
Per togliersi la vita bisogna possederne una, esistere, e così non è per tanta parte degli umani. Ombre. Ezra Pound, lui sì che avrebbe potuto: ne aveva diritto, ma preferì il silenzio d’un canto interiore. Bello fin da giovane di una bellezza tragica come certe lontananze al crepuscolo, e ancora più bello nella “gabbia del gorilla” in quel campo di concentramento vicino Pisa, dove fu rinchiuso per tre settimane dagli americani alla fine della Seconda guerra mondiale, prima d’essere immerso per dodici anni nel precipizio del manicomio criminale di St. Elizabeths (accusa: alto tradimento per via dei suoi 300 fascistissimi discorsi alla radio dell’Eiar). Venerando e biancheggiante di suprema, barbuta, ieratica bellezza, infine, nell’ultimo miglio dell’esistenza, quello del ritorno in Italia, liberato nel 1958, inquieto e muto fino alla morte del primo novembre 1972. Di Ezra Pound, poeta del Novecento, anzi poeta che è il Novecento, sappiamo tutto, o forse crediamo. Ma è così?
Ho appena finito di vedere il documentario inedito che verrà trasmesso stasera su Sky Arte HD, alle 20.15, “Ezra Pound - Poeta”, in occasione dei 130 anni dalla sua nascita: dura 45 minuti ed è sufficiente a capire, compatire e onorare la memoria insopprimibile di un “viadotto verso l’onestà”, come lo definisce, arieggiando parole sue, la figlia Mary de Rachewiltz, intervistata assieme al nipote Sigfried, al filosofo Massimo Cacciari, allo scrittore Pietrangelo Buttafuoco e a pochi preziosi altri, in una narrazione che culmina in un frammento d’intervista ottenuta da Pier Paolo Pasolini nel 1968, estremo e inattuale omaggio a una grandezza che sgomenta.
Ma ricominciamo daccapo. Il documentario di cui scrivo andrebbe mostrato in ogni scuola italiana, con l’obiettivo, sì, di non dimenticare che Pound fu “un vero americano” (Sigfried), un vero “mussoliniano senza benefici” (Cacciari), un vero poeta (chi negherebbe?). Ma andrebbe diffuso sopra tutto per conoscere e condividere l’unità di misura dell’ultimo secolo che mirò alla totalità, e fu perciò totalitario. Discendente di giudici, ladri di cavalli e poeti, statunitense per natura e italiano per essenza dantesca, confuciano per vocazione universale, perché “la poesia fu in lui la chiave per schiudere la porta d’oriente” (Buttafuoco), ineluttabile ma non definitivo romitaggio dell’anima, Pound crebbe come un diamante solitario e tale volle restare, anche quando a circondarlo erano figure come Picasso, Tzara, Cocteau, Hemingway, la sua famiglia (la diafana Mary su tutti, ancora eterea mentre apre alla tivù gli scrigni poundiani di Brunnenburg), i suoi camerati di prigionia (Raimondo Vianello, Enrico Maria Salerno, Ugo Tognazzi, Walter Chiari). Dei suoi Cantos, quarantennale poema epico-esoterico, appare ormai ultronea ogni aggettivazione: “Opera epocale e teologia poetica”, dice Cacciari orgoglioso del legame equoreo tra Pound e Venezia; manifesto programmatico di “una integrazione totale tra mondo sociale e natura” fondata sull’armonia del suono cosmico, secondo il biografo David Moody; e così via.