la cappa di un conformismo ideologico post-illuminista, il quale tramanda sempre più stancamente, ma, a quanto pare, con la connivenza della maggior parte degli intellettuali, i velenosi e gratuiti pregiudizi anticristiani di un Gibbon o di un Voltaire.

Vale la pena di riportare la sintesi delle tesi di Crawford e, in particolare, la sua puntigliosa confutazione di quattro famosi “miti” esistenti a proposito di esse; ci serviamo di un articolo apparso sulla rivista «Senapa, missione Maria», Edizioni Villadiseriane, n. 2, 2015, pp, 15-16):

 

«1) LE CROCIATE SNO UN ATTACCO IMMOTIVATO AL MONDO MUSULMANO.

Niente potrebbe essere più lontano dalla verità, afferma Crawford. Nel 632 d. C., Egitto, Palestina, Siria, Asia Minore, Africa settentrionale, Spagna, Francia, Italia, Sicilia, Sardegna e Corsica erano tutti territori cristiani. Certamente vi furono tante comunità cristiane anche in Arabia. Ma nel 632 d.C. i cristiani erano stati attaccati in Egitto, Palestina, Siria, Nord Africa, Spagna, gran parte dell’Asia Minore, e in Francia meridionale. Le comunità cristiane d’Arabia vennero interamente distrutte poco dopo il 633, quando ebrei e cristiani furono espulsi dalla penisola. Le forze islamiche conquistarono tutto il Nord Africa e puntarono verso l’Italia e la costa francese, attaccando la penisola italiana dell’837. In Terra Santa i pellegrinaggi divennero sempre più difficili e pericolosi.

Lo storico approfondisce nel dettaglio la grave situazione venutasi a creare. È quindi da questi fatti  che i papi del X e XI secolo si attivarono nel disperato tentativo di proteggere i cristiani perseguitati. Conclude quindi affermando che “lungi dal non essere motivate, le crociate rappresentano di fatto il primo grande contrattacco occidentale agli attacchi musulmani., che avevano avuto luogo ininterrottamente dalla nascita del’Islam fino all’undicesimo secolo, e che continuarono anche in seguito, senza sosta. Se la cristianità voleva sopravvivere occorreva una forte difesa”. Per capire che si trattava solo di difesa, domanda: “Quante volte le forze cristiane hanno attaccato la Mecca o Medina? Naturalmente mai”.

2) I CRISTIANI HANNO AVVIATO LE CROCIATE PER SACCHEGGIARE I MUSULMANI E ARRICCHIRSI.

Anche questo non è vero. Urbano II invitò nel 1095 i guerrieri francesi nella Prima crociata, legittimandoli a “fare bottino del tesoro del nemico”. Ma questo, dice Crawford, non era altro che il modo usuale per finanziare la guerra nella società antica e medievale. I crociati, infatti, vendettero tanti dei loro beni per finanziare le loro spedizioni. Lo storico ricorda anche che uno dei motivi principali del naufragio della quarta crociata fu proprio la mancanza di soldi. I papi stessi ricorsero a stratagemmi sempre più disperati per raccogliere fondi da utilizzare nel finanziamento delle crociate. Anche in questo caso, dopo aver analizzato molto più in profondità la situazione, Crawford conclude: “furono solo poche persone a diventare ricche a causa delle crociate, e il loro numero era sminuito da coloro che entrarono bancarotta. La maggior parte dei medioevali era ben consapevole di questo e non ha ritenuto la crociata un modo per migliorarla situazione finanziaria.

3) I CROCIATI ERANO ANIMATI DA MOTIVAZIONI MATERIALISTRUICHE E NON RELIGIOSE.

Dopo Voltaire questo è un mito molto popolare., dice Crawford. Certamente ci furono uomini cinici e ipocriti anche nel Medioevo, tuttavia anche questa affermazione è falsa. Innanzitutto il numero di vittime delle crociate era molto alto e la maggior parte dei crociati non si aspettava certo di ritornare in patria. Uno storico militare ha stimato il tasso di perdite della Prima Crociata con un 75%. La partecipazione alla missione è stata volontaria e i partecipanti venivano motivati attraverso dei sermoni, che però erano pieni di avvertimenti sul fatto che crociate avrebbero portato privazione, malattia, sofferenza e spesso more. L’accettazione di andare incontro a difficoltà e sofferenza  può essere visto dentro la dottrina cristiana di assimilazione alle sofferenze di Cristo e dei martiri. Lo storico spiega che per un crociato, la missione armata era essenzialmente un atto di amore disinteressato, come chiede il passo evangelico “dare la vita per i propri amici” (Gv., 15, 13). Fin dall’inizio, quindi, la carità cristiana era la ragione per la crociata, e questo non cambiò per tutto il periodo.

4) LE CROCIATE HANNO SPINTO I MUSULMANI AD ODIARE E AD ATTACCAREI CRISTIANI.

Come scritto nella risposta 1), i Musulmani hanno attaccato i cristiani per più di 450 anni prima che papa Urbano dichiarasse la Prima Crociata. Non avevano certo bisogno di alcun incentivo per continuare a farlo. Crawford ricorda che prima del 19° secolo non esisteva nemmeno la parola araba “crociata” perché non era importante per i musulmani distinguere le crociate dagli altri conflitti tra cristianesimo e Islam. Saladino non era certo venerato dai musulmani come il leader anticristiano. Solo nel 1899 il mondo musulmano ha riscoperto le crociate, ma è stato grazie agli occidentali come Voltaire, Gibbon, sir Walter Scott e sir Steven Runciman, che dipinsero i crociati come rozzi, avidi, barbari aggressivi che attaccarono civili e musulmani amanti della pace. Allo stesso tempo, dice lo storico, il nazionalismo cominciava a mettere radici nel mondo musulmano e i nazionalisti arabi presero in prestito questa grave e cattiva interpretazione delle crociate. Questo ha portato senza soluzione di continuità alla nascita di Al-Qaeda. E conclude: “Non sono le Crociate che hanno insegnato ad attaccare l’Islam e l’odio verso i cristiani. La guerra al cristianesimo ha preceduto di molto le crociate e risale alla nascita sessa dell’Islam. Piuttosto, è l’Occidente che ha insegnato all’islam ad odiare le crociate.”»

 

In fondo, quelle di Paul Crawford sono semplici osservazioni di buon senso: non si tratta di vere e proprie “scoperte” storiografiche, ma cose che già si sapevano, e che, tuttavia, erano state rimosse, sotto i colpi della propaganda ideologica illuminista e anti-cristiana. Basta leggere gli “Atti degli Apostoli” o le Lettere di san Paolo per rendersi conto che le comunità cristiane erano ampiamente diffuse in tutto il Medio Oriente e nell’Asia Minore fin dal primo secolo, pochi decenni dopo il passaggio terreno di Gesù Cristo. E basta pensare ai Copti per rendersi conto che nemmeno quattordici secoli di persecuzioni e discriminazioni sono stati sufficienti a estirpare completamente la primitiva radice cristiana dall’Egitto.

È interessante il fatto che stessa parola “crociata” non esistesse in lingua araba sino alla fine del XIX secolo, quando sorse, col Mahdi, un primo, grande movimento di rivolta anticristiana da parte di un movimento religioso e militare organizzato, nel Sudan (cfr. il nostro precedente articolo: «Finisce totalmente distrutta nel deserto l’armata anglo-egiziana di Hicks Pascià (1883)», pubblicato sul sito di Arianna Editrice in data 26/02/2014). Il linguaggio dei terroristi islamici dei nostri anni, di Osama Bin Laden e degli esponenti del Califfato islamico insediatosi a cavallo fra Iraq e Siria, utilizza la parola “crociati” come sinonimo di “cristiani”, anche per giustificare lo sterminio sistematico o l’espulsione delle antichissime comunità cristiane, o quel che di esse rimane, da quei Paesi del Medio Oriente. Ma è una manipolazione linguistica che ha un solo, cattivo maestro: la cultura occidentale moderna, neo-illuminista e anticristiana.

L’odio contro il cristianesimo è nato in Europa, dentro l’Europa, fra XVII e XVIII secolo: e, dalla sua “intellighenzia”, è stato esportato negli Stati Uniti (tramite la Massoneria) e nel resto del mondo. La “Glorious Revolution” inglese del 1688 fu un complotto per spazzare via la dinastia cattolica degli Stuart e sostituirla con una dinastia protestante (cfr. il nostro articolo «È stata proprio così gloriosa, la “Glorious Revolution” inglese del 1688?», pubblicato sul sito di Arianna Editrice in data 25/10/2011). La dissoluzione dell’antico e glorioso Impero asburgico venne decisa a tavolino, nel 1918, per eliminare dalla carta geografica dell’Europa l’ultima grande potenza dichiaratamente cattolica (cfr. il nostro precedente articolo: «Dietro la fine dell’Austria e le premesse di un’altra guerra mondiale il cattivo genio di T. Masaryk», pubblicato sul sito di Arianna Editrice in data 27/02/2009). È lo stesso odio anti-cristiano che ha voluto l’espunzione di qualsiasi riferimento alle “radici cristiane” dal testo della Costituzione europea; e che vuole introdurre, adesso, una serie di norme legislative – su aborto, eutanasia, matrimonio omosessuale - che si contrappongono frontalmente a secoli e secoli di etica cristiana.

Non domandiamoci, perciò, da dove nasce tutto l’odio odierno contro il cristianesimo: nasce da noi stessi, dalla pancia profonda dell’Europa. Noi lo abbiamo incubato, sviluppato, alimentato, corteggiato, propagandato, esportato in ogni angolo del globo terracqueo. Gli altri popoli e le altre culture lo hanno ricevuto da noi, e adesso lo rivolgono contro di noi: perché non distinguono, loro, fra “cristiani” e “occidentali”, ma considerano le due cose inseparabili. In fondo, hanno ragione: l’Europa e gli Stati Uniti non esisterebbero senza il cristianesimo: anche se gli europei e gli statunitensi non sono disposti ad ammetterlo, ciò è evidente a chiunque altro guardi le cose dall’esterno, con un minimo di obiettività.

Perciò, dobbiamo fare i complimenti ai signori progressisti, laicisti e radicali d’Europa e d’America: se volevano il suicidio collettivo, ma senza sporcarsi le mani, hanno trovato chi lo attuerà per essi…

La Resistenza della Cina

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Con la sua Resistenza, costata oltre 35 milioni di morti, la Cina contribuisce in modo determinante alla sconfitta del Giappone che, battuto nel Pacifico dagli Usa e in Manciuria dall’Urss, si arrende nel 1945 dopo il bombardamento atomico di Hiroshima e Nagasaki
  

Il 70° anniversario della vittoria del popolo cinese nella Guerra di resistenza contro l’aggressione giapponese, che si celebra il 3 settembre a Pechino, viene boicottato non solo da Tokyo ma da Washington e quasi tutti i governi della Ue che inviano a Pechino solo esponenti secondari. Grottesco tentativo di cancellare la Storia, analogo a quello nei confronti del 70° anniversario della vittoria sul nazismo, celebrato a Mosca il 9 maggio (vedi «il manifesto» del 12 agosto scorso).

Lo sfondo storico: la Cina degli anni Trenta, ridotta a uno stato coloniale e semicoloniale soprattutto da Giappone, Gran Bretagna, Stati uniti, Germania e Francia. Nel 1931 il Giappone trasforma il Nord-Est del paese in un suo Stato fantoccio (Manchukuo). Mentre l’esercito nipponico attacca Shanghai nel 1932 e successivamente altre città, il Guomindang di Chiang Kai-shek – che aveva preso il potere nel 1927 con un sanguinoso colpo di stato ed è sostenuto sia dagli anglo-americani che da Hitler e Mussolini, alleati di Tokyo – continua a concentrare i suoi attacchi contro le basi rurali dall’Esercito rosso, diretto dal Partito comunista. Questo è costretto nel 1934 a una disastrosa ritirata che Mao Tse-tung, ripreso il comando, trasforma in una delle più grandi imprese politico-militari: la Lunga Marcia.

Il Giappone scatena la guerra di aggressione all’intera Cina nel 1937, occupando Pechino e Tianjin in luglio, Shanghai in novembre e, in dicembre, Nanchino. Qui le truppe nipponiche compiono il grande massacro, uccidendo nei modi più orrendi oltre 300mila civili. Oltre dieci città cinesi vengono attaccate dai giapponesi con armi biologiche (Bacillus anthracis e Salmonella paratyphi). A questo punto, per iniziativa del Partito comunista, nasce il Fronte unito antigiapponese con il Kuomintang. Nei successivi otto anni di guerra l’esercito del Kuomintang, armato dagli Usa, da un lato combatte gli invasori giapponesi, anche se in modo discontinuo; dall’altro, sottopone le zone liberate dall’Esercito rosso al blocco economico e militare, attaccando in diversi casi le forze popolari, e fa sì che si concentri contro di esse l’offensiva giapponese. Chiang Kai-shek gioca su più tavoli, ordinando a una parte dei suoi generali di collaborare con i giapponesi.

Sulla base di una visione con un occhio di Storia, The Economist afferma che la Cina non è stato salvato il Giappone dai comunisti, ma solo dal Kuomintang.
Dal 1937 al 1945 il Partito comunista, cresciuto da 40mila a 1,2 milioni di membri, guida le forze popolari in una guerra che logora sempre più l’esercito nipponico, estendendo le zone liberate da 1,5 a quasi 100 milioni di abitanti.

Con la sua Resistenza, costata oltre 35 milioni di morti, la Cina contribuisce in modo determinante alla sconfitta del Giappone che, battuto nel Pacifico dagli Usa e in Manciuria dall’Urss, si arrende nel 1945 dopo il bombardamento atomico di Hiroshima e Nagasaki. Subito dopo, secondo un piano deciso a Washington, Chiang Kai-shek tenta di ripetere quanto aveva fatto nel 1927. Le sue forze, armate e sostenute dagli Usa, si trovano però ora di fronte l’Esercito popolare di liberazione di circa un milione di uomini e una milizia di 2,5 milioni, forti di un vasto appoggio popolare.

Circa 8 milioni di soldati del Kuomintang vengono uccisi o catturati e Chiang Kai-shek fugge a Taiwan sotto protezione Usa. Il 1° ottobre 1949 Mao Tse-tung proclama la nascita della Repubblica popolare cinese dalla porta di Tien An Men. Di fronte alla quale, il prossimo 3 settembre, sfilano le forze armate di una Cina profondamente cambiata ma che, come la Russia, gli altri Brics e decine di paesi presenti a Pechino con i massimi rappresentanti, segnala la volontà di difendere la propria sovranità nazionale contro i nuovi disegni di dominio imperiale.

La Storia attraverso la geografia del Capitale

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Nell'epoca in cui il capitale è il principale responsabile delle trasformazioni globali, una sua approfondita geografia si rivela l'unico strumento per interpretare i moti della Storia, oggi così estesi e complessi. Così, l'occultamento dei patrimoni, consentito dall'anonimato del denaro, nonché dalla complicità politica, non osteggia solo l'applicazione di imposte progressive, ma soprattutto una più profonda comprensione del nostro tempo.

  

Sarebbe forse possibile tracciare la carta geografica di un pianeta dalle terre in perpetua transizione? Con tutta evidenza la risposta è no, perché ogni sapere, conoscenza o definizione può fondare la propria verità solo in riferimento ad una condizione ambientale stabile, ad un’identità preservata nel mutamento. D’altra parte, però, senza una geo-grafia non sarebbe possibile strutturare alcuna interazione cosciente con il mondo rappresentato – senza una scrittura del mondo, non si potrebbe scrivere nel mondo. Tuttavia, se la scrittura antropica è qualcosa a cui, con qualche sforzo, si potrebbe anche rinunciare, la responsabilizzazione della mano scrivente non può non considerarsi, invece, una priorità di ogni Stato che voglia dirsi civile e moralmente consapevole. E giacché le trame del capitalismo animano ogni processo periodizzante della storia contemporanea, affinché essa possa esser compresa diviene irrinunciabile la necessità di abbozzare una geografia del capitale; con la sola improba differenza che esso, senza patria od identità, è soggetto ad infiniti trasferimenti e repentine delocalizzazioni, assumendo sempre più, famelico del rifugio che possa conservarlo integralmente, le fattezze telluriche di una landa senza posa.

Seppur il nomade anonimato dei patrimoni rappresenti un’ostilità intrinseca, il principale scoglio per un’esaustiva geografia del capitale è il suo occultamento, ovvero il deposito di un’enorme quota degli attivi finanziari mondiali nei paradisi fiscali. Questo fenomeno salta sfrontatamente agli occhi non appena si osservi la posizione patrimoniale dei paesi ricchi (qui intesi come Giappone, Stati Uniti ed Europa) rispetto al resto del mondo: secondo i dati ufficiali pubblicati da istituiti statistici internazionali e raccolti dagli organismi internazionali, fra i quali l’FMI, gli attivi esteri netti dei suddetti paesi registrano dalla fine degli anni ’90 ad oggi un tasso complessivamente negativo, equivalente nel 2005 al -4% del Pil mondiale. Sembrerebbe, dunque, che le cosiddette nazioni ricche godano solo illegittimamente di tale titolo, perché indebitate con altre potenze economiche emergenti, pur invisibili agli occhi dei più. Non foss’altro che questa posizione negativa non trova nessun detentore di una controparte equivalente; tanto più che, come ovvio, anche i paesi in via di sviluppo esibiscono un tasso di indebitamente di poco superiore al 4%. Quest’anomalia statistica piuttosto annosa e solo apparentemente paradossale potrebbe essere indice di errori materiali e calcoli al ribasso, oppure di un debito tuttora non saldato con Dio che ammonta, più o meno, all’8% del Pil mondiale. Escluse le cause teologiche o sulla finitezza della mente umana, la questione è ben più semplicemente individuabile nell’assenza massiva di attività finanziarie detenute da privati nei paradisi fiscali e premurosamente custodite dai segreti bancari. È solo con un biblico sudore della fronte che economisti come Gabriel Zucman hanno potuto attingere a dati bancari svizzeri prima inutilizzati, arrivando a stimare una massa di capitale ignoto ad ogni registrazione di almeno il 10% del Pil mondiale, con probabili eccedenze considerevoli. Percentuali simili appaiono certamente raccapriccianti, ma la loro causazione non può essere individuata, come si diceva, da una semplice proprietà immanente al denaro quale l’impersonale erranza; si consideri, infatti, che solo nella metà degli anni ’80 il saldo globale fra paesi economicamente potenti e in via di sviluppo era prossimo allo zero, cioè senza margini di falsificazione. Ancora una volta, la responsabilità di queste frodi a cielo aperto è da rinvenire negli stati occidentali vestiti di un’indifferenza ormai sudata di vergognosa omertà, nonché nell’autoassolventesi astensione dal porre il benché minimo vincolo sovranazionale alle vie della preservazione patrimoniale privata che, come quelle del Signore, sono infinite.

Se confrontato con l’evo del colonialismo, quando i paesi ricchi detenevano ricchezze comparativamente molto più elevate, l’odierno bilancio delle posizioni economiche internazionali, si potrebbe dire, è relativamente equilibrato. Ma queste letture ingenue e tendenziose degli apologeti del neoimperialismo capitalista tacciono sempre la necessità di una contestualizzazione storica di ciascun dato economico; contestualizzazione che indicherebbe come nell’età contemporanea il peso del denaro, il diamante dei beni difensivi, sia incommensurabilmente superiore al passato, data la sua notoria irrinunciabilità. Ebbene, denunciare queste pratiche ormai contagiosamente massive, professare la necessità di una pubblica dichiarazione di tutti i beni, cessare una vile complicità nei confronti dei paradisi fiscali e pretendere una volta per tutte la sospensione integrale dei segreti bancari sono l’unica via per applicare una tassazione progressiva ed esaustiva su chi da troppo tempo la rifugge, osteggiare e contenere l’indiscriminata crescita dei patrimoni privati oltre che per tracciare con globale consapevolezza una geografia esauriente dei patrimoni esistenti. Quest’ultimo genere di indagine, forse donchisciottesca e tutta intellettuale all’apparenza, non rappresenta un vezzo vano e fine a se stesso, quanto l’unico strumento per poter concepire organicamente e sistematizzare i moti globali sospinti dal capitale, cioè la Storia toto cœlo. Se nel contemporaneo geografia del capitale e storiografia sono la medesima cosa, la Nottola di Minerva deve apprendere l’economia per poter raccogliere il senso della Storia.

Le Guerre dell’Oppio: un’analisi storica

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Quando, nel 1839, cominciò la prima guerra dell’oppio tra il vacillante Impero Qing e l’Impero britannico, in pochi si resero conto del vero significato di questa guerra. Il conflitto non scoppiò solamente per il rifiuto dell’Impero cinese di importare questa droga, né per sole ragioni commerciali; esso fu un conflitto tra due mondi differenti: una guerra tra un impero mercantilistico ed espansionista in rapida crescita, ed un impero isolato e recluso nel passato, in costante ed irreversibile declino.

L’Impero britannico, che aveva fatto del commercio d’oltreoceano la sua strategia per la supremazia mondiale, dopo essere riuscito a costringere la Cina ad aprirsi alle importazioni, voleva coinvolgere il Celeste Impero in uno dei giri d’affari più pericolosi (ma redditizi) della storia: il commercio dell’oppio. Al contrario dei britannici, i cinesi erano ancora retti da un Imperatore legittimato dal “mandato celeste”, ed al commercio si erano opposti principalmente per ragioni etiche e tradizionali, ma erano stati costretti a cedere di fronte alla forze britannica. Ma, nei tardi anni ‛30, i cinesi sembravano decisi a cacciare lo straniero e i prodotti velenosi che avevano contaminato i loro mercati. Sul piatto della bilancia, quindi, per Londra si presentava uno dei mercati più grandi dell’Asia, mentre per la Cina, che si stava accorgendo sempre di più degli effetti nefasti dell’oppio, l’opposizione al commercio assumeva sempre più i connotati di una lotta contro lo straniero e le sue merci dannose. Come scrisse l’allora giornalista Karl Marx, «mentre i semi-barbari stavano dalla parte del principio di moralità, i civilizzati opponevano il principio del pecunio» (Karl Marx, Storia del commercio dell’oppio, 20 settembre 1858).

Nel 1839, il conflitto scoppiò: l’Imperatore rifiutò di importare l’oppio e lo bandì dal paese, e diede a Lin Zexu l’incarico di “sistemare” le trattative con gli inglese nel porto di Humen. Nel frattempo, cercò però la mediazione, scrivendo addirittura alla Regina Vittoria e spiegandole che le leggi cinesi non potevano tollerare la presenza e la vendita di una tale sostanza nell’Impero. Non riuscendo però a smuovere la situazione per vie diplomatiche, Lin Zexu, governatore del Guangzhou, bruciò pubblicando 1,15 milioni di chili di oppio confiscato a mercanti britannici ed americani che erano invischiati nel traffico illegale. Preso questo evento come casus belli, tra la fine del 1839 e l’inizio del 1840, l’Impero britannico iniziò una guerra d’aggressione contro la Cina, col pretesto di proteggere i propri diritti commerciali. Non fu difficile per il moderno esercito inglese sconfiggere le truppe cinesi; l’Impero sofferse numerose sconfitte lungo la costa e il saccheggio di varie città. La guerra, il cui esito fin dall’inizio pareva scontato, si concluse il 29 agosto 1842 con la firma del Trattato di Nachino, che avrebbe avuto enormi conseguenze anche nei secoli a venire.

L’Imperatore Qing, non curandosi del fatto che la popolazione civile e reparti dell’esercito erano ancora determinati a lottare, concluse un’affrettata pace che ridusse il paese in uno stato semi-coloniale. Il Trattato impose la cessione del porto di Hong Kong ai britannici (porto che si sarebbe ritornato alla Cina solo nel 1997), l’apertura di cinque porti al commercio dell’oppio (Canton, Xiamen, Fuzhou, Ningbo, Shanghai) e imponenti tributi di guerra da versare ai britannici.

Con la firma del Trattato di Nanchino, la Cina entrò nel periodo detto “secolo delle umiliazioni”: il paese, scosso anche dai tumulti interni (sopra tutti la ribellione dei Taiping iniziata nel 1850), subì diverse aggressioni che non riuscì a fronteggiare. A causa della sua arretratezza, non poté evitare di perderle tutte, concedendo sempre più ampie fette del proprio territorio e sempre più grossi privilegi ai commercianti stranieri. Il simbolo estremo di questo periodo di umiliazione nazionale è rappresentato dai “trattati ineguali”: trattati, commerciali o territoriali, letteralmente imposti alla Cina da altri paesi, a volte nemmeno scaturiti da guerre vere e proprie. Il primo di questi trattati fu, nel 1844, quello di Whampoa, che garantiva enormi privilegi alla Francia, e poi il trattato di Wangxia con gli Stati Uniti, altrettanto sbilanciato nei confronti degli statunitensi. Proprio questi due trattati diedero il via alla Seconda Guerra dell’oppio (1856-1860): l’Impero britannico, che voleva ora ulteriori concessioni (quali erano state imposte alla Cina da Francia e USA), chiese ai cinesi di rinegoziare il Trattato di Nanchino. Ora la Cina avrebbe dovuto aprire tutti i porti al commercio degli oppiacei, ridurre ulteriormente tasse e dazi sulle importazioni britanniche. Il casus belli per questa nuova guerra, fu l’arresto, da parte delle autorità cinesi, della nave Arrow, accusata di pirateria e battente bandiera britannica: Londra minacciò il bombardamento di Canton, se l’equipaggio non fosse stato rilasciato, ma, nonostante il rilascio, la città fu attaccata. Ai britannici si unirono i francesi, poi gli USA e la Russia, nella speranza di ottenere le migliori concessioni possibili. I russi si accontentarono del Trattato di Ainu (1858), che imponeva alla Cina la cessione di gran parte della Manciuria, ma la guerra con le altre tre potenze terminò solo nel 1860, con la conquista e il saccheggio di Pechino da parte degli anglo-francesi. L’Impero dei Qing era ora costretto a cedere Kowloon, una penisola a sud di Hong Kong, ai britannici, oltre a nuove garanzie commerciali, firmando l’ineguale Convenzione di Tianjin.

Ma il “secolo delle umiliazioni” non era destinato a chiudersi con il trattato ineguale del 1860: il Celeste Impero sarebbe stato costretto a cedere le Isole Daoyu al Giappone, col Trattato ineguale di Shimonoseki (1895), a cedere il Jiazhou alla Germania (1898), a cedere ulteriori parti della Cina alla Russia (Mongolia Interna e Liaodong), e varie altre concessioni ad altre potenze, fino a crollare, nel XX secolo, di fronte al militarismo giapponese.

 

Il Fascismo, Giuseppe Bottai e il corporativismo

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Riscoprire il Corporativismo significa sollevare dall'oblio il tentativo tutto italiano di superare Marx e Smith ponendo l'Uomo al centro del processo economico. Il libro di Francesco Carlesi offre un valido aiuto a rompere il silenzio sul tema
  

La damnatio memoriae che ha colpito il Fascismo fin dal 1945 ha comportato la progressiva scomparsa dei documenti principali su cui studiare il Ventennio e le sue gesta. Specie per quanto riguarda la cultura e l’ideologia, ci si è per lungo tempo affidati alla facile riduzione illogica secondo cui il movimento mussoliniano non poteva, per definizione, aver avuto una classe intellettuale capace di lasciare una visione originale e critica della società e dell’economia.

Non possiamo dunque non salutare con favore l’ultimo lavoro editoriale di Francesco Carlesi, Rivoluzione Sociale. Critica Fascista e il Corporativismo, uscito per i tipi di AGA Editrice. L’opera (composta di 368 pagine) squarcia il velo dell’oblio recuperando, con grande attenzione storiografica ed energico rigore scientifico, uno dei più interessanti laboratori culturali del Regime, Critica Fascista, rivista fondata e diretta da Giuseppe Bottai, la “mente migliore del Fascismo” nel 1923. 
Carlesi si getta a capofitto nei numeri originali riuscendo a recuperare le polemiche e le battaglie editoriali che animarono il quindicinale, fondate tutte sull’elaborazione della teoria Corporativa e sull’assetto socio-economico che la nuova Italia del littorio avrebbe dovuto avere. I quattro capitoli, in ordine cronologico, segnano le tappe della costruzione corporativa e della progressiva affermazione della società fascista.
La terza via mussoliniana pone al centro dello scontro Capitale-Lavoro la collaborazione, principio che permette il superamento della dialettica tradizionale a favore dell’armonia e dello sviluppo delle classi e della Nazione. Lo Stato diviene l’arbitro del processo economico, eliminando al contempo le storture tipiche del liberismo capitalista e le degenerazioni del collettivismo sovietico.
Lungo tutta l’opera è possibile rileggere le ragioni delle varie anime dell’intellettualità in camicia nera: particolare attenzione meritano gli ultimi due capitoli, dedicati al periodo dell’Impero e della guerra mondiale, in cui si delinea il pensiero più maturo e allo stesso tempo più rivoluzionario dell’intero cursus corporativo. Il “tempo terzo” del Fascismo coincide con l’attacco alla borghesia, al completamento dello Stato Totalitario, alle infami leggi razziali.
I redattori, elettrizzati dal direttore Bottai, alzano sempre più il tiro contro l’intera struttura capitalistica, destinata a scomparire con la vittoria dell’idea corporativa. Il cosiddetto “fascismo di sinistra” prefigura il trionfo del sangue contro l’oro e la nascita della nuova Civiltà del Lavoro, più vicina paradossalmente a Mosca che alla vecchia Europa di Londra e Parigi.
La Storia, come sappiamo, non ha permesso la realizzazione dell’ardito progetto. Nonostante tutto, però, rimane il tentativo tutto Italiano di conciliare Progresso e Civiltà, Economia e Umanità, nelle migliori tradizioni di Roma e dell’Impero.

Carlesi assolve egregiamente al compito di guida al lettore lungo tutto il percorso dell’opera, completando il libro con un gustoso lavoro di ricostruzione dell’interesse americano, all’epoca del New Deal, per le originali tesi di Bottai e della sua “nidiata”. Idee che, ancora oggi, lanciano arditamente la sfida ai dogmi del liberismo e del capitalismo finanziario, ritornato, dopo il trentennio keynesiano, al tempo vile di Adam Smith.

Le nazionalizzazioni e l’affaire Mattei: un affare scomodo

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A partire dagli anni Cinquanta, i governi italiani, al fine di far fronte alle numerose crisi del dopoguerra e di provvedere alla realizzazione di opere di pubblica utilità, ha talvolta adottato la strategia politico-economica della cosiddetta nazionalizzazione, trovando tuttavia pesanti attriti nel mondo del privato.

  

Quando si parla di nazionalizzazione, si genera, inevitabilmente, un atavico dibattito economico-politico, tra sostenitori della libera impresa e della libera iniziativa e sostenitori delle economiche di tipo socializzato e programmato. Nazionalizzare significa, in sostanza, porre sotto il controllo, l’esercizio e l’autorità dello stato una determinata attività in grado di produrre beni o risorse, al fine di garantire la realizzazione di precise condizioni o ricchezze utili alla collettività. Tra le ragioni di stato in grado di giustificare eventuali nazionalizzazioni delle aziende, possono esservene differenti, tra cui, ad esempio, la riduzione del tasso di disoccupazione, piuttosto che il poter gestire e stabilire i prezzi, regolamentare le produzioni economiche, o, semplicemente, assicurare la distribuzione del bene prodotto secondo precise esigenze collettive. Principio, dunque, che contrasta radicalmente con il principio cardine che, invece, regge le economie sorrette dalle logiche del libero mercato, le quali hanno come fine ultimo la produzione di servizi non con l’intenzione di garantire un bene collettivo (sebbene, di fatto, anche questo tipo di economia possa garantirlo) ma al fine di ottenere profitto (a vantaggio del privato gestore e proprietario della struttura produttiva). Questa logica della nazionalizzazione dei servizi, in Italia, talvolta, venne adottata da diversi governi, i quali posero sotto il monopolio di stato alcune ricchezze produttive al fine di garantire la distribuzione di risorse a prezzi proporzionati alle disponibilità della popolazione. Nel corso della storia italiana, infatti, il processo di nazionalizzazione é stato condotto più volte. Di fatto, ad oggi, la carta costituzionale italiana prevede ancora la possibilità -tramite un decreto legislativo – , qualora l’attività possa rivelarsi utile al bene collettivo, di porre sotto  regime nazionalizzato entità aziendale e produttive. I governi italiani, nel corso del Novecento hanno talvolta ritenuto fosse una ragion di stato questa pratica di apparente esproprio economico, o, semplicemente, di inquadramento di un determinato complesso produttivo al di fuori delle logiche della direzione privatizzata. Basti pensare alla costituzione dell’AGIP (azienda generale italiana petroli), nel 1926, piuttosto che alle opere di tentata socializzazione delle aziende operate nella fase ultima della Repubblica Sociale Italiana.

Nell’immediato dopoguerra, all’alba della creazione della nuova Repubblica Italiana, il dibattito intorno alle socializzazioni delle principali aziende e alla statalizzazione di buona parte delle risorse e del capitale italiano, non fu per nulla assente. Ai primi anni Cinquanta risalgono le prime operazioni in chiave nazionalizzante compiute durante il periodo repubblicano in seno alla produzione economica. In questi anni, anche per far fronte ai danni devastanti della Seconda guerra mondiale ricevuti dall’economia italiana, lo stato inizia ad assumere profili, talvolta, fortemente interventisti. Nei primi anni cinquanta, infatti, la Democrazia Cristiana (forza politica con maggiori consensi) aveva iniziato ad adottare un orientamento meno liberista rispetto all’inizio e sempre più vicino al cosiddetto cattolicesimo sociale. Nel 1953 viene fondato (in riferimento anche ai precedenti enti attivi nel settore degli idrocarburi, realizzati in epoca fascista), L’ENI (Ente nazionale idrocarburi). Lo scopo di questa azione legislativa (da parte dello stato) era quello di creare una struttura monopolizzata dallo stato, avente come obiettivo la ricerca di idrocarburi nella pianura padana, al fine di garantire l’estrazione di questo bene naturale per il benessere collettivo della nazione. La presidenza dell’ente fu affidata ad un illuminato ed astuto imprenditore e dirigente italiano, Enrico Mattei, il quale avrebbe dovuto condurre i lavori ed il buon funzionamento del progetto. Egli aveva in mente un progetto infinitamente ambizioso da applicare sfruttando l’esistenza di questo nuovo ente pubblico, ovvero il progressivo raggiungimento di indipendenza ed autonomia energetica dell’Italia rispetto alla dittatura monopolistica degli Stati Uniti sul petrolio ed in particolare delle cosiddette “Sette sorelle” (le più grandi aziende petrolifere mondiali). Mattei iniziò a stipulare positivi e fortunati contratti e rapporti con alcune nazioni (tra le quali Egitto, Iran e Russia), a compiere operazioni vincenti e sempre più indirizzate  verso questo brillante progetto, a stringere alleanze e trovare sostegni con partiti politici. Tuttavia, questo progetto non vedrà mai concretamente la luce, poiché Mattei, il 27 ottobre del 1962, verrà trovato morto in un incidente aereo, avvenuto in circostanze ancora poco chiare.

Dopo la non riuscita azione di Mattei e alla creazione dell’ente pubblico per la ricerca di idrocarburi, un successivo tentativo di nazionalizzazione di un altro bene pubblico venne operato dallo Stato. Nel luglio del 1962, dopo un periodo caratterizzato da discussioni in ambito parlamentare, e da forti pressioni politiche (da parte della sinistra italiana del tempo, in particolare dall’ala dei socialisti), venne approvata una legge che, di fatto, poneva sotto il controllo nazionale l’energia elettrica (fonte naturale fondamentale all’interno di un paese ormai industrializzato e non più prevalentemente agricolo, quale iniziava ad essere l’Italia), culminando con la creazione del primo ente di distribuzione di energia elettrica in tutto il paese, l’ENEL (ente nazionale per l’energia elettrica), con profonde critiche da parte degli ambienti dell’energia elettrica privata. Questo nuovo complesso societario, negli effetti, acquisiva il monopolio su quasi tutte le aziende elettriche private del paese, al fine di autenticare un disegno politico che auspicava, appunto, all’unificazione della produzione e della gestione di energia in tutta l’Italia.

Questo grande ed ambizioso progetto governativo, avrebbe consentito allo stato di organizzare equamente la distribuzione di elettricità tra la popolazione, garantendo il regolare flusso di energia elettrica in relazione alle richieste (con la realizzazione di programmi aziendali costanti) ed il controllo dei prezzi in questo settore. Tuttavia, dopo un periodo (negli anni Settanta ed Ottanta) caratterizzato da seri di cambiamenti e rinnovamenti all’interno dell’ente, da crisi ripetute (con la crisi energetica del 1973), a partire dagli anni Novanta, anche l’ENEL ha subito gli effetti della progressiva tendenza neo-liberista e privatizzante avviata a partire da quest’epoca e ad una graduale liberalizzazione degli assetti societari di buona parte della società. La nazionalizzazione dei beni, infatti, ingenera, inevitabilmente, un rapporto di profonda scissione tra pubblico e privato, e l’esistenza di strutture aziendali in grado di superare le logiche del profitto e della competizione economica, anteponendo, invece, il “bene pubblico” alle istanze egoistiche dell’individuo, se non sostenuta da governi solidi, stabili e profondamente interessati al bene collettivo, in grado di far funzionare progetti di pubblica utilità, risulta essere una bella utopia destinata al fallimento. Tuttavia, il concetto di nazionalizzazione, è quasi un tabù, di cui si evita sempre di parlare e d’approfondire, vagliandone le eventuali possibilità di concretizzazione a lungo termine. Da sempre risulta essere un affare profondamente scomodo, troppo scomodo per non essere sostenuto.


L’antica Atene non è un emporio

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Da vid van Reybrouck, classe 1971 — noto per una significativa monografia sui crimini del Belgio in Congo —, scolaro di storia antica a Lovanio nel 1989, ha scritto un libro, Contro le elezioni (Feltrinelli), che propone, come già fece Ségolène Royal quando perse le presidenziali francesi, di adottare, come rimedio alla degenerazione dei nostri sistemi politici, la pratica del sorteggio per il conferimento delle cariche politiche sul modello dell’Atene del V secolo a.C.
Questo libro — sostiene l’autore — è nato da tre «incidenti»: 1) il corso di storia greca del professor Herman Verdin; 2) una passeggiata sui Pirenei che portò l’autore a scoprire, nella bibliotechina di un albergo, il Contratto sociale di Rousseau; 3) uno scambio di email con un certo Terrill Bouricius, teorico appassionato del modello ateniese.
Sarebbe facile osservare che, del sistema ateniese, l’autore, Bouricius, e forse anche Ségolène, hanno un’idea a dir poco fanciullesca. Non solo perché ignorano l’ampia letteratura ateniese coeva — da Platone a Tucidide, a Isocrate, a Demostene — che in modo martellante descrive i difetti (la corruzione e l’incompetenza in primis ) di quel sistema, ma anche perché lascia in ombra un fatto capitale: che cioè le cariche decisive della città — i dieci strateghi, gli ipparchi e gli amministratori delle finanze — erano elettive , e inoltre, nella prassi, riservate a cittadini appartenenti alle classi più ricche. Pericle, Cleone, Nicia, Alcibiade detengono il potere effettivo perché lo conquistano con campagne elettorali. Non è comunque trascurabile ricordare che un male endemico del sistema ateniese fu l’assenteismo e che quel sistema finì ingloriosamente, tra colpi di Stato e restringimenti del diritto di cittadinanza.
La perdita di una formazione storicistica induce alla pratica di «pescare» random nel negozio dei sistemi politici.
Questo libro è però anche un sintomo a suo modo brillante. Mette insieme, nei primi due capitoli, i dati di fatto che dimostrano in modo inoppugnabile che il ciclo storico del sistema parlamentare-elettivo (in modo confusionario definito da molti «democrazia») è giunto da tempo al capolinea. Il suo declino si è prodotto al venir meno dell’antagonista storico che lo ha fronteggiato per gran parte del Novecento, il cosiddetto «socialismo reale». Van Reybrouck mette in fila molte delle tare che hanno portato alla eutanasia del sistema parlamentare-elettivo: apatia, assenteismo, frustrazione, sfiducia nei governanti, morte dei partiti politici, potere decrescente dei parlamenti (lui dice «impotenza di fronte alla Ue»), delegittimazione crescente degli eletti, immobilismo della macchina legislativa, macchinosità delle procedure nel cambio di governo, asservimento dei media al potere, personale politico urlante e incompetente. E si potrebbe proseguire. Stupisce che l’autore non indichi, tra le cause di assenteismo nelle elezioni politiche, la adozione di sistemi elettorali di tipo maggioritario. I quali, calpestando il principio un uomo/un voto e costringendo le forze politiche a rassomigliarsi sempre più, spingono masse crescenti al non voto. Con felice battuta van Reybrouck scrive che — per segnalare l’esistenza di tale partito «invisibile» — bisognerebbe lasciare vuoto, in Parlamento, un quarto almeno dei seggi.
Una migliore informazione storica avrebbe aiutato l’autore a scoprire che la critica nei confronti del sistema parlamentare elettorale non è una scoperta recente, ma ha accompagnato tale sistema sin dal suo nascere e per tutta la sua esistenza. Né solo nelle forme letterarie brillanti di Swift in Inghilterra o di Balzac in Francia, ma, alla fine del XIX secolo, col sorgere della critica «elitistica» (Gaetano Mosca) e, tra le due guerre mondiali, con gli scritti di Otto Bauer sulla Crisi della democrazia . D’altra parte non esiste, in assoluto, «la miglior forma di governo». (Perciò non convince la frasetta attribuita a Churchill e ripetuta spesso come una litania: la «democrazia» è pessima, ma migliore di tutti gli altri sistemi). Che non esista «il sistema migliore» è dimostrato, tra l’altro, dal ciclico riproporsi ora dell’uno ora dell’altro. Lo aveva intuito il pensiero politico classico.
Ma oggi c’è una novità. Mentre nel resto del pianeta il sistema parlamentare-elettivo è sottoposto agli andirivieni ciclici, nel «centro» (Ue, Usa) si è venuta affermando, e consolidando, dopo l’ultima convulsione otto-novecentesca (liberalismo, fascismo, democrazie postbelliche) la soluzione «elastica». I poteri effettivamente decisivi non sono più elettivi, né esposti all’arbitrio delle fluttuazioni elettorali, sono — bene al riparo (e con l’approvazione abdicante dei poteri eletti!) — organismi burocratico-finanziari. Le elezioni sopravvivono, ma sono la periodica festosa, accanita, ginnastica per le «masse» (quelle ancora disposte a crederci). Caricatura grottesca delle grandi battaglie elettorali della risorta democrazia del dopoguerra. Con questa soluzione — che è anche l’effetto del subentrare, al comando, dell’inquinatissimo capitale finanziario in luogo del capitale «produttivo» — sembra essersi posto un «Alt» al riproporsi del «ciclo». Quanto a lungo possa reggere questa geniale escogitazione non è dato prevedere. Forse però il meccanismo già mostra crepe: guerre costruite ed esportate, nuove schiavitù, crisi economica endemica, conseguenti migrazioni di popoli fanno pensare che il «ciclo» può rimettersi in moto, ed in forme terrificanti. «Quasi nessuna repubblica può essere di tanta vita che possa passare molte volte per queste mutazioni e rimanere in piede» (Machiavelli).

Mordechai Vanunu in tv, il nucleare segreto di Israele in prima serata

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Mordechai Vanunu in tv, il nucleare segreto di Israele in prima serata
Bombe atomiche. Venerdì sera su "Canale 2" l'ex tecnico della centrale di Dimona, che nel 1986 rivelò al "Sunday Times" i segreti del nucleare israeliano, dopo 29 anni ha potuto di nuovo denunciare pubblicamente i pericoli legati alle armi di distruzione di massa in possesso del suo Paese.

Perchè governo e servizi segreti lo hanno lasciato parlare?di

GERUSALEMME È facile incontrare casualmente Mordechai Vanunu per le strade di Gerusalemme Est, la zona palestinese della città, dove l’ex tecnico della centrale di Dimona vive da quando fu liberato nel 2004, dopo 18 anni trascorsi nella prigione di Shikma (11 dei quali in isolamento totale), per aver rivelato nel 1986 i segreti dell’atomica israeliana al giornale britannico Sunday Times. L’ultima volta è stata il mese scorso, dalle parti di via Salah Edin. «Hello» (Vanunu dal 1986 si esprime solo in inglese, non usa più l’ebraico), qualche battuta veloce sulle cose che cerca di fare, sul suo desiderio di abbandonare Israele, un sorriso sobrio a commento del suo recente matrimonio con una docente universitaria norvegese, Kristin Joachimsen, e un «goodbye». Tutto qui. In pubblico si comporta così con tutti. Vanunu — che per i servizi segreti israeliani resta detentore di importanti segreti di stato, anche se vecchi di 30 anni — non può parlare ai cittadini stranieri, in particolare ai giornalisti. È una delle tante restrizioni stabilite dai giudici al momento della scarcerazione. Non può riferire particolari, anche agli israeliani, del lavoro che svolgeva Dimona. Violando queste disposizioni il tecnico nucleare si espone all’arresto e alla detenzione, anche per mesi. Gli stranieri invece all’espulsione immediata da Israele. Per questo motivo ha fatto scalpore l’intervista con l’ex tecnico nucleare di Dimona trasmessa venerdì in prima serata dalla rete televisiva israeliana Canale 2.
È stato un evento eccezionale. Nonostante domande e risposte non siano sempre andate sugli aspetti più interessanti delle rivelazioni fatte 30 anni fa da Vanunu — le finalità della produzione di plutonio per ordigni atomici nella centrale di Dimona -, l’uomo che gran parte del Paese considera un “traditore” ha potuto ugualmente parlare del programma atomico segreto israeliano e condannarlo. Israele non ha firmato il Trattato di non-proliferazione nucleare e non ha mai ammesso (e neanche smentito) di possedere bombe atomiche (tra 100 e 200 secondo esperti internazionali). Da decenni Israele mantiene la cosiddetta «ambiguità nucleare». L’interrogativo perciò è d’obbligo. Perchè i servizi segreti e il governo hanno dato il via libera all’intervista in un momento delicato, in cui il premier Netanyahu è impegnato in uno scontro accesso con gli alleati americani per il via libera che è stato dato a Vienna al programma atomico dell’Iran? Il racconto di Vanunu a Canale 2 in apparenza è controproducente per gli interessi israeliani. Forse Netanyahu, lasciando parlare il “traditore”, ha voluto mandare un messaggio all’esterno. Ad esempio avvertire Tehran di non dimenticare che Israele le bombe le possiede già e potrebbe usarle se necessario. Ma le spiegazioni probabilmente sono più di una.
Vanunu venerdì sera ha raccontato il processo graduale che lo portò nei nove anni di lavoro a Dimona alla decisione, anzi «all’obbligo», come ama dire lui, di rivelare «ai cittadini di Israele, del Medio Oriente e del mondo», la natura della «polveriera» di Dimona. «Ho visto quello che stavano producendo e il suo significato», ha detto. Ha aggiunto di aver portato nella struttura una normale macchina fotografica, «una Pentax», e di aver scattato segretamente 58 foto, nascondendola poi nel suo zaino che gli uomini della sicurezza non controllavano più perchè la sua era una presenza abituale. Ha negato di aver fatto le sue rivelazioni in cambio di un compenso da parte del Sunday Times e ha ripetuto più volte che il nucleare è un pericolo, un’arma terribile, per tutti, anche per Israele e non soltanto per i suoi nemici. Ha infine ribadito di voler andare via, per ricongiungersi a suo moglie.
Vanunu, 60 anni, membro di una famiglia religiosa ortodossa, giunse dal Marocco quando era ancora bambino. Cominciò a formarsi una coscienza politica soltanto all’inizio degli anni Ottanta. In precedenza aveva svolto con diligenza il suo lavoro nella centrale di Dimona, costruita ufficialmente per la produzione di energia elettrica ma che il laburista Shimon Peres con l’aiuto del padre della atomica francese Francis Perrin, trasformò in un centro segreto. Vanunu cominciò a riflettere su ciò che avveniva a Dimona quando fu trasferito nel Machon 2, un complesso di sei piani sotterranei della centrale atomica dove venivano prodotti annualmente una quarantina di kg di plutonio. Nel 1985 Vanunu venne costretto a dimettersi per «instabilità psichica». Con uno zaino pieno di informazioni partì per l’Australia dove si mise in contatto con il Sunday Times. Giunto a Londra nell’agosto del 1986, si recò al giornale riferendo per due intere settimane i suoi segreti. Il direttore del giornale però esitò a pubblicare il racconto. Sospettava che Vanunu fosse un agente del Mossad che, per conto del suo governo, intendeva far sapere ai paesi arabi che Israele è in possesso di un arsenale nucleare in grado di incenerire l’intero Medio Oriente. Il servizio giornalistico verrà pubblicato solo il 5 ottobre, quando si seppe della scomparsa dell’israeliano.
Vanunu cadde in una trappola preparata alla fine dell’estate da una donna affascinante, Cindy, al secolo Cheryl Ben Tov, un’agente del Mossad per la quale perse la testa. Il sequestro non avvenne a Londra (i britannici non vollero) ma Roma (sempre disponibile) dove Cindy lo attirò proponendogli un weekend romantico, come Gregory Peck e Audrey Hepburn. Invece appena arrivato in Italia, gli agenti del Mossad lo rapirono e lo portarono in un appartamento nella periferia della capitale, poi lo trasferirono a La Spezia e, imbarcandolo sul mercantile israeliano Tapuz, lo rispedirono (in una cassa) in Israele. Vanunu si rivide in pubblico il 7 ottobre, solo per qualche attimo, a Gerusalemme, durante il processo per direttissima, quando con uno stratagemma — scrivendo sul palmo della mano che mostrò ai fotografi fuori dall’aula — fece sapere di aver raggiunto Roma il 30 settembre con il volo 504 della British Airways e di essere stato rapito. L’altra sera ha ammesso di non aver capito, anche dopo il rapimento, che Cindy era stata la protagonista del piano del Mossad e di averlo compreso solo dopo parecchi giorni mentre navigavano verso il porto di Haifa.
L’Italia, come fa spesso quando agisce il Mossad, finse di non accorgersi della violazione della sua sovranità territoriale e del rapimento a Roma. Le indagini avviate dal sostituto procuratore Domenico Sica non portarono a nulla, nessuno aveva visto e sentito. Vanunu per anni ha chiesto invano un intervento delle autorità italiane su Israele. Roma non ha mai risposto ai suoi appelli.

In memoria di Peggy O'Hara

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Avevo conosciuto Peggy e Jim O'Hara, la madre e il padre di Patsy O'Hara (il quarto tra i dieci prigionieri politici repubblicani che nel 1981 si erano lasciati morire di fame a Long Kesh), grazie a Tony Gillespie nella loro casa di Hardfoyle a Derry nel 1985. L'avevo poi rivista in occasione di altri viaggi in Irlanda e, nel 1986, intervistata sulla tragica vicenda del figlio, morto il 21 maggio 1981 dopo 60 giorni di sciopero della fame. Patsy, militante dell'INLA (Esercito Irlandese di Liberazione Nazionale, considerato il braccio armato dell'IRSP), ebbe un ruolo fondamentale nell'organizzare e gestire la protesta del 1981, in perfetta coerenza con l'impegno fino ad allora dimostrato all'interno delle lotte del quartiere dove viveva. Il padre, Jim, ricordava come Patsy avesse “combattuto con la parola prima ancora che con le armi contro l'occupazione inglese, nella strada, nel quartiere, ovunque...” sottolineando anche la portata della sua volontà di lottare, la sua preparazione politica, ideologica e culturale. Una conferma mi venne data nel 1994 dallo scrittore Ronan Bennet che per circa un anno condivise con Patsy la cella N.14 a Long Kesh nel 1975. “Quando uno arrivava in carcere -mi raccontò- per prima cosa gli si chiedeva che cosa avesse detto alla polizia. Non aveva dato altro che il suo nome. Questo, dati i metodi usati abitualmente dalle forze di repressione (percosse, tortura...), era abbastanza raro e venne considerato un segno di forza, di determinazione. Questa impressione venne poi confermata dal comportamento tenuto in carcere da Patsy. Era un leader nato, anche se non in modo ostentato, era sempre molto calmo, non alzava mai la voce. Nonostante fosse molto giovane, si capiva che era molto preparato politicamente. In cella abbiamo parlato a lungo di come ognuno di noi fosse arrivato alle sue convinzioni politiche. Sostanzialmente avevamo gli stessi punti di riferimento: Bloody Sunday del 30 gennaio 1972, l'internamento, l'incendio di Long Kesh...Uscì di prigione e in seguito venne nuovamente arrestato.Quando ho saputo che aveva iniziato lo sciopero della fame, ho subito pensato che sarebbe andato fino in fondo”.

Nel cimitero di Derry, sulla lapide dedicata a Patsy O'Hara e a Micky Devine (altro militante dell'INLA morto in sciopero della fame) si legge “MORTI PERCHE' ALTRI FOSSERO LIBERI”.

 

Il padre di Patsy, Jim, se n'era andato qualche anno fa. Peggy ci ha lasciati nel luglio di quest'anno. Al suo funerale la bara era scortata da un centinaio di militanti dell'IRSP e dell'INLA (volto coperto, basco con la stella rossa: se lo ricordino i neofascisti che hanno avuto l'impudenza di ricordare la compagna e proletaria Peggy O'Hara sui loro giornali). Prima della sepoltura le sono stati resi gli onori militari con tre colpi di fucile sparati in aria. La cosa è stata stigmatizzata da Mc Guinnes (esponente del Sinn Fein, viceministro nel governo nordirlandese “benedetto” da Londra e Washington) che ha partecipato al funerale nonostante l'IRSP (nelle cui liste Peggy era stata candidata) e i familiari avessero definito “non gradita” la sua presenza.

 

 

 

INTERVISTA A PEGGY O'HARA (1986)

 

D.    Quali erano le speranze di suo figlio quando prese la fatale decisione di smettere di alimentarsi?

R. Patsy e gli altri cominciarono lo sciopero della fame ben sapendo che ne sarebbero stai segnati irreparabilmente nella salute, nel fisico già provato da anni di lotte e proteste, spesso pacifiche ma non certo indolori.Tuttavia pensavano che il rispetto per la vita umana avrebbe convinto Mrs. Thatcher a soddisfare le loro cinque richieste. Quando poi capirono che ciò non sarebbe successo, che li avrebbero lasciati morire, compresero anche che ormai non avevano più scelta: dovevano andare fino in fondo, per non concedere al nemico una vittoria politica che il movimento di liberazione, gli oppressi, la gente avrebbero scontato per molti anni...Fu così che la vita di alcuni divenne il prezzo di un po' più di giustizia per altri.

D.    Che cosa pensò lei della scelta di suo figlio?

R. Gli dissi che ritenevo più utile che restasse vivo per continuare a lottare. Che altro poteva dire una madre? Ma sia io che mio marito rispettammo la consapevole determinazione di Patsy e assecondammo la sua volontà di non essere alimentato artificialmente durante il come finale. E' stato atroce: perdere un figlio è già contro ogni corso naturale delle cose, ma una morte così è inaccettabile. Soprattutto se si pensa alle sevizie che rendevano ancora più terribile il suo spegnersi giorno dopo giorno.

D. Che genere di sevizie?

R. I secondini, spesso ubriachi, lo picchiavano in continuazione, anche durante lo sciopero della fame. A causa dei maltrattamenti subì due arresti cardiaci. Una volta venne scoperta addosso ad un detenuto una macchina fotografica e Patsy, accusato di esserne il responsabile, fu picchiato con particolare durezza, tanto da procurargli la rottura del setto nasale. Le percosse continuarono anche quando era già costretto in una carrozzella, incapace di camminare. Durante il periodo in cui rimase in coma, il medico del carcere -lo stesso che poi si rifiutò di riportare sulla cartella clinica i segni evidenti delle percosse- lo prendeva a schiaffi durante le mie visite per costringerlo a “riprendersi”, a riconoscermi, sperando in un cedimento dell'uno o dell'altra*. Io sono convinta che Patsy sia morto per un collasso cardiaco in conseguenza delle sevizie subite: sarebbe morto ugualmente, ma lo odiavano tanto da volerlo uccidere con le loro mani. Quando morì  i dissero che se non mi sbrigavo a portarlo via l'avrebbero buttato in un sacco di plastica e scaricato davanti a casa. Il suo corpo era pieno di ecchimosi, i suoi occhi erano stati bruciacchiati con le sigarette e portava sul volto i segni delle ultime percosse.

D. Che cosa lascia, nell'animo di una madre, il gesto di un figlio che sacrifica la propria vita in nome dei propri ideali?

R. Non c'è retorica letteraria né politica che possa consolare da una simile brutalità. Rimane solo la convinzione profonda e sofferta che altro non si poteva fare per rivendicare la dignità umana, propria e altrui. E rimane la rabbia, la lotta contro gli oppressori. E rimane la solidarietà, la speranza, nonostante tutto...Bisogna continuare ad andare avanti, perché se non lo facciamo i martiri che sono morti per me, per noi, per questa Nazione ci perseguiteranno per l'eternità.

 

 

 

 

 

 

 

 

Ancora prigioniero delle giacche blu

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Oggi, 12 settembre 2015, Leonard Peltier, amerindiano di ascendenza Ojibwa Lakota (Sioux), compie 71 anni. Viene tenuto prigioniero nelle carceri degli Stati Uniti da 14.463 giorni, quasi 40 anni, accusato di aver favorito l’uccisione di due agenti federali nel 1975 nella riserva di Pine Ridge. Le circostanze esatte di quel conflitto a fuoco non furono mai chiarite, né provate, ma alla fine sul terreno rimasero tre corpi. Per il nativo ucciso non venne aperta alcuna inchiesta, per i due uomini dell’Fbi furono indagate tre persone. Peltier, esponente del Movimento degli Indiani d’America molto noto, era uno di loro. Il processo fu una farsa segnata da false testimonianze e presieduta da un giudice razzista che non esitò a condannare Peltier al carcere a vita. Il 29 settembre Papa Francesco incontrerà Obama, si dice possa riuscire a convincere il presidente Usa a firmare quella grazia che Clinton aveva già deciso di concedere quando fu fermato, in extremis. dalle pressioni dell’Fbi. La grazia per un uomo innocente tenuto in prigione da 39 anni perché le “giacche blu” hanno occupato la sua terra e sterminato la sua gente. Un uomo a cui difficilmente il papa e il presidente nero chiederanno scusa. Scrivete due righe a Obama
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«L’unico indiano buono è l’indiano morto» recitava il vecchio adagio razzista degliwasichu (i visipallidi invasori) ma il più grande genocidio della storia umana è stato declassato, dai vari governi succedutisi negli Stati uniti a un banale, impunibile e impunito «Destino Manifesto». I massacri, le deportazioni, le sterilizzazioni di massa, le leggi razziali, la reclusione in ghetti chiamati riserve e le assimilazioni forzate spariscono nei negazionismi degli sceriffi planetari, per lasciar posto a festeggiamenti celebrati in pompa magna, rilanciati nel 1992 in occasione del cinquecentenario della cosiddetta scoperta dell’America, denominati Columbus day, che continuano a offendere le popolazioni aborigene e a mistificare la verità storica.

Leonard Peltier è oggi il simbolo della resistenza di quei popoli aborigeni repressi e tartassati da ormai più di 500 anni. Amerindiano di ascendenza Ojibwa Lakota, Peltier è stato tra i primi fondatori dell’Aim (American Indian Movement), movimento nato per sostenere e difendere le popolazioni native del Nordamerica. Oggi, quasi settantenne*, Leonard sta scontando una condanna a 2 ergastoli ed è in carcere da 38 anni.

La sua vicenda risale al 1973, cioè quando oltre 300 nativi iniziarono una protesta contro gli abusi e gli spossessamenti dei territori Lakota, soprattutto dopo la scoperta di enormi giacimenti di uranio nell’area di Sheep Mountain. Venne perciò chiesto aiuto a Peltier e agli attivisti dell’Aim per impedire queste violazioni. Due anni dopo, nel giugno 1975, durante un festa religiosa nella riserva dei Lakota Oglala, a Pine Ridge, alcune auto dell’Fbi prive di targa circondarono la zona e iniziarono una sparatoria contro la gente inerme. I Lakota risposero al fuoco e alla fine sul terreno rimasero tre corpi: due agenti Fbi, Ronald A. Williams e Jack R. Coler e un indiano, Joe Stuntz. Naturalmente per il nativo ucciso non venne aperta alcuna inchiesta, mentre per i due agenti furono indagate tre persone, fra cui Leonard Peltier.

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Leonard Peltier il giorno della sua estradizione dal Canada, dove si era rifugiato

Nonostante un accurato rapporto balistico della stessa Fbi rivelasse che i proiettili non potevano essere stati sparati dall’arma del leader dell’Aim, il destino dell’imputato Lakota era già irrimediabilmente segnato, poiché il processo si svolse a Fargo, città storicamente nota per essere anti-indiana e molti testimoni furono pesantemente minacciati dall’Fbi, per non parlare delle versioni contrastanti degli agenti accusatori. Il dibattimento fu una farsa presieduta da un giudice razzista e una giuria composta esclusivamente da gente bianca, che non esitò a condannare Peltier al carcere a vita.

Da allora la causa di Leonard è stata sostenuta e divulgata in ogni parte del mondo (spesso sulle pagine de «il manifesto») da normali cittadini, associazioni e personalità quali il Dalai Lama, Desmond Tutu o artisti come Robbie Robertson, Bruce Springsteen, Little Stevens, Pete Seeger e tanti altri. La sua vicenda è stata narrata anche nel film documentario del 1998 «Incident a Oglala» per la regia di Michael Apted. Ma la campagna in suo sostegno ancora continua, sia negli Stati uniti che in Europa: lo scorso 6 febbraio, a Barcellona, è infatti iniziato un presidio permanente davanti al consolato degli Usa, mentre in altri Paesi europei è stata promossa una nuova raccolta di firme, con un appello al presidente degli Stati Uniti. Già negli anni ’90 Clinton aveva deciso di firmare per la liberazione di Peltier ma le proteste dell’Fbi lo hanno fermato. Chiediamo ora ad Obama di fare ciò che Clinton non ha avuto la forza di fare.

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Peltier in una foto recente

In carcere Leonard è diventato un bravo pittore autodidatta, cercando di fare qualcos’altro che non fissare le quattro pareti che ne imprigionano il corpo. I volti del suo popolo, gli animali sacri e la riscoperta delle sue radici ancestrali gli danno una fede e una forza interiore che gli permettono di resistere, di aprire varchi di colori attraverso il muro, di guardare oltre il loculo di cemento in cui è costretto ad abitare. In una sua poesia, intitolata «Peccato aborigeno», Leonard denunciava la repressione fisica e anche culturale perpetrata contro la sua gente: «Siete colpevoli solo di essere voi stessi / di essere indiani / di essere umani / è la vostra colpa a rendervi sacri».

* L’articolo di Marco Cinque è stato scritto per il manifesto nel 2014 e poi ripubblicato nelle Scor-Date del blog di Daniele Barbieri

Il nostro diritto di ricercare la felicità. Nello spirito di Cavallo Pazzo

Stralci della lettera scritta da Leonard Peltier il 6 febbraio 2014, nel 38esimo anniversario del suo arresto

Molti giorni sono andati e venuti e sembra che io ripeta sempre le stesse cose, ma dovete capire che per 38 anni ogni giorno per me è stato uguale all’altro: ancora, ancora e di nuovo e per molta gente indigena la lotta contro questo mondo di tecnologia e corporazioni è andata avanti, sempre identica. […] Nelle terre indiane e in tutto il mondo ci sono uomini che lottano giornalmente per la libertà. L’America ha più gente in prigione di tutto il resto del mondo messo insieme. Il sistema giudiziario americano è diventato un’industria, non un mezzo per cercare la giustizia. Queste cose non cambieranno se noi gente comune non ci uniremocontro questi malvagi attacchi al nostro diritto di ricercare la felicità e di vivere in un mondo che non sia retto da una morale basata sull’ottenimento della ricchezza. […]

Molte persone, nel corso delle loro vite, nella ricerca della spiritualità possono raggiungere una fede, o per meglio dire la consapevolezza di essere chiamati a realizzare qualcosa. Se per qualche ragione non avete mai provato questo sentimento, anche senza lo stimolo della ricerca spirituale ma usando il mero buon senso, guardatevi intorno e osservate gli scenari che vi si presentano – l’impoverimento del mondo naturale, la perdita di acqua potabile, di aria pulita, di cibo sano – e troverete ragioni valide per proteggere queste cose e prevenire l’ulteriore distruzione della natura e della nostra terra. […]

Siamo stati creati e siamo nati in un circolo vitale e naturale, dove tutto dipende dal resto e tutti dipendiamo gli uni dagli altri. Dobbiamo unirci per riparare questo circolo vitale all’interno delle famiglie e delle comunità. E se le parole di un uomo di 69 anni rinchiuso in prigione possono arrivare a essere lette su queste pagine, so che voi potete fare ancora meglio. Possa il Grande Spirito benedirvi e darvi forza per condividere fatiche e gioie, conoscenza e perseveranza e per ritrovare le cose che noi, cittadini della terra, abbiamo perduto: la forza per proteggere ciò che rimane e la lungimiranza per prevenire altre perdite future.

Spero sinceramente di potere essere con voi il prossimo anno e di poter stare bene tutti assieme. Per il momento, abbracciatevi l’un l’altra per me. Il vostro fratello, sempre e in tutti i modi.

Nello Spirito di Cavallo Pazzo.

Leonard Peltier

Chi volesse scrivere due righe a Obama, fosse anche solo FREE Leonard Peltier,
può farlo qui, ci vogliono 3 minuti:   https://www.whitehouse.gov/contact

Leonard Peltier, detenuto politico sioux di Jean Marc Berte da Le Monde Diplomatique

Una buona ricostruzione del contesto che ha dato origine al caso Peltier

Ironico, ribelle, ballerino di tip tap così ricordo mio padre Ezra Pound

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È vero, papà ammirava Mussolini. Ma solo perché vedeva in lui un “Principe” alla Machiavelli. Non aderì mai al regime. Anche se era a Salò insieme a Gentile


Varia fu la vita di Ezra Pound. Sommò intelligenza sublime e operosa, ostentate polemiche (da parte soprattutto di coloro che ne videro un dilettante, anche se di talento) e punizioni terribili. Su quest’uomo — nato a Hailey nell’Idaho — che amò come pochi l’Italia tanto da considerarla una specie di patria culturale, scese una strana notte. Una di quelle notti che non creano legami, ma spavento, che tengono distanti gli uomini dalla vita. Non è facile immaginare cosa provasse in quei momenti e a quale grado di sopportazione fosse giunta la sua resistenza. Ma è con questa immagine senza fiato che vado a trovare la figlia di Pound: Mary de Rachewiltz nel suo castello sopra Merano. È una donna che, nei tratti, rivela un’antica bellezza (ha compiuto in luglio novant’anni). Energica e dolce. Dotata di uno spirito franco e battagliero. Capace di arrabbiarsi, denunciando l’appropriazione indebita che “Casa Pound” ha fatto del nome del padre: «Una vergogna», commenta asciutta.
Ci sediamo nella stanza dove Pound passò alcuni degli ultimi anni della sua vita. Tra i mobili in legno che progettò, alcune copie dell’ Ulysses , dizionari e i libri che erano serviti, in parte, alla stesura dei Cantos , in parte per lavorare su Dante e Cavalcanti. Proprio su Dante sono usciti i suoi saggi: un libro misterioso che Vanni Scheiwiller non fece in tempo a pubblicare e che ora vede la luce, per Marsilio, grazie all’ottima cura di Corrado Bologna e Lorenzo Fabiani.
Vorrei chiederle intanto del suo cognome. Lei non porta quello di suo padre. Perché?
«Era già sposato, e non poté unirsi in matrimonio con mia madre: Olga Rudge. Mi chiamo Maria Rudge. De Rachewiltz è il cognome di mio marito Boris: un personaggio a suo modo singolare. Fu egittologo, incline al mistero. Il padre acquistò questo castello dove, a un certo punto, ci trasferimmo».
Suo padre con chi era sposato?
«Con Dorothy Shakespear da cui ebbe un figlio, Omar. Ma il vero amore fu con mia madre. Un’irlandese testarda, eccellente violinista, innamorata di quest’uomo speciale. Si scambiarono lettere per quasi tutta la vita».
C’è un verso famoso dei Cantos: “Conta solo l’amore, il resto è spazzatura”. Davvero contò solo l’amore?
«L’amore era per lui qualcosa di universale. Non solo l’amore per una donna, ma anche per un poeta, per uno scrittore, per un paese o una città. L’amore era la capacità di vivere con intensità quanto gli accadeva».
E crede che suo padre l’abbia amata a sufficienza?
«Penso di sì. Fu straordinario, anche se intermittente, il nostro rapporto».
Però la sua infanzia non fu facile tra queste due presenze — sua madre e lui — così forti e autonome.
«Non fu facile ma fu felice. Vissi selvaggiamente i miei primi anni in una casa di contadini a Gais in Val Pusteria. A quel tempo la mamma — grazie alle sue competenze musicali — lavorava soprattutto a Siena con il Conte Chigi. Mentre il babbo viveva un po’ a Rapallo e un po’ a Venezia».
Perché suo padre scelse l’Italia come luogo dove vivere?
«Perché amava il bello e il bello era l’Italia, che ritrovava nei mosaici di Ravenna, nella pittura del Quattrocento o nella poesia del Trecento. Amava Venezia. Vi giunse la prima volta da bambino nel 1890».
È giusto ricordare l’attrazione estetica che suo padre ebbe per il nostro paese. Ma ci fu anche l’attrazione politica per il fascismo. Come giudica questo secondo aspetto?
«Mio padre non subì nessuna infatuazione dal regime fascista. Apprezzò viceversa la figura di Mussolini. Tanto che nel 1933 andò a Roma per donare una copia dei Cantos al Duce».
Cosa trovava nel grande dittatore?
«Pur tra gli equivoci che con il tempo si produssero, credo che vedesse in lui quello che Machiavelli vide nel
Principe , cioè la figura in grado di affrontare e risolvere i gravi problemi del paese. Tra l’altro era convinto che Mussolini non volesse la guerra. Ne parlò con George Santayana. Anche lui certo che Mussolini non avrebbe mai dichiarato guerra alla Francia e all’Inghilterra ».
E invece ci finì dentro. Lei come visse gli anni della guerra?
«Ricordo l’ultima vacanza a Venezia. Era l’ottobre del 1940. Con il babbo andammo al Lido. Ogni cosa sembrava spenta. Diversa rispetto agli sfavillanti anni precedenti. Vissi l’entrata in guerra con questa percezione di dissoluzione».
Come reagì?
«Ero disorientata. La mia educazione si era svolta fuori dagli obblighi scolastici che vivevo come un incubo. Amavo leggere quello che il babbo mi consigliava. Un libro che mi affascinò furono Fiabe del Kordofan di Leo Frobenius».
Si conoscevano Frobenius e suo padre?
«Piuttosto bene. Ricordo che nell’edizione tedesca era apposta una dedica di Frobenius. Poi i due si scambiarono lettere. Entrambi mostravano un grande interesse per le civiltà scomparse. Alle tracce che erano sopravvissute: “ Risvegliare i morti” sentivo a volte ripetere. Ossia la capacità di tenere assieme il mito e la storia. Ma sto divagando. Ricordo, sempre a proposito di libri, che quando lessi le memorie di Florence Nightingale decisi che avrei fatto l’infermiera».
Ci riuscì?
«Nell’aprile del 1944 fui presa come segretaria nell’ospedale tedesco di Pocol. Non era esattamente come fare l’infermiera ma entrai in contatto con quel mondo della convalescenza dove il confine tra speranza e disperazione non era del tutto definito».
Che gente si curava?
«Soldati tedeschi vittime anche loro della guerra. Soprattutto cinquantenni: infermi, feriti, malandati, spesso senza denti, ingrigiti nei capelli. Non era un bel vedere. Ricordo, poi, la stanza numero 20».
Cosa aveva di particolare?
«Era detta la stanza dei morituri. Ci portavano i casi disperati. Vidi uno di quei casi. Un aviatore, giovane. Malridotto. Mi scambiò per un dottore. Voleva che fossi io a curarlo. Gli dissi che ero solo una segretaria. Mi mostrò le sue foto. E la medaglia d’argento. Mi raccontò della sorella che studiava medicina a Norimberga. Alla fine riuscii a parlare con l’infermiera che lo aveva in cura e credo che grazie alla sua assistenza quel soldato sia stato uno dei pochi a uscire vivo dalla stanza numero 20 ».
La guerra era persa. I tedeschi in rotta. Mussolini decaduto. E poi il tentativo di fare un nuovo governo, una nuova patria: la Repubblica sociale. Suo padre aderì, perché?
«Forse per un assurdo senso dell’onore e della coerenza. Non era, del resto, capitato qualcosa di analogo a Giovanni Gentile?».
Gentile fu ucciso. Suo padre catturato alla fine della guerra. Lei era abbastanza grande per avvertire tutta la forza della tragedia che si stava consumando.
Quando ne ebbe la certezza?
«Dovrei fare un passo indietro. Quando ci fu l’attacco a Pearl Harbur, da parte dei giapponesi, mio padre restò sconvolto. Poi, l’America dichiarò guerra. A quel punto come tanti americani cercammo il rientro in patria con l’aereo. Ci fu negato. Ci proposero il piroscafo.
Lo consideravano schierato con il nemico.
Ma con il mare infestato di mine e di sottomarini sarebbe stato un suicidio. Poi gli congelarono i conti. In pratica le autorità americane resero impossibile il suo rientro ».
«Per i suoi discorsi alla radio? La verità è che i suoi pronunciamenti, al di là dei toni spesso aspri, erano una denuncia dei poteri forti e della politica del Presidente. Lo accusarono di tradimento».
Che idea si è fatta?
«Pensai che la situazione aveva preso una piega terribile. Ripensavo non solo all’ultima fase, ma anche ai fotogrammi precedenti. Ero tornata a Gais, dove ancora ci si poteva sfamare. Fu qui che lo rividi. Aveva lasciato Roma. Come un fuggiasco. Giunse che sembrava un’altra persona. Aveva i piedi arrossati, martoriati dalle vesciche. Le gambe gonfie. I vestiti sgualciti. Mi si strinse il cuore».
Cosa le dava più fastidio di questa immagine di suo padre?
«Non provavo fastidio. Era tutto comprensibile. Semmai ricordavo l’uomo diverso. Lo spirito ribelle e burlone. Di solito si tende a vedere in Pound solo la
maestosa severità. Non era così».
C’è qualche episodio che le torna in mente?
«La prima volta che io e la mamma arrivammo a Roma, ci portò a vedere Biancaneve e i sette nani . Ci divertimmo tantissimo ».
Gli piaceva il cinema?
«Sì anche quello più popolare. Non disdegnava la commedia americana. Una sera vedemmo un film con Fred Astaire. Quando uscimmo dal cinema il babbo cominciò a ballare il tip tap. Era buffo. Divertente. Sapeva farti ridere e al tempo stesso coinvolgerti in un’impresa. Fu con questo spirito, ad esempio, che egli volle che fossi io a tradurre i Cantos ».
Come avvenne questa investitura?
«Fu abbastanza semplice. Un giorno si presentò con una rivista dove avevano tradotto una parte dei Cantos .
La gettò sul tavolo e disse: vorrei vedere se sai fare di meglio. Intendeva, se potevo tradurre in modo più appropriato. È stato così che ho dedicato parte importante della mia vita a questa impresa».
A proposito di traduzioni, quando suo padre venne arrestato stava traducendo Confucio.
«È vero. Due partigiani — in realtà due ex fascisti, due avanzi di galera che si erano riciclati — seppero che c’era una taglia sulla sua testa. Non gli fu difficile individuare dov’era: sulle colline di Sant’Ambrogio. Vi arrivarono, smaniosi di incassare il denaro. Picchiarono alla porta con i fucili, il babbo era solo in casa. Aprì. Dissero che era un traditore e che lo avrebbero condotto al Comando».
Dove lo portarono esattamente?
«Prima a Zoagli. Da qui a Genova e poi al campo correzionale di Coltano vicino Pisa. Fu difficilissimo rintracciarlo. Alla fine riuscimmo a conoscere la destinazione. Arrivai con la mamma a Pisa. Ci accolsero in una tenda e dopo un po’ arrivò il prigioniero Pound. Disse che erano stati gentili. Non mi parlò allora del posto dove lo avevano rinchiuso. Fu tutto molto penoso. Poi giunse un ufficiale. Decretò con durezza che il colloquio era finito. Il babbo fu portato via».
Cosa accadde?
«Restammo sole, io e mia madre. Angosciate dalla vista di un uomo invecchiato con gli occhi rossi, la camicia e i pantaloni militari troppo grandi, i piedi nudi infilati nelle scarpe senza stringhe. Ci sorrise. Ci abbracciò. E sparì. Solo anni dopo, quando era internato a Washington al St.Elizabeth’s Hospital, mi raccontò cosa era stata l’esperienza pisana, in quella che lui chiamò la “gabbia del gorilla”. A quali sofferenze inaudite fu sottoposto».
Quando tutto questo ebbe termine, cioè circa 14 anni dopo, suo padre decise di tornare in Italia. I testimoni e le persone che lo videro notarono una persona molto diversa.
«Cosa intende?».
Un uomo che aveva scelto il silenzio.
«Era giunta l’età del tacere ».
A questo proposito ricordo un breve filmato televisivo in cui Pasolini nel 1968 intervista Pound. Si nota l’emozione di Pasolini e la distanza quasi remota di suo padre.
«Pasolini era stato tra coloro che avevano non solo approvato ma incitato alla galera. Trovai strano e forse un po’ contradditorio quel ripensamento, quella visita così ossequiosa».
Comunque gli amici che lo difesero e che non l’abbandonarono furono diversi.
«Mia madre fece di tutto per mobilitare le persone che lo avevano conosciuto e amato. Da Hemingway a T.S. Eliot».
Ho visto qui nel Castello in una teca un assegno di Hemingway a suo padre.
«Ah, l’ha notato! Mio padre non l’ha mai riscosso. Millecinquecento dollari che Hemingway aveva messo a disposizione del babbo. Non aveva un rapporto facile con il denaro».
E poi il nome “Pound”.
«Già il nome. È buffo. Homer, suo padre, fu impiegato della zecca».
Come furono gli ultimi anni?
«Sembrava un fiume prosciugato. A un certo punto non voleva più mangiare. Sentiva in lui crescere un senso di inutilità. Venne così il tempus tacendi. Il bisogno di ritrarsi dal mondo».
“Lasciate che un vecchio abbia quiete”, scrisse nei “Cantos”.
«Pensava di aver parlato troppo. Ricordo quella quiete. A volte, con la lentezza dei vecchi, lo vedevo passeggiare con mia madre. Sembravano due sculture di Giacometti. Esili. Enigmatiche. Mute. Due fantasmi usciti dai Cantos che avevano invaso i miei sogni».
Repubblica 13.9.15
Antonio Canova
L’ultima rivincita dello scultore del Bello odiato dai romantici
di Antonio Pinelli


Dagli altari alla polvere, per poi risorgere dalle proprie ceneri come una fenice: Canova è forse il più clamoroso esempio di quanto possano essere repentine quelle che Francis Haskell definiva le “metamorfosi del gusto”. Idolatrate dai contemporanei come opere di un Fidia redivivo, già pochi anni dopo la morte dell’artista le sue sculture divennero il bersaglio privilegiato della critica romantica. Da fedele interprete del precetto- cardine di Winckelmann – «imitare l’Antico per divenire inimitabili» – Canova appariva ai Romantici, non a torto, come il massimo interprete di una scultura ispirata al culto dell’Antico e del Bello Ideale, alla quale essi opponevano due nuovi ideali estetici perfettamente antitetici: l’originalità e la spontaneità. Di qui, il marchio d’infamia di “grande artista mancato” che Canova portò impresso fino a poco più di mezzo secolo fa, perché neppure la prima metà del Novecento, dominata dall’estetica crociana, ostile a qualsiasi filtro concettuale frapposto tra conoscenza intuitiva ed espressione, volle riabilitarlo. Da allora la rivalutazione di Canova come artista sommo è un fatto acquisito, grazie a storici dell’arte del calibro di Rudolf Zeitler, Hugh Honour, Giulio Carlo Argan e Fred Licht, anche se i pregiudizi romantici sono duri a morire e circola ancora la leggenda di un Canova frigidamente accademico e “grande solo nei bozzetti”. Ben venga dunque una mostra come questa che si tiene nel Centro Saint-Bénin ad Aosta, organizzata dalla Regione Valle d’Aosta con la collaborazione della Fondazione Canova e curata dall’infaticabile direttore del Museo e Gipsoteca canoviani Mario Guderzo, coadiuvato da Giancarlo Cunial ( Antonio Canova. All’origine del mito , catalogo Silvana Editoriale, fino all’11 ottobre). Sempre allo scultore è dedicata a Possagno la mostra L’arte violata
nella Grande Guerra ( fino al 28 febbraio 2016) e nella stesso Museo Gipsoteca il 26 settembre arriverà la Venere di Leeds .
Ad Aosta, intanto, una sessantina di opere – una trentina di candidi gessi, pochi ma significativi bozzetti in creta e busti in marmo, cui si affiancano dipinti a olio e deliziose tempere autografe e acqueforti che illustrano i capolavori statuari di Canova e il Tempio di Possagno – offrono l’opportunità di una rivisitazione a largo raggio dell’arte canoviana, che stimola una riconsiderazione globale del processo operativo messo a punto dall’artista. Chi esalta i suoi bozzetti e ne denigra le statue crede di compiere un atto critico, ma in realtà non fa che precludersene la strada. Non è mettendo Canova contro Canova che si può pretendere di decifrarne il messaggio artistico.
«Abbozzare con fuoco ed eseguire con flemma»: questo era un altro dei precetti di Winckelmann che Canova seguiva alla lettera. Non ha senso, infatti, isolare i vari stadi attraverso cui lo scultore veneto passava dalla fase ideativa all’opera compiuta, contrapponendo quelli iniziali al risultato conclusivo, perché ciascuna fase era sentita dall’autore come la tappa di un processo funzionale alla realizzazione del marmo finale. Schizzi preparatori e bozzetti conservano l’irruenza dell’ispirazione, ma registrano anche i pentimenti, i dubbi, e perfino una voluta sommarietà, che serve a far risaltare meglio la dialettica tra pieni e vuoti, luci e ombre. Spesso in Canova, il fulcro dell’immagine è il “buco nero” di un vuoto, e nei gruppi statuari egli studiava a fondo l’effetto plastico e drammatico derivante dall’ombra che le figure si proiettano vicendevolmente. Si passava quindi alla fase, delicatissima, del modello in creta, che doveva essere della stessa dimensione della statua da compiere e da cui si ricavava il gesso. Quella del gesso era una fase ancillare e meccanica, di cui si occupavano allievi e collaboratori, così come un compito degli aiuti era la sbozzatura del blocco in marmo, compiuta mediante un procedimento semimeccanico. Sul gesso venivano applicati i repère, chiodini di bronzo spesso tuttora visibili, che, riportati sul blocco di marmo grazie a un meccanismo di compassi e fili a piombo, fornivano ai lavoranti una traccia sufficientemente precisa per riprodurre in esso la forma del modello in gesso. A questo stadio, interveniva di nuovo Canova per giungere al compimento finale della scultura con quella che egli definiva “esecuzione sublime”: una fase meditata, “flemmatica”, che non mirava a raffreddare lo slancio creativo, ma a depurare il dato sensoriale con una distillazione formale e poetica che determinava il trapasso dal “Bello di natura” al “Bello ideale”. A Canova, infatti, premeva mantenersi in bilico tra verità e idea, carnalità e astrazione, antico e moderno, senza mai scivolare da una parte o dall’altra di quel sottile crinale. Ecco perché la sua Paolina Bonaparte, mollemente sdraiata su un sofà che sembra preso di peso dall’arredamento di Villa Borghese, iscrive il fascino seduttivo del suo corpo sinuoso nel geometrico dispositivo di un’astratta sequenza di triangoli. Morbide curve dentro un’invisibile armatura di linee rette. Pieni cui fanno eco vuoti, entrambi calibrati al millimetro. Una donna, che però è una dea. Un marmo, che è però “vera carne”.
La Stampa 13.9.15
Calvino
Una morte seguita in diretta
di Paolo Di Paolo


«Calvino sta morendo». Fa un certo effetto, a trent’anni dalla morte, ritrovare le cronache de La Stampa nei giorni del lungo addio allo scrittore. Colpito da emorragia cerebrale nel pomeriggio del 6 settembre 1985 a Castiglione della Pescaia, viene ricoverato a Siena: i giornali seguono con un’attenzione oggi forse impensabile il congedo, l’alternarsi di speranze e di peggioramenti. «Calvino si aggrava» si legge ancora su La Stampa due giorni prima della morte.
«La testa fasciata»
«Alterazione febbrile, ulteriore spasmo cerebrale»: il bollettino medico è pubblico, curioso paradosso per uno scrittore tanto schivo e insofferente alle biografie. C’è l’ansia dei lettori e del mondo della cultura internazionale, il viavai degli amici all’ospedale: Natalia Ginzburg racconterà di averlo visto, dopo l’intervento, con «la testa fasciata, le braccia nude fuori dal lenzuolo, abbronzate e forti, ed era assopito». «Mi riesce difficile pensarlo morto - aggiunge Ginzburg - Non so perché, ma la morte mi sembrava quanto mai lontana dalla sua persona».
Calvino era poco più che sessantenne, stava lavorando alle Lezioni americane, che avrebbe tenuto ad Harvard nell’autunno. Forse non immaginava con quanta ansia gli studenti lo aspettavano. Uno di loro, Jonathan Lethem, diventato poi scrittore, si trovò davanti un avviso con su scritto che erano annullate: «Vissi la sua morte come un affronto personale», ha raccontato. Le cronache di questa morte inattesa e insieme annunciata fanno cortocircuito con i testi a cui Calvino stava lavorando: una conferenza dal titolo eloquente, Cominciare e finire, e la lezione americana non scritta, Coerenza.
Il silenzio
In entrambe, il silenzio è un tema centrale. Forse, agli studenti di Harvard (e a noi), Calvino avrebbe detto che sì, certo, aveva parlato molto di scrittura, lui che molto aveva scritto, ma che l’ultima lezione non poteva che essere sul contrario di scrivere. Stare zitti ancora per un po’, pensare, evitare di aggiungere altre parole, «preferire di no». Fermi, e solidi, nel ronzio di fondo, in ascolto, convinti che un silenzio - il silenzio - non solo è più eloquente, perfino più utile di molti discorsi. È più «coerente», e più onesto. Quanto a Palomar, il suo romanzo ultimo, finisce così: «Se il tempo deve finire, lo si può descrivere, istante per istante, pensa Palomar, e ogni istante, a descriverlo, si dilata tanto che non se ne vede più la fine. Decide che si metterà a descrivere ogni istante della sua vita e finché non li avrà descritti tutti non penserà più d’esser morto. In quel momento muore».
Lo scrittore che più progetta, combina, esplora le possibilità della scrittura, i generi e le forme, sembra infine ossessionato da ciò che nega le parole, le interrompe. Dal silenzio, dalla pagina che finalmente resta bianca, come la distesa di neve alla fine di Marcovaldo. Ma ci parla del «senso di una fine» anche la chiusa del Barone rampante, con quell’ultimo «grappolo insensato di parole idee sogni». «Per me invece è la fine che conta» dice un lettore in Se una notte d’inverno un viaggiatore, «ma la fine vera, ultima, nascosta nel buio, il punto d’arrivo a cui il libro vuole portarti». Un altro confessa che il suo sguardo scava tra le parole «per cercare di scorgere cosa si profila in lontananza, negli spazi che si estendono al di là della parola ’fine’».
Il non dire
È là che va cercato e riletto Calvino, in questo suo eterno corpo a corpo col non dire, con il non dicibile e non detto, con la parola assediata dal suo contrario. All’indomani della scomparsa, su La Stampa, Nico Orengo ricordava come Calvino - «per ragionare, per riflettere un attimo di più» - fosse capace di inventarsi una finta balbuzie. Forse proprio per questo aveva scelto lo scrivano di Melville come protagonista dell’ultima lezione. Bartleby, con il suo «avrei preferenza di no», diventa inespugnabile, invisibile, muto. Rinuncia a parlare, e soprattutto a scrivere. Una forma di sublime apatia, contro un mondo che chiede troppo, contro la vitalità dei tempi, «rumorosa, aggressiva, scalpitante e rombante»?
È un ripiegamento difensivo o una più alta forma di presenza - sospesa, senza arroganza, senza illusioni? Forse ad Harvard avrebbe spiegato che scrivere ha molto a che fare col non scrivere. Forse avrebbe spiegato che dire no, o non dire, è il gesto di coerenza più grande. Forse avrebbe difeso anche la scelta di farsi da parte, di rinunciare quasi a esserci: scomparire, farsi tentare dalla rinuncia. Forse avrebbe detto che essere sé stessi fino in fondo può somigliare anche a un gesto di mitezza estrema. A un silenzio.
La Stampa 13.9.15
Ripensare Calvino oltre il cliché
della leggerezza
A trent’anni dalla morte le Lezioni americane restano la sua opera meno compresa
di Marco Belpoliti


Calvino? Le Lezioni americane. La leggerezza. Il brand dello scrittore, se così si può dire, è saldamente legato a quel libro postumo, all’idea del «togliere peso»; del resto, viviamo da vari decenni dentro il mondo dell’immateriale. E se, invece di lasciarci all’improvviso in quel settembre del 1985 , Calvino avesse potuto terminare le sue conferenze a Harvard, scrivendo l’ultima, quella sulla
Consistency, dedicata a Bartleby lo scrivano di Melville, quale immagine avremmo di lui? E se la sua idea di autobiografia senza Io, di cui ci resta l’abbozzo de La strada di San Giovanni, fosse stata portata a termine, come lo considereremmo?
Insieme a Pasolini e Primo Levi, Calvino è il più noto scrittore italiano della seconda metà del XX secolo. Certamente è ancora uno dei più letti, se è vero che nelle nostre scuole circola il Sentiero dei nidi di ragno, unico libro sulla Resistenza che i giovani hanno tra le mani, e anche la trilogia dei Nostri antenati che sembra reggere nel tempo, mentre non c’è architetto che non citi Le città invisibili, il suo capolavoro letterario, anche se sovente a sproposito. Non si può fare la storia con i se e con i ma, tuttavia le Lezioni americane hanno prodotto nella vulgata corrente una distorsione nella percezione del lungo, ampio e complesso lavoro di Calvino. Le citazioni prevalenti vanno alla lezione sulla Leggerezza, o al massimo a quella sulla Rapidità, mentre quasi nessuno richiama Visibilità o Molteplicità, ben più complesse, e certamente meno cool.
La lezione mai scritta
Il titolo americano delle Lezioni era più concreto e diretto: Six memos for the next millennium. Più un post it che una Bibbia del futuro. Calvino era intenzionato a riscrivere e sistemare i capitoli dei suoi interventi americani pensando ai lettori italiani. Inoltre, senza la finale lezione sulla «coerenza» (consistenza o compattezza) è difficile dare un senso a quello che viene passato come il suo testamento. A leggere gli apparati che Mario Barenghi ha allestito nel Meridiano dei Saggi, ci si rende facilmente conto che gli autori che Calvino avrebbe citato nella lezione mancante erano tutti personaggi, da Bartleby a Wakefild, che dicevano di no, che scomparivano, sottraendosi ai legami sociali: lavoro, matrimonio, residenza. Decisamente le Lezioni americane non hanno giovato alla comprensione di Calvino, non certo per colpa sua, ma per demerito di molti lettori, anche colti, che l’hanno eletto a profeta della leggerezza, là dove lui era invece il cantore da almeno venti anni del suo contrario: la pesantezza.
La pesantezza
Si è confuso, e si continua a confondere la leggerezza della scrittura di Calvino, frutto di un lavoro incredibile, come testimoniano gli autografi, con l’idea di leggerezza in generale. A partire dal 1968, Calvino ha cercato di contrastare la pesantezza che era entrata nel nostro mondo in modo forse definitivo. La nuova pesantezza, che egli cercava di diradare con l’utopia pulviscolare di Fourier, lascito del suo Sessantotto, gli era apparsa alla fine dei Sessanta più densa e consistente di quella degli anni di ferro del comunismo staliniano; con grande realismo il fantasioso autore del Barone rampante aveva cercato di contrastare la visione cupa subentrata allora mobilitando i suoi personaggi di carta, come il signor Palomar, un Marcovaldo redivivo, con tanto di occhiali, biblioteca di letture e pensieri da scrittore.
Calvino non può essere compreso se non si considera che è stato, oltre che uno scrittore, un intellettuale, il quale pensava il proprio lavoro letterario tarandolo sull’attualità sociale e politica, mediando continuamente tra questa e il suo talento e il suo carattere. Non c’è un libro di Calvino uguale all’altro, per quanto si continui a considerarlo uno scrittore unitario, o al massimo con due movimenti: primo e secondo Calvino. Come Levi, Calvino è un poliedro con tante facce. Certo, la coerenza era uno dei suoi problemi principali, ma non è solo su questo metro che possiamo oggi valutarlo.
Un doppio metro
Cos’è vivo e cosa morto del suo lavoro? Vivissimo è il suo libro d’esordio, Il sentiero, che ha guadagnato con il passare degli anni; anche i libri della Trilogia hanno una loro vitalità, Il barone rampante più di tutti. Le città invisibili sono un libro indecifrabile, misterioso e inafferrabile, che attende ancora i suoi lettori ideali. Meno efficaci sono invece i libri «realisti» come La speculazione edilizia o La giornata di uno scrutatore, per quanto sia uno dei suoi libri che amo di più. La vena favolistica continua a mantenere vive Le cosmicomiche, sebbene meno riuscite di altre parti della sua opera, tuttavia anche questi racconti contengono temi – la biologia ad esempio – che probabilmente torneranno utili in prossimo futuro.
Calvino non è stato solo un letterato; la sua valutazione non va compiuta tenendo conto del valore estetico dei suoi testi, o almeno non solo. Vale per lui, come per Pasolini e Levi, la considerazione su quanto la letteratura illumini aspetti decisivi della nostra esistenza, dalla psiche individuale ai grandi problemi sociali. La sua durata si misura su questo doppio metro.
Corriere 13.9.15
Troppe paure sulla crisi cinese ma urgono riforme per il futuro
Il Paese rimane il più grande soggetto commerciale del mondo
di Ian Bremmer


A luglio, la China Digital Times, un osservatore basato negli Stati Uniti che analizza le notizie provenienti dalla Cina, ha pubblicato un documento trafugato, il quale, secondo le indiscrezioni, informava i giornalisti cinesi, impegnati a seguire i mercati finanziari del Paese, di essere sotto sorveglianza da parte degli organi di governo. «Vi sconsigliamo dal condurre analisi approfondite, dall’avanzare congetture o valutazioni riguardo alle tendenze di mercato», avvertiva il memorandum. «Non esagerate né diffondete sensazioni di panico o di sconforto. Non utilizzate termini carichi di valenze emotive, come “calo”, “impennata” o “crollo”». Oggi sappiamo che il governo cinese faceva terribilmente sul serio. Negli ultimi giorni, difatti, i mezzi di comunicazione cinesi, controllati dallo Stato, hanno pubblicato le «confessioni» rese dai giornalisti che si sono accollati la responsabilità dei recenti scossoni avvertiti dal principale mercato azionario di riferimento, quello di Shanghai.
Ma non è la volatilità del mercato in Cina (né le possibili ripercussioni sulla seconda economia mondiale) a creare timori, quanto piuttosto la reazione ufficiale di Pechino, che davanti a questi problemi non ha saputo far altro che mettere a tacere ogni tentativo di discussione su come reagire alla crisi, preferendo cercare capri espiatori.
I timori per la tenuta dell’economia cinese sono indubbiamente esagerati. Da un lato, è naturale temere l’impatto globale di un rallentamento superiore alle attese in quella parte del mondo. La Cina, oggi, è il più grande soggetto commerciale al mondo, da sola è in grado di determinare i prezzi delle materie prime. I mercati azionari europei ed americani salgono o scendono a seconda dei suoi ultimi dati manufatturieri. Tuttavia, il gigante emergente non è affatto avviato verso un «atterraggio duro» nel prossimo futuro. La capacità dello Stato di stimolare i prestiti bancari e di investire grosse cifre in importanti progetti infrastrutturali suggerisce che la Cina riuscirà ad avvicinarsi al suo obiettivo di crescita per quest’anno, fissato a «circa il 7 per cento».
È vero che la borsa di Shanghai ha perso il 40 per cento nelle ultime settimane, ma questo segue un rialzo del 150 per cento nell’arco dell’anno precedente. Perché mai dobbiamo prendere il calo brusco come rivelatore della reale forza dell’economia cinese, anziché il rialzo precedente, tra l’altro molto più cospicuo? In realtà siamo di fronte a un mercato immaturo, che rappresenta un barometro molto più affidabile per misurare la volontà di controllo del governo, che non la reale economia cinese. In Cina, solo una persona su 30 detiene azioni, una percentuale molto inferiore rispetto ai mercati evoluti.
Né è il caso di allarmarsi eccessivamente per la decisione della Cina di svalutare la sua moneta. Questa mossa non è stata incisiva abbastanza da alterare significativamente la bilancia commerciale cinese con i suoi maggiori partner, e il Fondo monetario internazionale ha elogiato questa strategia, perché riporta il valore della moneta in linea con le forze di mercato. In breve, l’economia cinese è più stabile di quanto non siamo in grado di apprezzare.
Ma prima di decidere se sia il caso di ignorare ogni timore per la stabilità della Cina, speriamo che questa estate turbolenta convincerà i governi e le imprese, che fanno troppo affidamento sull’espansione cinese, a prestare maggiore attenzione ai pericoli sul lungo termine, che sicuramente dovranno affrontare se non adotteranno le dovute cautele. È probabile che la Cina resterà stabile negli anni a venire, ma la tendenza dei suoi governanti a fare marcia indietro sulle riforme necessarie — intervenendo, per esempio, a puntellare i mercati che sarebbe meglio lasciare agire indisturbati — appare preoccupante. Ancor più inquietante è l’abitudine dei leader cinesi a ricorrere alla censura e alla repressione.
Ma esiste anche un’altra preoccupazione. La Cina non resterà forte e stabile per sempre, in assenza di riforme economiche. In particolare, il governo cinese dovrà affrancare l’economia dall’eccessiva dipendenza dalle esportazioni, invogliando il pubblico cinese ad acquistare beni di consumo prodotti in Cina. Questo è essenziale per favorire la creazione di un’ampia classe media e assicurare una crescita sostenibile a lungo termine. Pertanto il successo dipenderà da un enorme trasferimento di ricchezza ai consumatori cinesi.
Per assicurare che coloro che saranno chiamati a mettere a disposizione gran parte di questa ricchezza non ostacolino le riforme, il presidente Xi Jinping ha lanciato un movimento anticorruzione che ha già espulso migliaia di funzionari dal governo, e ne ha spediti in prigione altrettanti. Per ora, Xi resta saldamente al comando, ma un numero crescente di potenziali nemici all’interno della leadership potrebbe essere in attesa del momento opportuno per passare all’attacco e respingere le riforme. Questo è un rischio a lungo termine di cui si dovrà tener conto.
In breve, i timori per un dissesto a breve termine sono esagerati. Ma se riusciranno a convincere i governi e le imprese, che dipendono dalla crescita cinese, a prepararsi ad affrontare una maggior volatilità — e a premunirsi contro l’eventualità che la Cina non riesca a sostenere una crescita stabile sul lungo periodo — allora questi timori si saranno rivelati estremamente utili.
(Traduzione di Rita Baldassarre)

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